14
Gen
2010

Titoli di Stato e debito pubblico. Sulle orme di un maestro: Frank Chodorov

Il nostro Paese vanta il poco invidiabile primato del più grande disavanzo pubblico d’Europa, il terzo tra i paesi più sviluppati. Un debito talmente imponente che per il suo finanziamento il Ministro dell’Economia ha parlato della necessità di emettere 480 miliardi di titoli al mercato. Come osserviamo proprio in questi giorni, in Italia le obbligazioni del Tesoro vanno forte anche quando garantiscono una redditività modesta: uno spunto per un’infinità di riflessioni.
Sul tema è interessante rileggere le riflessioni contenute in un breve ma ricco capitolo intitolato Don’t Buy Government Bonds che Frank Chodorov, uno dei più importanti esponenti del libertarismo contemporaneo, gli dedica nel suo Out Of Step, pubblicato per la prima volta nel 1962.
Chodorov, che fu uno dei più attivi e combattivi esponenti di quella Old Right che rappresentò l’unica vera opposizione al New Deal. Benché Out Of Step sia il prodotto di un autore maturo, le considerazioni sono sempre improntate a quella radicalità da j’accuse di quel mondo. Così, uno stato che spende più di quanto incanali per mezzo della tassazione commette un riprovevole deliberato «atto di bancarotta», né più né meno.
Durante il gold standard – spiega ancora il brillante intellettuale –, quando la sfiducia nella moneta ingenerata dall’eccessiva tendenza governativa alla spesa nella moneta spingeva i cittadini a richiedere la conversione in oro, costringendo così i governi a porre un freno alla tendenza alla spesa governativa.
(Incidentalmente, varrebbe la pena accennare a un altro profilo critico, forse non immediatamente intuitivo: la natura inflazionistica delle obbligazioni statali. Benché non possano circolare direttamente sul mercato, il sigillo dello Stato equipara di fatto questi titoli alla moneta, ragion per cui ad ogni emissione si dilata l’offerta di moneta, diminuendone dunque il potere d’acquisto, e innescando un meccanismo d’inflazione).
Siccome però le leggi dell’economia sopravvivono quando così come ai dove, è interessante riproporre per intero questo punto di vista radicale su un’istituzione – quella dei titolo di stato – denunciata senza mezzi termini come «profondamente immorale».
Intanto, è impossibile parlando di debito pubblico tralasciare il sempre  evocato il teorema del (presunto) patto intergenerazionale, di cui su questo blog si è avuto modo di parlare anche di recente, con sfumature diverse da quelle che leggerete qui di seguito.
Lo Stato ha sempre giustificato la propria ingente spesa e i prestiti di denaro necessarie al loro sostegno con i benefici che questa garantirebbe sia i cittadini di oggi, sia le generazioni future (il che, a bene vedere, è quantomeno ironico quando sostenuto da fautori del keynesismo).
Non sarebbe male, suggerisce implicitamente l’autore, trovare una volta per tutte il coraggio di denunciare l’assurdità della fallacce dottrina del “governo dei vivi da parte dei morti”, che altro non è se non un artificio con cui politici ed economisti compiacenti cercano di giustificare gli ingenti sacrifici necessari a sostenere politiche inutilmente severe, facendo leva sull’acquiescenza carpita sfruttando l’emotività di genitori ai quali si sono artatamente mostrate le foto dei propri figli.
Quale sia il favore che si renderebbe alle generazioni future condannandole a sostenere il fardello di un debito necessario a pagare spese che magari – cosa possiamo sapere delle esigenze del futuro, e soprattutto come può lo Stato, quando non si sa mai abbastanza neppure del presente? – questi ultimi giudicheranno inutile, se non dannoso?
L’assurdità di questo meccanismo è ancora più chiara se si considera che, avendo i titoli di Stato la tendenza a concentrarsi nelle mani di pochi è probabile che siano i figli dei “ricchi” a beneficiarne a spese di quelli dei meno abbienti.
Parlare di investimento sarebbe soltanto un «infimo eufemismo», per dirla con Chodorov: lo Stato non investe, lo Stato spende. C’è una bella differenza, infatti, tra impiegare il denaro in un modo che assomiglia molto al gettarlo in un pozzo dei desideri (senza fondo, sia il primo che i secondi) e il prestarlo a imprese e aziende che propongono progetti di produzione ragionati e piani industriali lungimiranti su cui vale veramente la pena puntare.
È curioso notare come, da quanto emerso dal sondaggio presentato da Renato Mannheimer nel corso della puntata di Porta a Porta andata in onda ieri sera, dovendo scegliere come adoperare un extra flusso in entrata (il riferimento era allo scudo fiscale, ma questo non era specificato nella domanda), degli stessi italiani che si precipitano ad acquistare i titoli di Stato, solamente il 24% degli intervistati optati per il pagamento del debito, mentre un ben più consistente 40% individua nella riduzione della pressione fiscale la destinazione più opportuna.
La spiegazione più immediata – e forse anche la più probabile – al paradosso costituito da un Paese incline al risparmio ma la cui economia è poco più di un tappeto (sempre più sfilacciato) di imprese che più di piccole o medie non riescono a diventare, è per esclusione, che la titubanza degli italiani nell’investire in obbligazioni private sia proprio la disponibilità di risorse lasciata a cittadini e aspiranti investitori dalla forte pressione fiscale.
Nessuna generazione ha mai pagato il debito di quelle precedenti, né ha mai avuto seriamente a cuore farlo. E non c’è motivo di credere che gli individui inizieranno a pensarla diversamente in futuro, dal momento che gli strumenti per compiere quest’impresa sarebbero sempre gli stessi: l’aumento della pressione fiscale (per nulla gradita ai contribuenti) e il taglio della spesa pubblica (l’incubo di ogni politico). Tanto più che le generazioni – cosa ovvia per chiunque, tranne per alcuni “economisti”, sembrerebbe – non vivono barricate nelle camere stagne della storia, ma convivono e si sviluppano senza soluzione di continuità.
Escluso l’aumento delle tasse (che dovrebbe crescere talmente tanto da trasformare lo Stato in un’economia socialista), i soli strumenti che uno Stato ha per venire a capo di un debito pubblico fuori controllo sono l’inflazione e rifiuto di pagarlo. Gli effetti nefasti che rendono la desiderabilità della prima opzione pari a quella della peste sono ben noti.
Siamo però sicuri che la stessa cosa valga anche per la seconda? Dissociandosi dalle concezioni dei liberisti di inclinazione conservatrice, i quali generalmente si rifiutano aprioristicamente – rabbrividendo al pensiero – anche solo di considerare tale “disonorevole” opzione, Chodorov vede nel rifiuto di pagamento del debito pubblico una soluzione al contrario onorevole e «onesta». Ma anche sotto un profilo strettamente economico la soluzione, per come profilata da quell’intellettuale che Murray Rothbard annoverava tra i suoi maestri, sembra tutt’altro che indesiderabile.
Qualora si verificasse questa ipotesi, una prima conseguenza sarebbe il crollo del livello della tassazione da cui scaturirebbe una liberazione di capitali che potranno così essere impiegati al meglio per finanziare le attività e gli investimenti del settore privato. Certo, è vero che col default qualcuno ci perderebbe. Ma si tratterebbe dei pochi detentori dei titoli (i quali d’altra parte ora si arricchiscono a spese dei non detentori!) i quali alla lunga finirebbero comunque per beneficiare del ritrovato vigore di un’economia in cui investimenti, interessi e preferenze temporali ritornerebbero nel dominio delle libere scelte volontarie di imprenditori, investitori e risparmiatori.
Inoltre, è interessante notare come, per Chodorov, il rifiuto di pagare il proprio debito da parte di uno Stato sortirebbe anche l’ulteriore desiderabile effetto di minare (almeno per qualche generazione) la fede in esso riposta da parte dei cittadini. Nessun scenario sarebbe più desiderabile agli occhi di chiunque confidi nelle capacità dell’iniziativa privata, dell’associazionismo e dell’imprenditorialità della società.
Se c’è qualcosa che davvero deve essere denunciata come immorale e disonorevole è finanziare il perpetrarsi di un sistema di sfruttamento, basato sulla tassazione e sempre a questa finalizzato.
Se c’è un’eredità per cui ci si può veramente aspettare di essere ringraziati dai nostri figli e nipoti, quella non può che essere la dimostrazione che la cura all’obesità da bulimia esiste e funziona. Non che si può vivere per sempre obesi e felici.

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5 Responses

  1. Cesare

    e la prima cosa che il nuovo stato farebbe una volta libero da questo enorme fardello sarebbe quella di sussidiare la Fiat per il mantenimento della produzione a Termini Imerese… fare un bel ponte sullo stretto e via andare.. in 5 anni ci riportiamo ad un “accettabile” 40% deb\pil e… vai col liscio, anzi no col tango..bond

  2. Michele Bendazzoli

    Sono perfettamente d’accordo che sia l’unica opzione praticabile data la naturale e inarrestabile tendenza dello stato ad espandere la propria sfera di influenza nell’economia. Praticabile non certo per la buona volontà o lungimiranza dei politici, ma solo per l’ineluttabile destino che accomuna tutte le società parassitarie in decadenza: il fallimento.

  3. Marco

    Da un anno e mezzo le economie di tutto il mondo sviluppato sono state sommerse di carta (moneta e obbligazioni pubbliche), ma non vedo alcun segno dell’inflazione preconizzata nell’articolo! Anzi il tasso di inflazione si è fortemente ridotto. Qualcosa non funziona?

  4. eonia

    Davvero stimolante come articolo e ben descritta la questione etica.
    Ma in qualcosa non mi trova d’accordo.
    Sono una persona che un po’ di storia per forza o per amore l’ho studiata, così come mi sono applicata un poco in questioni sociologiche.
    Gli stati occidentali accumulano grossi debiti e voilà le banche centrali che portano i tassi d’interesse fra lo 0% e l’1%.
    Cosa significa? Che il ritorno è negativo per l’investitore sul debito sovrano. Se si considerano tasse, inflazione (quella che oggi si cerca affannosamente di tenere in area positiva), il ritorno nominale del capitale anche se pari, perde il potere d’acquisto.
    Dunque il beneficio è immediato per lo Stato, il momento in cui il debito si sottoscrive.
    Se lo Stato fosse illuminato e non gonfiasse la spesa pubblica in mancanza di copertura finanziaria, potrebbe ridurre anche in questi tempi tormentati il debito e senza inasprire la pressione fiscale.
    E questo principio (di vantaggio statale) vige nei confronti di tutti gli investitori, che siano nettasti o lordisti a meno che non si tratti di istituzioni finanziarie/bancarie.
    Inoltre bisogna fare il distinguo fra i debiti sovrani.
    Ci sono i debiti sovrani che vengono detenuti per il 90% nel paese produttore del debito. Leggasi Giappone. Invece ci sono paesi che il debito lo esportano come merce di scambio. Leggasi USA.
    La valenza in termini percentuali dei due debiti anche in base al PIL non ha il medesimo peso sulle successive emissioni future per il suo finanziamento. Infatti il Giappone con tutte le disgrazie del suo debito pubblico è creditore netto mentre gli USA, con una macroscopica percentuale minore di debito pubblico, è debitore netto.
    Quello che mi sembra aberrante è l’idea del default.
    L’Italia nel suo piccolo con un debito che sfora da anni il 100% del PIL, vede una percentuale consistente del debito sottoscritto dall’estero. Il ‘92 durante la crisi valutaria, Amato oltre che perpetrare il ladrocinio notte tempo, andò ad indebitarsi nello yen swappando e monetizzando il differenziale dei tassi. L’Italia per il debito estero mantenne la tripla A mentre per il debito interno scivolò a BB.
    L’Argentina che ha battuto il default non circola più all’estero.
    Perfino la Russia di Putin ha rimborsato il debito zarista.
    Per cui non sogniamo con i debiti sovrani. I teorici e pensatori sono bravi a scrivere solo che il sogno delle volte ignora la realtà.
    Ultima cosa per collegarmi alle premesse.
    Nei tempi passati sino al XX secolo le controversie interne ed esterne dei diversi Stati si combattevano con l’ideologia e le guerre. Entrambi veicoli devastanti per la comune esistenza umana.
    Oggi invece c’è la pace apparente e le pretese sembra che siano quelle in vigore in tempi pacifici.
    Invece sotto sotto c’è la guerra, sofisticata e senza morti ma con tanti che dovranno combattere per sopravvivere. E’ il costo del progresso.
    Un mio professore diceva, che il progresso è figlio della violenza.

  5. Pietro Monsurrò

    @Marco
    C’è una teoria quantitativa naive e una non naive, e certamente, come dici, quella naive è falsa.

    I prezzi al momento sono tenuti bassi dalla crisi finanziaria che tiene l’offerta di moneta sotto il potenziale: la gente non usa la base monetaria ma la moneta bancaria (a volte quella creditizia) per fare acquisti.

    Se la crisi finisse e la liquidità non venisse rimossa, i prezzi andrebbero alle stelle rapidamente.

    Al momento sono alle stelle, di nuovo, tutti i prezzi di tutte le materie prime, che sono in genere raddoppiati negli ultimi dodici mesi, e anche questa è inflazione, anche se non è inflazione di beni di consumo, e quindi non è misurata dall’ISTAT. Il problema è che una moneta usata per comprare ferro prima o poi andrà nelle tasche dell’operaio che lavora il ferro e verrà usata per comprare beni di consumo, e allora le due l’inflazione può tornare a mordere.

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