3
Gen
2011

Pani, pesci e moltiplicatori – di Silvano Fait

Una caratteristica più o meno comune a tutti i modelli macroeconomici è quella di assumere gli elementi istituzionali come neutrali. Sia il governo che la banca centrale vengono solitamente incorporati come degli enti tecnocratici, i quali si limitano ad implementare delle date o ipotizzate regole di condotta in maniera del tutto asettica. Sulla base di queste vengono analizzati uno o più scenari ed alla fine si procede a trarre delle conclusioni. Croce e delizia di ogni dibattito sono gli effetti macroeconomici degli interventi pubblici (sia monetari che fiscali) e di particolare attualità sono le valutazioni circa gli effetti delle politiche di stimolo intraprese a seguito dell’ultima recessione.

Circa gli effetti del moltiplicatore della spesa vi è una ampia letteratura di modelli dsge sintetizzabile come segue:

  • Nei modelli neoclassici di RBC e privi di frizioni questo è solitamente inferiore a uno;
  • Nei modelli standard neo Keynesiani questo ruota attorno all’unità: a volte leggermente inferiore, altre volte leggermente superiore, a seconda di come sono specificate le funzioni di preferenza degli agenti (aspettative future derivate dai comportamenti passati e propensione al consumo costante spingono in alto il moltiplicatore e viceversa).

Sulla base di quanto sopra l’idea di un moltiplicatore superiore all’unità trova uno scarso riscontro.

Solitamente nessun modello DSGE è accompagnato o posto in relazione ad analisi micro fondate delle decisioni di spesa da parte del governo e dei relativi processi decisionale. Ciò porta ad ignorare la massimizzazione dell’utilità da parte dei soggetti aventi pubblici poteri e le relative ripercussioni (elementi questi indagati invece dalla Public Choice School e dalla Constitutional Economics). Indubbiamente incorporare questi aspetti nei tradizionali aggregati – anche a livello sezionale – risulta particolarmente complesso e per certi aspetti improprio, ma tuttavia escludere la possibilità che la scelta di un insieme di decisioni sia ininfluente sulla natura e sull’evoluzione dell’istituzione che la effettua o che parimenti i caratteri dell’istituzione siano neutrali ed ispirati a meri criteri di ottimizzazione del benessere generale finisce per fornire un quadro incompleto ed ingenuo della situazione (specie quando il decisore è un soggetto pubblico e/o politico).

Sotto il profilo operativo è necessario valutare quindi anche in che modi variazioni della spesa pubblica influiscano sui processi di “rent seeking”. Questo tipo di considerazioni sono opportune sia nel caso di mutamenti qualitativi (a saldi invariati) che nel caso di mutamenti quantitativi –  a maggior ragione quando si tratta di cospicui incrementi. Per quanto superficialmente possa apparire una problematica politica, un’affermazione in tal senso è difficilmente sostenibile poiché si tratta di valutare come la componente fiscale possa influire sull’efficienza dinamica del sistema economico e quindi sulla capacità dello stesso di crescere nel tempo.

Partendo dalla constatazione che l’applicazione effettiva della normativa tributaria non è omogenea e che differenti norme hanno differenti costi di applicazione, controllo e sanzione, ne consegue che l’offerta di fondi pubblici è condizionata da una base imponibile plasmata sul livello di resistenza marginale all’imposizione dei potenziali contribuenti, sia attuali che futuri e futuribili (come nel caso del debito pubblico piuttosto rispetto alla tassazione ordinaria). Viceversa la domanda di fondi pubblici da parte degli attori esterni al processo decisionale di allocazione delle risorse si concentrerà su spese di carattere sub marginale (in quanto ogni individuo o impresa tende già di per sé ad allocare le risorse o a scegliere i corsi di azione a cui attribuisce un valore maggiore), oppure sull’ottenimento di extra profitti da attività che verrebbero comunque portate a compimento. Teoricamente il decisore pubblico, dovrebbe assegnare le risorse ai migliori progetti tra quelli che non verrebbero altrimenti intrapresi dal settore privato. Questo criterio guida, espresso anche in termini politicamente neutri, è tanto facile a dirsi quanto difficile ad implementarsi e del resto “migliore” è un concetto operativo piuttosto vago anche quando limitato alla sola redditività prospettica. A partire da Buchanan e Tullock esiste infatti ormai una ampia e documenta letteratura di come gli interventi pubblici attivino la ricerca di posizioni di rendita e sussidi volti a coprire mere perdite imprenditoriali. Ad esempio, gli incentivi al settore auto erogati da numerosi governi hanno consentito lo smaltimento di eccedenze produttive ed una socializzazione delle perdite derivanti da impianti sovradimensionati senza per questo risolvere le problematiche strutturali del settore. Altrettanto facilmente documentabile è il legame tra spesa sociale corrente e consenso politico, sia che riguardi ambiti eticamente ed empaticamente sensibili (ex. riduzione della povertà) che l’assistenzialismo puro. Del resto Olson (1965) ha mostrato come sia più probabile che il decisore pubblico persegua gli interessi di gruppi portatori di interessi particolari e marginalmente molto influenti, spalmandone i costi sulla collettività – anche a danno dell’interesse generale – che il caso opposto.

Seguendo la stessa logica risulta facile comprendere come viceversa sia più difficoltoso invertire i processi di spesa: quando i vantaggi di una minor pressione fiscale ricadono su soggetti che oppongono poca resistenza all’imposizione e la riduzione dei trasferimenti colpisce soggetti per i quali il valore marginale è elevato, in assenza di insormontabili vincoli di bilancio esterni, la decisione diventa onerosa in termini di razionalità politica.

Spostando la prospettiva sotto un profilo dinamico, ovvero legando l’analisi economica non alla risoluzione di problematiche note con risorse definite ma alle modalità attraverso le quali gli individui possono rendere meno gravosi i vincoli di scarsità e migliorare le proprie condizioni future (vedi Hayek, Alchyan, North), risulta ancor meno comprensibile perché un processo fortemente connesso a fenomeni di rent seeking, moral hazard e socializzazione delle perdite private, quale l’incremento indiscriminato della spesa pubblica, debba necessariamente comportare degli effetti moltiplicativi sul benessere generale. Al di là dei modelli macroeconomici o delle considerazioni sul ruolo dell’intervento statale nell’economia, ciò che presenta criticità rilevanti in una analisi costi-benefici a livello operativo, contiene già in sé una forte dose di buoni motivi per essere dubitare che abbia effetti “moltiplicativi” sul benessere generale. Questo vale sia per la spesa corrente che per gli investimenti pubblici: se, ad esempio, il connotato principale delle crisi latino americane è spesso stato una gestione allegra della finanza e della moneta, viceversa le crisi asiatiche hanno visto più volte un eccesso di investimenti sia privati che pubblici nei settori più disparati (Reinhart e Rogoff).

Alla luce dei contributi della Public Choice e della Constitutional Economics, significativi e invasivi interventi governativi all’interno di realtà sociali complesse necessitano di essere ponderati con molta attenzione e non semplicemente sulla base delle evoluzioni riportate nei modelli dsge, per quanto sofisticati o apparentemente convincenti questi possano essere. E questo senza considerare il fatto che, sotto il profilo teorico e accademico, dopo la recente crisi finanziaria, alcuni dei tradizionali pilastri del mainstream macroeconomico quali ad ex. la teoria dei mercati efficienti, la nozione di agente rappresentativo, l’utilizzo forte ed estensivo dei DSGE a fini previsionali e prescrittivi sono stati messi fortemente sotto pressione e probabilmente necessitano quanto meno di un radicale ripensamento (vedi a proposito tra gli altri Zingales, Solow, etc.).

Alcuni recenti paper, ad ex. Christiano et al. (2009), inferiscono moltiplicatori ampiamente superiori al’unità in assenza di risposta da parte della banca centrale (i tassi nominali rimangono invariati come nel modello IS-LM). Ne deriverebbe quindi un argomento a sostegno del deficit spending in particolare nel momento in cui ulteriori riduzioni del tasso di interesse, in applicazione della regola di politica monetaria, non sono possibili poiché è già stato raggiunto lo zero. Con tutti i caveat del caso, credo sia possibile affermare che la logica sottostante non si discosti molto da quella Teoria Generale del 1936. Keynes – in breve – considerava neutrali o comunque secondari gli effetti di una espansione fiscale su prezzi e salari in assenza di pieno impiego. In termini moderni lo stesso può essere riformulato, in forma indubbiamente più elegante sotto il profilo matematico, sulla scorta di un DSGE in cui – stante l’impossibilità operativa di tassi negativi nel caso in cui questi dovessero risultare come ottimali sulla scorta di una predefinita regola di politica monetaria (fatto che implica tassi reali positivi o crescenti in caso di deflazione) –  ogni intervento di stimolo diventa ottimale fino a chiusura dell’outuput gap. Lo “zero bound scenario” è in pratica una riaffermazione del paradosso della liquidità all’interno di una cornice “neo wickselliana” suscettibile di critiche simili circa il mancato ruolo del risparmio, l’idiosincrasia verso ogni minima forma di deflazione dei prezzi al consumo, nonché la sensazione di essere una costruzione ad hoc.

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3 Responses

  1. il pezzo è tremendamente tecnico.
    però rileggerlo mi ha fatto realizzare una cosa: le osservazioni che fai riguardo lo studio che sarebbe necessario per una più veritiera descrizione degli enti pubblici sono un po’ applicabili a qualunque singola persona viva in una economia. E’ un fatto che le caratteristiche particolari del singolo non rilevano, perché la sua azione si esplica in una risposta agli stimoli modellati (reddito, prezzi, in sintesi). Lo Stato invece ha la possibilità di “imporsi” in termini di scelta, perché è anche manovratore di alcuni prezzi e quantità (alla faccia della concorrenza), e come tale opera “fuori mercato”. Ecco perché tale “alieno” nei modelli non è realisticamente trattato.

  2. @Leonardo, IHC
    Questo argomento ricorda tanto la Big Player theory di Roger Koppl. Un Big Player (BP) è un qualcosa che: è grande rispetto al mercato, agisce discrezionalmente, e non è sottoposto alla disciplina dei profitti e delle perdite. Koppl argomenta (formalmente, usando la teoria della computazione) che un tale ente non possa essere modellizzato formalmente, né che possa produrre aspettative razionali in chi lo osserva.

  3. Direi che sono la stessa cosa, con la differenza che io personalmente non considero lo Stato tanto un “big player”, cioè un primus inter pares che semplicemente è cresciuto troppo, ma proprio un soggetto per sua natura esterno (tra l’altro sottoposto a un diritto pubblico sovraordinato al diritto privato che dovrebbe comandare sul mercato), e che nel nostro caso è pure molto grosso rispetto al mercato. Cmq il risultato è lo stesso: immodellizzabile, discrezionale, non razionalizzabile dall’esterno.

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