12
Ott
2011

Rinnovabili: l’asta chi l’ha vista?

Durante la prima metà di quest’anno – sembra un secolo fa ma era marzo! – si è ferocemente discusso della rimodulazione degli incentivi alle fonti rinnovabili. Gran parte dell’attenzione pubblica è stata catalizzata dalla faccenda del fotovoltaico, perché, per qualche ragione, il solare poteva contare sulle lobby più chiassose e, apparentemente, più efficaci, dato il livello dei sussidi vigenti fino alla fine del 2011. Ma l’intervento normativo, contenuto nel decreto legislativo 28/2011 di recepimento della direttiva 2009/28/CE, ha in realtà investito l’intero mondo delle energie “pulite” introducendo, tra l’altro, un meccanismo di incentivazione tramite aste. Sulla questione, come Ibl eravamo e siamo tiepidamente favorevoli, in quanto le aste possono essere uno strumento utile a superare le asimmetrie informative tra regolatore e produttori e tarare l’incentivo a un livello effettivamente compatibile coi costi – piuttosto che con la caccia alle rendite. A che punto siamo?

PS Questo post vuole anche essere un (molto tardivo) tentativo di risposta a Sandro Brusco che mi chiedeva quale informazione in più sul disegno delle aste.

Per fare il punto, è utile guardare a un paper appena pubblicato da Tommaso Barbetti per conto del centro studi Aper. Tommaso ha un approccio molto critico verso le aste, su cui tornerò tra un attimo, ma il suo lavoro è meritorio perché consente, al tempo stesso, di tornare a riflettere sulla tecnicalità della questione (al di là del dato di principio) e di ricordare che la vicenda non si è chiusa col decreto di marzo – anzi. Infatti, il decreto, oltre a essere scritto così-così e a contenere ambiguità dure da sciogliere, rimandava a un decreto attuativo da emanarsi entro il 29 settembre 2011 (deadline ampiamente trascorsa, del decreto ancora non c’è traccia sebbene, a quanto si sussurra nei corridoi, al ministero qualcuno si sia accorto che qualche cosa bisognerà pur mettere nero su bianco).

Al di là dell’opzione teorica pro o contro le aste, infatti, la domanda è: che tipo di aste? relative a quali impianti? e con quale obiettivo?

Sono almeno due i punti oscuri: 1)  all’asta saranno ammessi tutti i soggetti aventi i requisiti tecnici, ma ancora privi di autorizzazione, oppure solo le iniziative autorizzate? (E’ chiaramente esclusa dal decreto, invece, la possibilità che secondo me sarebbe più logica, ossia quella di bandire una gara per siti già autorizzati o pre-autorizzati) 2) quale sarà il meccanismo d’asta? Restano in sospeso anche molte altre questioni – per esempio, chi sarà il banditore – ma esse hanno natura più formale che sostanziale, per cui non me ne occupo.

Nel suo paper, Barbetti ha un bersaglio facile e uno più difficile. Il bersaglio facile è dimostrare che il governo ha un’idea fumosa, a dire poco, di cosa siano le aste e del perché possano essere utili. Partita vinta a tavolino. Il bersaglio più complesso è, invece, quello di sostenere che le aste produrrebbero un esito inefficiente. L’analisi è ben fatta e non ho particolari obiezioni. Nello specifico, mi sembra abbastanza chiaro che il modello di accesso “universale” all’asta (anziché limitare l’accesso ai soggetti già in possesso di un’autorizzazione) sia preferibile, in un’ottica di allocazione del rischio (posto che alcuni obiettivi di presenza e diffusione delle rinnovabili devono comunque essere raggiunti, come è pensabile che qualcuno affronti un percorso amministrativo accidentato come quello italiano, se poi, una volta conquistato il pezzo di carta, rischia di essere estromesso dall’incentivo?).

Tommaso ha anche ragione nell’evidenziare che il passaggio a un sistema di aste produrrebbe conseguenze molto importanti sul profilo di rischio dell’investimento in rinnovabili e, attraverso di esso, sulla natura societaria dei soggetti interessati. Infatti, l’incertezza sull’incentivo si andrebbe ad aggiungere alle incertezze già esistenti col risultato di aumentare il rischio e, con esso, la remunerazione attesa. Questo è senza dubbio l’inconveniente delle aste. Se ci fermassimo qui, avrebbe ragione lui: ma il mondo va avanti. Va avanti, in particolare, spingendo verso un graduale consolidamento del settore, che adesso è troppo polverizzato e anche se questa polverizzazione va di moda (la chiamano “democratizzazione” dell’energia) a me pare un grande handicap; il consolidamento sarebbe conseguenza diretta e indiretta delle aste. Diretta perché gli operatori dovrebbero essere in grado di diversificare il rischio in modo adeguato; indiretta perché inevitabilmente per entrare ci vorrebbe relativamente più equity di quanta ce ne voglia oggi (virtualmente: zero) e relativamente meno leva (virtualmente: 100 per cento). Ora, il consolidamento avrebbe anche l’effetto di accelerare i processi di learning e di rendere i nostri operatori più skilled nel gestire tutte le operazioni, da quelle giuridico-amministrative a quelle relative alla gestione finanziaria fino alla realizzazione e gestione operativa degli impianti. Tutto questo si tradurrebbe in minori costi che potrebbero controbilanciare, in prima approssimazione, il maggiore rischio. Perché le cose funzionino bene, però, è assolutamente necessario che l’asta sia condotta in modo “estremo”.

Condurla in modo estremo vuol dire queste tre cose: niente cap, niente floor, e attribuzione dell’incentivo secondo un meccanismo di pay as bid. Mi spiego. Lo scopo dell’asta è quella di costringere gli operatori a “dichiarare” i loro costi. La versione che sembra essere più gettonata è quella con una base d’asta relativamente alta, un floor (peraltro di difficile gestione nell’attribuzione dei contingenti), e un sistema di offerte al ribasso. Questo sistema funziona se il regolatore sa già quale incentivo vuole dare, più o meno, e intende “tirare sul prezzo”. Un simile meccanismo ha il considerevole difetto di giocarsi interamente sul campo lobbistico: ditemi la base d’asta e ditemi il floor e vi saprò dire, prima che l’asta si svolga, chi vince e chi perde.

Nossignore. La ragione dell’asta è proprio che il banditore non sa (e non vuole sapere) qual è il prezzo “giusto”: quindi niente cap e niente floor e, va da sé, offerta libera. Dimmi quanto vuoi e ti dirò se ci sei. Se però un simile meccanismo viene accoppiato a un uniform price, si crea una distorsione: cioè tutti sono incentivati a biddare troppo basso per “entrare nel contingente”, sperando di fare free riding su chi bidda dichiarando i suoi “veri” costi. L’esito matematico di questo procedimento è una moria di investimenti. Invece, con un pay as bid le offerte vengono ordinate dalla più bassa alla più alta (fino al raggiungimento del contingente) e ciascuna tra quelle accettate prende quello che ha chiesto. Naturalmente dovrebbero essere previsti degli strumenti per sanzionare i “ritardi strategici” (ossia disincentivare i bid troppo bassi) tenendo conto, al tempo stesso, del fatto che questo paese è l’Italia. E’ una tecnicalità grossa come una casa, ma è una tecnicalità.

La ratio delle aste, per tornare al punto centrale, è duplice: in primo luogo far emergere i costi veri, depoliticizzando la determinazione dell’incentivo (diciamo la verità: la storia degli incentivi, soprattutto al fotovoltaico, negli ultimi 5 anni è né più né meno che la storia di chi è amico di chi); secondariamente, “contingentare” la potenza incentivabile anno per anno in modo da evitare fenomeni patologici come l’esplosione del fotovoltaico nel 2011. A questo fine, è importante che l’asticella per l’accesso all’asta (cioè la potenza al di sopra della quale non si può più godere di incentivi amministrati) sia fissata il più in basso possibile: in modo da lasciar fuori solo gli impiantini domestici, o quasi. Se fosse messa, diciamo, a 5 MW o più, avremmo un fiorire di impianti da 4,99 MW: elegante metodo all’italiana per aggirare le norme (già visto, già visto).

Conclusione: le preoccupazioni di Tommaso sono più che corrette e più che concrete, ma si riferiscono soprattutto a un sistema d’asta mal disegnato (intenzionalmente oppure no). Se ben usate, le aste possono essere uno strumento eccezionale per “registrare” e rendere meno discrezionale gli schemi di incentivazione vigenti, che finora hanno peccato di eccessiva generosità e che, per reazione, in futuro rischiano di essere tarati troppo in basso (sempre assumendo che l’obiettivo ultimo sia desiderabile). E’ giunta l’ora che il settore delle rinnovabili la smetta di essere, ed essere percepito, come un club di sgarruppati, dilettanti e rentier, ed entri nella sua maturità industriale.

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1 Response

  1. Tommaso Barbetti

    Grazie Carlo per aver citato il nostro lavoro, il cui scopo è sottolineare come un meccanismo pur affascinante alla prova dei fatti porti invece a esiti poco (per nulla) efficienti, proprio per via di quelle tecnicalità di cui purtroppo, specie in Italia, è lastricata la strada che porta all’inferno.
    Faccio un esempio. Se si accetta un modello aste con accesso universale (forse il meno peggio), allora si dovrò trovare il modo per lasciare fuori i progetti non seri e i free riders: l’esperienza dei 130.000 MW di richieste di connessione di qualche mese fa insegna. Questo lo si fa con garanzie di solidità finanziaria e penali per la mancata realizzazione degli impianti.
    Ora, se (come spessissimo accade) il vincitore dell’asta non ottiene l’autorizzazione, la ottiene oltre i termini o la ottiene su un progetto depotenziato rispetto a quello su cui ha biddato, che succede? Non entra in esercizio e/o paga le penali: di sicuro si viene a creare un nuovo livello di contenzioso con le amministrazioni (come se ce ne fosse bisogno!) e di sicuro tanti impianti (pur previsti dal banditore) non si fanno.
    Insomma, giusto introdurre maggior competizione nelle rinnovabili, ma le aste sono il modo migliore? Del resto gli economics del settore sono ben noti a tutti: non è meglio agire sulle tariffe, magari legandole, oltre che ai costi reali, al livello di crescita degli impianti, come fanno già altrove?

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