24
Ott
2012

Quote rosa: il genere a scapito del merito

Sono molte le donne che, vedendo una carenza di colleghe nei loro ambiti – soprattutto ai vertici – sono favorevoli all’introduzione delle quote rosa: meglio, addirittura, sorelle e fidanzate, che la totale mancanza, in particolare nei Cda. Tuttavia, come più volte sostenuto da Serena Sileoni, in nome di battaglie sul genere si rischia di offuscare il merito. Eppure esistono alternative meno invasive che consentono di mettere uomini e donne in condizioni di parità.Lo scetticismo sull’efficacia delle quote rosa deriva dalle possibili conseguenze dell’imporre alle aziende un simile obbligo che, tuttavia, non assicura la presenza di un maggior numero di donne in posizioni apicali, né premia il merito. Giustifica però un’intromissione sempre più forte dello Stato nella sfera privata.

Un simile strumento tende a privilegiare la quantità rispetto alla qualità: si rischia così di trovarsi con 100 veline – scelte tra sorelle, mogli e amanti – piuttosto che 10 professioniste. La presenza di donne poco preparate e abili scredita nel complesso le capacità e potenzialità femminili nel mercato del lavoro e cambia poco dal punto di vista di una migliore gestione aziendale dare a tutte le stesse possibilità di occupare posti di rilievo, se questo avviene a scapito dell’effettiva capacità di meritarsi una certa posizione.
Di fronte a un simile obbligo, gli imprenditori potrebbero reagire cercando degli escamotage, per nulla difficili da immaginare: ad esempio, le quote potrebbero essere rispettate mettendo delle figuranti, dei nomi e delle facce di donne che nulla fanno e decidono e in nessun modo contribuiscono al lavoro per cui sono state assunte. Oppure le si assume per poi relegarle ad ambiti secondari: la semplice presenza, soprattutto se imposta, non assicura che effettivamente siano garantiti e svolti compiti di responsabilità né che siano assicurate loro posizioni apicali, con il rischio, anzi, che vengano emarginate.
Anche come norma transitoria che abbia tuttavia un effetto di shock e funga da traino non funziona, perché una volta che un privilegio è stato concesso è quasi impossibile toglierlo e perché comunque tenderebbe a giustificare il principio di validità di uno strumento nonostante si sia consapevoli del suo effetto distorsivo, come dimostra la volontà di fissare un termine. A chi impedire, poi, di dire che una data posizione è stata ottenuta “ex-lege” piuttosto che conquistata? Complessivamente, il valore del lavoro femminile sarebbe ridotto e denigrato.
Peraltro, se il problema è quello di fare un primo passo in tale direzione o intervenire su una mentalità e cultura distorta, allora sono meno invasivi gli strumenti che garantiscono condizioni di uguaglianza all’entrata, ossia che incentivano e favoriscono l’ingresso delle donne, piuttosto che rendere obbligatoria una certa quota di donne nei Cda.
Complessivamente, è quindi difficile poter stimare se i benefici siano tali da giustificare le quote rosa o se, piuttosto, i costi – economici e, in qualche misura, sociali – non siano maggiori.

Se l’uguaglianza è il fine, tuttavia pare difficile capire chi e come sia in grado di stabilire quale quota di presenza femminile nei diversi settori possa effettivamente assicurare che il giusto numero di donne sia rappresentato.
Partendo poi dallo stesso presupposto, si giustificherebbero anche le quote di altri colori, età e condizioni sociali. L’ultimo rapporto Istat evidenzia che la disoccupazione femminile tra i 15 e i 29 anni al Sud è maggiore di tre punti – pari a più del 39% – rispetto a quella nazionale: seguendo la stessa logica di pensiero, sarebbe allora necessario intervenire anche per correggere questa differenza.

Ammettendo che donne e uomini sono diversi tra loro e hanno ruoli differenti nella società, è possibile immaginare delle alternative meno distorsive, finalizzate ad azzerare le condizioni di partenza che frenano l’entrata delle donne nel mercato del lavoro, piuttosto che favorirle nei risultati (ossia la garanzia di un posto ai vertici), e che le metta in condizione di non dover rinunciare alla carriera per questioni famigliari – spesso contrapposte a quelle professionali – ma di consentire loro di scegliere e guadagnarsi una certa posizione. Si pensi, ad esempio, ai congedi parentali maschili, che permetterebbero di suddividere in egual misura l’impegno del neonato tra la madre e il padre, o all’equità salariale, così che il costo della donna di lavorare sia inferiore di quello di pagare qualcuno che la aiuti nelle vicende domestiche, o a quello di far stare l’uomo a casa.
Piuttosto che intervenire sulla vita e le decisioni delle imprese, un’altra interessante alternativa – proposta da Ichino e Alesina – sarebbe quella di tassare meno il lavoro femminile, ossia di introdurre una tassazione differenziata di genere così da assicurare le stesse condizioni di ingresso a uomini e donne e dando direttamente a queste ultime, qualora lo desiderassero, l’incentivo a trovare un impiego. Un minor costo del lavoro femminile potrebbe poi indurre le imprese stesse a offrire alcuni servizi – tra cui gli asili nido e i servizi di cura per gli anziani – che favoriscono ulteriormente la partecipazione delle donne.

È pur vero che questo strumento non assicura comunque la possibilità di un avanzamento professionale alla donna, ma se il lavoro femminile costasse meno e aumentasse quindi la presenza femminile nel mercato, migliorerebbero anche le probabilità che un maggior numero di donne sieda ai vertici delle imprese e abbia tempo, opportunità e voglia di far carriera.
Tuttavia, si consideri che anche questo rappresenta un intervento distorsivo del merito e della selezione naturale, che tende a giustificare il principio in sè per cui una maggior presenza femminile sia giusta a prescindere dalle capacità.

Se comunque si ritiene necessario un intervento, allora è preferibile agire a monte, senza pretendere di influenzare i risultati, che invece dovrebbero dipendere dalla capacità e volontà di uomini e donne di fare carriera, oltre che dalle scelte dell’imprenditore che tenderà a selezionare i migliori nella ricerca del miglior risultato di gestione.

11 Responses

  1. Gianfranco

    Gentile Lucia,
    purtroppo alle femministe arrabbiate, di cui voi siete ostaggio, di tutto cio’ non importa nulla.

    Il problema principale e’ proprio quello di svilire il lavoro femminile, nel contesto da lei splendidamente illustrato.

    Si ricordi pero’ una cosa: in Italia la meritocrazia vera (resa/remunerazione) non esiste.

    Quindi lei non riuscira’ mai a dimostrare che una donna sia peggio o megli di un uomo, e nemmeno di un’altra donna.

    Mancando qualunque parametro di valutazione oggettivo non c’e’ altra alternativa che togliere testicoli ed inserire ovaie nei cda.

    Aritmeticamente non cambiera’ nulla. La somma rimarra’ costante.

    Cordialmente
    Gianfranco.

  2. Sigrid

    Parliamo di capacità, merito e pari opportunità. Mi fa venire in mente una definizione della parità effettivamente raggiunta tra uomo e donna, ovvero “il caso di una donna assolutamente mediocre che ricopre un incarico importante, senza che ciò susciti scandalo o meraviglia”.

  3. Giorgio Andretta

    @Gianfranco
    posso esprimere le mie preferenze posturali?
    Se si gliele anticipo, diversamente non ne tenga conto.
    In piedi e seduti preferisco i testicoli, sdraiati le ovaie, se succinti il kamasutra.

  4. Diva Davies

    É sufficiente leggere qualche statistica per sapere che già dai tempi della scuola i risultati delle ragazze sono superiori a quelli dei ragazzi (senza togliere alle non rare eccezioni), che le percentuali di abbandono scolastico sono più basse e che la costanza nello studio poi si trasformerà in grande affidabilità sul lavoro.
    Nonostante poi durante la propria vita vi siano molti inciampi organizzativi per armonizzare casa famiglia figli, in moltissimi ambiti lavorativi dove è importante la performance sono preferite le donne che assicurano il risultato senza badare troppo al compenso.
    Le aziende che lo hanno capito se ne giovano.
    Ma in tutti gli ambiti protetti da aiuti di stato e dove il risultato é sufficiente sia di facciata non trovano molto facilmente impiego delle donne se non in posizioni minori.
    Come è stato così ben scritto nell’articolo il correttivo é importante che sia a monte, e piuttosto per tecniche di ingresso controllabili basate sulle competenze al fine di sgomberare il campo da pregiudizi facili versole donne e finalmente anche verso gli uomini.
    Una grande occasione da cogliere.

  5. marco

    non mi sembra assolutamente che Belsito sia meglio di una qualsiasi sgualdrinella tra vicinanza a circoli malavitosi e palese propensione alla frode oltre mancanza di competenze specifiche e nemmeno di base o elementari di cosa vogliamo parlare? Qua bisogna passare un acido potente per decapare queste incrostazioni di mala politica e gestione cervellotica. una soluzione? CURRICULA ON LINE TRASPARENTI UNA SETTIMANA PRIMA DELLA SCELTA FINALE

  6. Gianfranco

    Ho riso sguaiatamente alla provocazione di Diva.

    Signora Diva, faccia attenzione: se comincia a fare quei distinguo autorizza anche gli uomini a farlo.
    Quanto alle statistiche, servono solo a dimostrare quello che uno vuole.
    Nello specifico: gli uomini, piu’ concreti e capaci, abbandonano la scuola per il lavoro. E questo li rende molto piu’ concreti ed affidabili di qualunque donna stia su un banco a ripetere la lezione per il bel voto.
    A parita’ di eta’ un uomo ha quindi piu’ cognizione del mondo mentre la donna sa solo ripetere pedestremente quello che le serve, specie nella scuola italiana.
    Le piace, cosi’?

    Quanto a te, Giorgio, sei terrificante. Ormai sono troppo vecchio per queste cose… 😀

    Cordialmente
    Gianfranco

  7. Diva Davies

    Se non si fosse perso a ridere e avesse letto fino all’ultima riga avrebbe capito che non si tratta affatto di una provocazione ma di una seria riflessione che sarebbe piaciuta persino a Lei.
    Quando parlavo di affidabilità e di risultato mi riferivo appunto a questo. Alla vita e non alla scuola che pure ha il proprio peso.
    saluti DD

  8. Tenerone Dolcissimo

    Gentile Dottoressa,
    quello che Lei accademicamente paventa, io l’ho riscontrato nella pratica. Difatti, ho dovuto constatare che almeno una signora, famosa nel mondo bancario per avere fatto una brillante carriera fino a livelli dirigenziali elevatissimi nonostante fosse notoriamente decerebrata prendendosi amorevolmente cura delle protuberanze inguinali dei propri capi, è entrata a far parte del CdA di una società che si occupa di risparmio gestito.
    Ovviamente, senza la bella legge sulle quote rosa, ciò non sarebbe accaduto.
    Altrettanto ovviamente, quando questa signora combinerà qualche bel pasticcio -e basterà che apra bocca perché ciò accada- il discredito colpirà tutto il mondo femminile.
    Preciso che non sto parlando per sentito dire, ma sono sicuro delle attività “paraprofessionali” di questa signora, come di altre signore che sono diventate dirigenti nel mondo finanziario … e sapesse quante ce ne sono.
    Nel caso Ella desideri più illuminanti dettagli, sono a Sua disposizione.
    Saluti cordiali.

  9. Ludovica Tartaglione

    Un simile strumento tende a privilegiare la quantità rispetto alla qualità? Non mi sembra un argomento pertinente. Nei Cda i posti disponibili sono un numero fisso. Se le aree dell’azienda sono 5 (vendite, marketing, finance etc..), 5 saranno i direttori (uomini) seduti in Cda. Se un direttore (uomo) si dimette e non si ha una risorsa valida in azienda con cui sostituirlo, ci si affida a una società di head hunter e se ne trova uno all’esterno. Dato che si devono “obbligatoriamente” riempire (di uomini) le 5 sedie in Cda, non vedo niente di male a rendere obbligatorio l’impegno a cercare di riempire almeno 2 sedie su 5 con le quote rosa. Le donne in gamba ci sono, è la volontà di cercarle e di lasciargli spazio che manca. Se poi un’azienda dovesse decidere di mettere una velina in posizione dirigenziale.. bè… comincerei prima di tutto a dubitare dei criteri con cui è stato scelto l’uomo a capo dell’HR….

  10. Tenerone Dolcissimo

    @Ludovica Tartaglione
    Difatti, in molte aziende legate alla politica (municipalizzate, banche ecc…) i capi del servizio del personale sono degli autentici papponi (*), la cui maggiore cura è quella di far incontrare domanda e offerta di sesso all’interno dell’azienda. E’ ovvio che, se ci sono delle puttane, ci sono anche magnaccia e puttanieri.

    (*) Cioè protettori di prostitute. Mi si perdoni il termine romanesco.

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