29
Ago
2012

Una proposta per migliorare l’offerta formativa delle nostre università – di Massimo Famularo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Massimo Famularo (@massimofamularo).

Discutere in modo obbiettivo delle condizioni attuali e delle possibili aree di miglioramento del nostro sistema universitario è un’operazione particolarmente complicata. Il numero chiuso è un filtro di efficienza oppure una barriera all’entrata nelle mani degli incumbent? Occorre destinare più fondi e/o utilizzare meglio quelli esistenti? Quali indicazioni dovremmo trarre dal numero elevato dei fuori corso?

Di seguito provo a suggerire un miglioramento che, pur incrementando l’efficienza del sistema, non dovrebbe incontrare resistenze di tipo ideologico o strategico.

Supponiamo di somministrare una volta all’anno agli studenti un test con domande a risposta multipla, differenziato per ciascuna facoltà, ma uniforme lungo il territorio nazionale.

Prima dell’accesso all’università, sulla base dei risultati del test sarà possibile ripartire gli studenti in tre gruppi

  1. Preparazione insufficiente per accedere alla facoltà desiderata
  2. Preparazione sufficiente top tier
  3. Preparazione sufficiente bottom tier

Gli studenti che hanno un punteggio insufficiente non verranno ammessi all’università e verranno segnalate loro le aree in cui devono integrare la propria preparazione.

Gli studenti sufficienti vengono ordinati per punteggio, i primi n, dove n è il numero massimo di studenti ai quali l’università è in grado di fornire efficacemente formazione in aula, vengono definiti top tier. I restanti studenti, qualificati come bottom tier, potranno ricevere solo formazione fuori aula, assistendo alle lezioni in streaming e comunicando via email e chat con tutor messi a disposizione dall’università.

In questo modo potremmo

  • garantire che tutti quelli che accedono all’università abbiano una base comune uniforme e ridurre i problemi causati dal rallentamento del corso di studi dovuti a carenze nelle competenze di base
  • destinare le risorse disponibili per la formazione in aula ai soggetti che possono trarne maggior profitto riducendo i problemi dovuti alla congestione e sovraffollamento
  • assicurare a tutti gli altri una formazione a distanza (da valutare se tenere comunque almeno gli esami di persona è meno costoso di approntare sistemi di verifica a distanza dell’identità)
  • verificare quanto le scuole secondarie superiori sono efficaci nel fornire ai propri diplomati le competenze di base per accedere all’università ed eventualmente intervenire ove opportuno

Negli anni successivi il test viene ripetuto e la classifica aggiornata :

  • in base al punteggio conseguito si può passare dal top tier al bottom e viceversa
  • la dimensione del top tier negli anni successivi è determinata dalla capacità dell’ateneo di offrire formazione in aula
  • misuriamo in itinere la capacità dei singoli atenei di assicurare ai propri studenti determinate competenze di norma necessariamente acquisite in base al corso di studi

Si noti che poiché la formazione a distanza può essere fruita su tutto il territorio nazionale o all’estero, gli studenti del bottom tier possono scegliere a piacimento a quale università fare riferimento.

Dopo la laurea il test standard viene sostenuto per l’ultima volta:

  • verifichiamo che un determinato set di competenze di base sia posseduto da tutti i laureati del paese
  • al limite si potrebbe sospendere la laurea per chi, pur avendo conseguito il titolo presso un ateneo, non riesce ad ottenere un punteggio di sufficienza nel test standard
  • valutiamo quali università e in che misura sono capaci di fornire competenze di base minime ai propri studenti e rendendo pubblici i risultati si innesca un virtuoso meccanismo di competizione

I benefici sarebbero

  • migliore allocazione delle risorse disponibili, riduzione del sovraffollamento, assistenza dedicata agli studenti nella compensazione delle lacune di base
  • misurazione della performance delle scuole superiori e dei singoli atenei con riferimento alla capacità di fornire agli studenti almeno un set di base di competenze ritenute indispensabili e possibilità di utilizzare i risultati ai test come misura della qualità degli istituti premiando i migliori e al limite chiudendo o riformando quelli i cui troppi studenti non raggiungono la sufficienza
  • omogeneizzazione della preparazione (nel senso di verifica dell’esistenza almeno di una soglia minima nella preparazione di base)

Una potenziale obiezione è che l’offerta formativa venga distorta e indirizzata a preparare gli studenti al superamento del test. In realtà il test misura solo il minimo indispensabile e serve per selezionare gli studenti ai quali fornire accesso in aula, dunque è volto a individuare i “casi gravi” e ottimizzare le risorse scarse degli atenei allocandole ai soggetti che potenzialmente potrebbero sfruttarle in modo più proficuo.

In sintesi, l’idea è cercare di utilizzare meglio le risorse disponibili e di armonizzare, almeno a livello di competenze di base l’offerta formativa del nostro sistema universitario. Lo strumento proposto è un sistema di test standard per valutare la preparazione degli studenti e i risultati potrebbero venire impiegati anche come riferimento per allocare fondi pubblici ed intervenire su istituzioni con troppi studenti al di sotto della sufficienza. Facendo leva sulla possibilità di erogare formazione a distanza tutti gli interessati avrebbero la possibilità di ricevere la formazione in modo da evitare qualunque discussione sul “diritto allo studio” o su eventuali disparità di trattamento.

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11 Responses

  1. giuseppe 1

    A mio avviso non ci siamo.

    L’offerta formativa è una cosa. Altro è la sua fruizione.

    L’offerta formativa è fin troppo ampia. Troppi sono gli insegnamenti e troppi sono i luoghi in cui vengono erogati, con relativi costi.

    Riguardo alla fruizione,potremmo distinguere fra Atenei statali e privati.
    I primi potrebbero,volendo, imporre delle regole,i secondi debbono attenersi semplicemente alle richieste del mercato,garantendo comunque uno standard prefissato. Ma è giusto ed opportuno?
    Lo scopo della Scuola di ogni ordine e grado non è solo quello di garantire l’accesso al lavoro, ma anche quello di rispondere alla semplice domanda di formazione dei cittadini. A qualunque scopo sia essa destinata.

    In questo quadro l’abolizione del valore legale del Titolo di Studio sgombrerebbe il campo dai molti dubbi sollevati.

    Che poi ci sia bisogno di una valutazione preliminare, è ovvio. Ma ci sono i Test d’Ingresso ed i percorsi di recupero per i debiti formativi.
    Sono contrario invece al numero chiuso, che genera la possibilità di imbrogli di vario genere. Più giusto pensare ad una progressione di selettività. Per il Dottorato mi sembra sia già prevista. Per la Laurea Magistrale si potrebbe pensare ad una votazione minima da ottenere nella Triennale.
    Per quanto riguarda il problema del fuori-corso ci sono vari aspetti da considerare. Il primo è che gli utenti hanno tutto il diritto di graduare l’avanzamento del loro percorso di studi in base alle loro esigenze lavorative o semplicemente di vita. Alcune Università hanno autonomamente previsto l’Istituto del Part-Time. Forse sarebbe il caso di estenderlo per Legge? Il secondo aspetto deriva dalla constatazione che non tutti i Corsi di Laurea presentano le stesse difficoltà. Un conto è essere fuori corso a Lettere,Giurisprudenza o Economia. Un altro esserlo ad Ingegneria,Fisica o Matematica. Avendo avuto esperienza sia del primo “gruppo” citato, che del secondo, posso assicutare che è una cosa totalmente diversa.
    Non credo poi che gli studenti fuori corso incidano sui bilanci delle Università, ma piuttosto li alimentano positivamente. Non ci sono quasi mai, non ingolfano i Servizi accessori. Vanno solo a sostenere gli Esami.

  2. Lorenzo62

    Mi spiace dissentire dall’articolo, ma qui c’è una cosa da cambiare A MONTE di qualunque proposta: il METODO. Possibile che nessuno voglia prendere in considerazione l’opinione dei diretti interessati, vale a dire docenti e studenti? Loro non “fanno” l’Università: SONO l’Università. Perché si insiste col solito sistema dei vecchi parrucconi, di immaginare a tavolino, per astrazione, cose che poi proprio per questo si rivelano sistematicamente dei fallimenti sul campo? Mi sembra di rivedere l’ennesima riforma dell’ennesimo Ministro che scompagina quella del predecessore e sempre avanti così, ciascuno a voler imporre la propria visionaria “visione del mondo” su un Mondo che però, oltre che imparare avrebbe forse anche qualcosa da insegnare, anche a se stesso: lasciamo che i cittadini imparino ad imparare (mi si passi il bisticcio di parole: è voluto) dalla propria esperienza, anche attraverso i propri errori. Io formulerei una proposta alternativa: istituire una Consulta Nazionale (permanente) della Formazione, che riunisca, intorno ad alcuni principi fondamentali preventivamente concordati, Amministratori, Direttori (Rettori e Presidi), Docenti, Studenti e Genitori (per le scuole primarie e secondarie), organizzata in rami differenziati, uno per ogni specifico ambito di insegnamento. Io preferirei che ci fosse un Istituzione del genere ad auto-disciplinare il proprio settore, e non solo per l’Istruzione; gli darei il ruolo di Istituzione pubblica ed il compito di elaborare le proprie risoluzioni in forma di Disegno di Legge, sostituendo il “Ministero”, che se in altri ambiti (come ad esempio la Difesa) è ancora la forma di Amministrazione più appropriata, in un ambito come questo (o come, ad esempio quello della Sanità, dove darei la parola a Medici, Paramedici e Cittadini (in qualità di Pazienti)) appare come un retaggio ottocentesco del modo di intendere l’istruzione e la sua organizzazione come “elargita dall’alto” e che vede non solo il destinatario (lo studente) ma anche l’attore (l’insegnante) relegato ad un ruolo assolutamente passivo. Sarebbe ora di realizzare una liberalizzazione culturale, anche su certe cose.

  3. Davide91

    Io, da studente, credo invece che il problema delle università sia il problema del sistema dell’istruzione in generale e che parlare di riforma dell’università come se fosse parte autonoma dal resto (benché le logiche che governano l’università e il suo prestigio siano altra cosa rispetto a quelli di primarie e secondarie) lascia il tempo che trova.
    Innanzitutto, bisognerebbe chiedersi se l’obiettivo è semplicemente quello di ridurre il sovraffollamento degli atenei per risparmiare risorse o di migliorare l’efficienza dell’istruzione in senso lato per accrescere le risorse. Personalmente, l’obiettivo è il secondo. Allora il numero chiuso è assurdo perché i test propinati dalle università (penso al mefitico test di medicina, per esempio) non hanno il minimo valore in termini di valutazione delle competenze o delle conoscenze, piuttosto sono dei terni al lotto o delle truffe organizzate, a seconda dei casi, col puro scopo di sfoltire la platea a casaccio. I “test standard” menzionati nell’articolo, poi, sono ridicoli: non solo farebbero la fine dei test d’ingresso, ma in più ghettizzerebbero i “bottom tier” (su base annuale in più!).
    La verità è che tutte queste elucubrazioni non sarebbero necessarie se primarie e secondarie formassero individui che al termine dei rispettivi percorsi formativi sapessero cosa fare della loro vita – un minimo, dico. L’università è il refugium di tutti coloro che hanno tempo e denaro da sprecare ma la causa va cercata nella società: la famiglia che non educa alla responsabilità e allo sforzo e la scuola che forma poco e male.

  4. @Lorenzo62
    Non capisco se il dissenso riguarda l’approccio o il merito della proposta.
    L’idea è che le risorse sono scarse, impiegate in modo subottimale e che gli atenei che non hanno una selezione all’ingresso (sia essa operata da test o dall’imposizione di rette elevate) sono sovraffollati. Inoltre se il tempo MEDIO in cui gli studenti riescono a conseguire la laurea è superiore alla durata del corso di studi direi che si può dire che qualcosa non funziona o no?
    I diretti interessati vanno ovviamente consultati e la loro opinone tenuta nella massima considerazione, non era mia intenzione calare dall’alto alcun provvedimento (non ne avrei il poterte, posso proporre degli spunti su un blog, mica sono un ministro). Va tuttavia sottolineato che il diretto interessato ha sempre un conflitto d’interessi soprattutto se è un dipendente pubblico o fruitore di servizi pubblici.
    Secondo lei tra provare a impiegare meglio i fondi che hanno e chiederne di più a prescindere i diretti interessati (salvo le solite lodevoli eccezioni) cosa farebbero?

    La consulta e tutto il resto per me hanno un senso solo in caso di autosufficienza: se ogni ateneo gestisce fondi che ha raccolto da solo (più alcune integrazioni dallo stato a sostegno degli studenti meno abbienti, ma meritevoli in forma di borsa di studio o prestito) va benissimo che si auto regoli.

    Se dobbiamo costituire l’ennesimo organo pubblico che ragiona su fondi non suoi non faremmo altro che produrre l’ennesimo centro di inefficienza.

  5. @Davide91
    Non credo che il fatto che i test siano stati impiegati in modo non appropriato ne infici l’utilità come strumento.
    In fondo non si tratta di fornire una valutazione completa del merito, ma di accertare l’esistenza di requisiti minimi. Se non si riesce a farlo con test standard, quale altro modo esiste?

  6. giuseppe 1

    @Massimo Famularo

    Sono d’accordo.
    I test sono forse uno strumento imperfetto,ma un qualche valore lo hanno.
    Il problema, semmai, è che gli Atenei li hanno elaborati anche in modo del tutto autonomo. Alcuni hanno fatto un ottimo lavoro.

  7. Lorenzo62

    @Massimo Famularo

    Il mio dissenso non riguarda la gestione dei fondi, per la quale si pone certamente il problema di conflitto di interessi da Lei esposto. Non essendo io un economista, il mio approccio si limita ad altri aspetti, più pratici e mi scuso se non sono stato molto chiaro su questo. Io ho un mio modo particolare di interpretare l’idea del “ridurre lo Stato”, ovvero non solo riducendo la spesa pubblica, ma anche gli ambiti di intervento e regolamentazione. Mi spiego meglio: fermo restando che un indirizzo generale bisogna pur averlo, nel dettaglio io preferirei promuovere l’autoregolamentazione, settore per settore, fin dove possibile. Se gli insegnanti potessero stabilire autonomamente gli obiettivi didattici e l’organizzazione del lavoro, forse avrebbero un motivo in meno di scioperare per “chiedere” allo Stato regole più efficienti; altresì se gli studenti potessero instaurare con il proprio istituto o ateneo, un rapporto collaborativo e partecipato, forse avrebbero meno motivi di organizzare occupazioni e cortei per “contestare” l’ennesima riforma ministeriale. In sintesi, quello che intendo è ridurre non solo lo Stato, ma anche lo statalismo; non solo il carico finanziario (a cui, ripeto, non alludevo), ma anche (e soprattutto, secondo me) l’invadenza dello Stato nella gestione di ogni cosa che si muove. Spero di aver chiarito. Cordiali saluti.

  8. Davide91

    @Massimo Famularo e @giuseppe1

    Purtroppo mi trovo a dover insistere sui test, anche in virtù del fatto che l’oggetto dell’articolo è proprio la ricerca di soluzioni per l’ottimizzazione delle risorse scarse (dove per “risorse” io intendo tutto il patrimonio di cui l’università dispone, ovvero anche i talenti che è in grado di coltivare). Lasciamo perdere per un attimo il presupposto del mio intervento, cioè che se i cicli precedenti l’università facessero formazione seria e vero “orientamento” – come si usa dire – non si porrebbe il problema dei requisiti minimi. Piuttosto, consideriamo che cosa significa “requisito minimo” per i test attualmente in vigore, robe da restare basiti: si tratta invariabilmente di cose che dovrebbero essere insegnate nell’ambito dei corsi stessi della facoltà che eroga il test!! Per fare solo i due esempi più comuni, ad architettura bisogna riconoscere degli edifici dalla loro pianta (non saper distinguere le Piramidi da San Pietro, ma Sant’Eustorgio a Milano da Sant’Apollinare in Classe a Ravenna) e per le scienze mediche bisogna avere nozioni avanzate di chimica, biologia e fisica/matematica (cose che per chi viene da un classico, per esempio, dove l’ultimo anno è dedicato a scienze della terra, termodinamica e trigonometria, sono sconosciute e meritano quintali di lavoro privato, frustrante e costoso. Non per niente la scorciatoia di molti è iscriversi a un anno di biologia/farmacia/chimica e affini per poi entrare a medicina vedendosi riconosciuti gli esami). Il tipo di studio richiesto è stupido e mnemonico, basato sull’accumulo di nozioni inutili e l’acquisto di giganteschi eserciziari per diverse decine di euro. Risultato: massima incapacità del test di scremare davvero tra chi merita di avere accesso e chi no (prova ne sia la qualità dei laureati di facoltà con e senza test, assolutamente omogenea e egualmente scadente in media).
    Fanno forse un po’ eccezione Bocconi e Luiss che somministrano test logico-matematici che non richiedono davvero una preparazione a monte. In questo caso, però, la critica è diversa. Il primo giorno di università a “Mamma Bocconi” fummo accolti dall’istrionico direttore del nostro corso, il buon Angelo Marcello Cardani, ora Presidente AGCOM, che ci disse di non ridere troppo “because 7% of you guys is made up of stupid people”. Aveva ragione al ribasso! Questo vuol dire che i test per l’efficacia che hanno potrebbero non esistere. Per la Bocconi è il prestigio e l’alto costo a impedire a chicchessia di tentare (certo, per gli scemi coi soldi, a patto che non siano oltraggiosamente scemi, di posto ce n’è sempre).
    Il test, inoltre, non valorizza quello che è venuto prima e non conta nulla per ciò che verrà dopo perchè una volta dentro è la sagra del fancazzismo. Piuttosto il voto di maturità può determinare qualcosa di me come individuo, una lettera motivazionale, delle referenze come nei paesi anglosassoni…
    Infine, vorrei dare una soluzione a prescindere dal mio cruccio del sistema scolastico in generale: sarebbe disdicevole usare gli esami del piano di studi per fare esattamente un po’ di selezione? Mille volte meglio esami di sbarramento senza perdono (tipo analisi a ingegneria o matematica finanziaria, dove si può trovare una ragione vera per studiare come cani), anche uno all’anno, rispetto a test la cui validità e utilità è altamente opinabile. Cosa ne dite?

  9. Lorenzo62

    @Davide91

    Pieno apprezzamento. E insisto a mia volta: se dibattiti di questo genere si svolgessero all’interno di tutto il settore formativo e da questi dibattiti si facesse derivare la legislazione in materia?

  10. giuseppe 1

    @Davide91
    Infatti.
    I test insieme al numero chiuso generano imbrogli e ingiustizie.
    I test che non pregiudichino l’accesso all’Università, ma riescano ad evidenziare la necessità di un percorso di recupero dei debiti formativi vanno benone, anche se non sono uno strumento perfetto.
    Chiedo scusa. Forse non mi ero spiegato bene.

  11. Jack Monnezza

    Il problema maggiore delle nostre università non e’ la qualità/quantita’ degli studenti ma la qualita’ dei professori. In alcune sedi e in alcune facoltà – soprattutto le facoltà non tecniche – vi sono dei personaggi ….. Guardate l’ignoranza di aluni personaggi/professori nel governo attuale…

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