3
Gen
2014

Spread: Letta, Saccomanni e le cifre che non tornano

Oggi lo spread, il differenziale dell’interesse pagato dai titoli pubblici decennali italiani su quelli tedeschi, è sceso sotto quota 200, a 198,8. E subito la politica ha iniziato ad accapigliarsi. Cerchiamo di spiegare pianamente da che cosa dipenda, perché e per chi è un bene, e perché soprattutto sarebbe opportuno – dopo anni di crisi e di spread – smetterla con le mistificazioni di comodo. Cominciamo proprio da quest’ultimo aspetto.

Gli esponenti del governo e della maggioranza hanno subito detto che è merito della stabilità del governo, premiata dai mercati. Dall’opposizione, Forza Italia ha subito ribattuto che il livello sotto quota 200 è quello dell’estate 2011, quando al governo c’era Berlusconi: un ulteriore conferma, a loro modo di vedere, che è stata una macchinazione dei grandi poteri finanziari, l’escalation dello spread che lo portò in pochi mesi fino oltre quota 570, quando Berlusconi fu costretto a dimettersi in novembre. In realtà, se consideriamo ciò che davvero sui mercati sta determinando in queste settimane l’abbassamento dello spread, non è corretta nessuna delle due posizioni. Naturalmente, a patto di evitare  le forzature violente che sono poi proprie del partito anti-euro, in fortisisma crescita nel dibattito pubblico italiano, “a prescindere” da Berlusconi.

Tornare sotto quota 200 non è un effetto prevalente della stabilità italiana. Il primo fattore causale, dell’abbassamento del differenziale tra i paesi europeriferici e Germania, è il cambio di segno delle attese future sui tassi d’interessi dei paesi forti. A cominciare dagli Stati Uniti. Da quando nel maggio scorso la FED ha annunciato la diminuzione degli acquisti mensili di titoli sul mercato per poi iniziare a praticarla nell’ultimo mese, i 4 trilioni di dollari che dal 2008 in poi, grazie all’enorme liquidità immessa sui mercati dalla FED e dalla banca centrale del Giappone, si erano rivolti alla ricerca di più alti rendimenti (e rischi) nei paesi emergenti, hanno iniziato a riorientarsi verso i paesi avanzati. Che, in uscita dalla crisi, rialzeranno i tassi. E’ ovvio che tornando anche verso l’Europa, questi capitali cerchino innanzitutto i titoli pubblici a più alti rendimenti: come i nostri.

E’ per questo – seconda ragione di mercato, non politica – che il nostro differenziale sui Bund decennali tedeschi scende sotto quota 200. Da un anno a questa parte, è il rendimento tedesco ad essersi alzato da poco più dell’1% al 2%, mentre il nostro sta al 4%. Infine, terza ragione, viene anche la stabilità politica. E’ ovvio che se andassimo a elezioni che compromettessero i saldi di bilancio, lo spread risalirebbe. Com’era vero che l’ascesa negli ultimi 4 mesi di Berlusconi 2011 non era decisa a tavolino da qualche gnomo ostile: era il giudizio sullo stallo di riforme in cui era finito il suo governo. Il mercato è impeerfetto ma costitiuto da migliaia di scelte e di interessi sui mercati, chi racconta che è una cupola d’illuminati a dirigerlo se è in buona fede non lo conosce, se è in malafede cerca scuse.

Qual è il risparmio?

Anche su questo, meglio che la politica si dia una regolata. Non è il caso di alimentare false aspettative. Spieghiamoci. E’ ovvio che uno spread più basso sia un bene. Cento punti in meno di spread stabilizzati per un anno, rispetto ai circa 400 miliardi di emissioni lorde annuali di debito pubblico italiano e considerata la vita media dei titoli in essere (scesa da oltre 7 anni a poco meno di 6, in 2 anni, perché a spread alti è meglio per lo Stato rinnovare Bot di breve durata che titoli pluriennali), comportano nel triennio successivo un risparmio di circa 14 miliardi di euro di minori interessi sul debito pubblico. Ma bisogna stare attenti a non forzarle, queste cifre. Letta ha per esempio parlato nella connferena stampa di Natale  di 5 miliardi risparmiati sugli interessi nel 2013. Ma a guardare le cifre ufficiali del ministero dell’Economia il risparmio è stato in realtà della metà: di 2,7 miliardi, da 86,7 miliardi nel 2012 a 84 nel 2013.

C’è un tesoretto da spendere?

Oggi inoltre il ministro Saccomanni ha detto che con lo spread sotto quota 200 si libereranno risorse aggiuntive per la crescita nel 2014. Letta si è aggiunto, promettendo meno cuneo fiscale grazie allo spread. Sono dichiarazioni “politiche”. Ma contrastano coi numeri dello stesso governo. Perché in realtà le previsioni dell’esecutivo, sottese alla legge di stabilità appena approvata, già inglobano uno spread per il 2014 a quota 150. Il che significa che bisogna ancora pedalare, prima di promettere risorse da spendere. Non solo la minor spesa per interessi sul debito è già prevista nei conti pubblici, ma inoltre la stima delle entrate 2014 è formulata sulla base di una previsione di crescita del Pil 2014 all’1,1%, quando la maggioranza di tutte le previsioni di osservatori nazionali e internazionali è intorno alla metà, o poco più. Per questo la Commissione europea dice che i conti non tornano di mezzo punto di Pil. Altro che tesoretti.

Ma perché la Spagna ci batte?

Che contino anche le politiche nazionali – “anche”, non solo – lo dimostra il fatto che lo spread spagnolo vada meglio del nostro. Ieri era a quota 195. Nell’economia reale, la Spagna sotto molti aspetti sta peggio di noi. Ha dovuto chiedere in via condizionale 50 miliardi di aiuti (erano fino a 100) per il collasso del suo sistema bancario, ha una disoccupazione più che doppia della nostra. Ma allo stesso tempo in questi ultimi tre anni ha fatto riforme del mercato del lavoro più incisive delle nostre. Ha guadagnato produttività, a differenza di noi che continuiamo a perderla, per il peso della Pubblica Amministrazione e di molti servizi domestici non esposti alla concorrenza. Non ha seguito la via solo-tasse per tagliare il deficit, ma ha tagliato in proporzione più spesa pubblica di noi e graduato gli aggravi fiscali, tutelando piccola e media impresa. Aprendosi a produttori stranieri anni fa,oggi produce ed esporta quattro volte le auto realizzate in Italia. Ecco alcune delle riforme che l’Italia non ha fatto, se vogliamo che il nostro spread scenda sotto quello spagnolo.

Lo spread scende, ma le banche?

In teoria, coi tassi bassi attuali e con lo spread in discesa, i prestiti bancari a famiglie e imprese dovrebbero avere un tasso fortemente positivo. Non è così. Nell’euroarea, i prestiti alle famiglie scendono a novembre del 2,9% e alle imprese del 3,9%. Da noi quelli alle imprese scendono addirittura del 5,9%, il più forte calo dacché si rileva il dato. Dovunque in Europa pesa il deterioramento dei crediti in essere, che obbliga le banche a mettere da parte più capitale a fronte di incagli e sofferenze. E più capitale serve anche per gli stress test in arrivo dalla vigilanza europea unificata. In Italia, le sofferenze lorde bancarie hanno superato i 140 miliardi di euro. Ma da noi il freno bancario è aggravato dall’elevatissimo ammontare di titoli del debito pubblico in pancia elle banche nazionali, 400 miliardi. Siamo il Paese che più ha chiesto alle banche domestiche di sostenere lo Stato, in percentuale più di Spagna e Grecia. Molti credono sia un vantaggio, ricentrare il più possibile del debito in mani nazionali, perché ci fa dipendere meno dai mercati. E’ sbagliato: in gergo tecnico si chiama “repressione fiscale”, perché spiazza risorse riservate a investimenti e consumi. Ed è anche per questo che cresciamo meno.

 

2
Gen
2014

Spumante per Fiat salvata da Chrysler a spese di quest’ultima, ma sistema-Italia rifletta sui suoi errori

Sono passate le prime 24 ore dal colpo di fine anno di Sergio Marchionne, dopo lo spumante si può iniziare a ragionare su alcune questioni di fondo che riguardano la “nuova” Chysler-Fiat. Tra i tanti, scegliamo per brevità almeno quattro nodi.

Il primo è il giusto tributo a Marchionne. Dall’aldilà, Umberto Agnelli può esserne felice. E’ stato suo il merito primario, dell’arrivo a Torino di Marchionne, 10 anni fa. Altri tempi, altroché gli oltre 16,7 euro per titolo segnati ieri con un rialzo del 16%, aggiuntosi al più 53% del 2013. All’arrivo di Marchionne l’azienda era smarrita e catatonica, il titolo stava a 5,7. Cinque anni dopo, all’esplodere della crisi mondiale, Fiat era di nuovo sul ciglio del burrone, col titolo a 3 euro e mezzo. L’Avvocato Agnelli non era riuscito ad assorbire altri produttori europei quando l’azienda era leader in Europa, ricordate l’avventura con Citroen iniziata nel ’68 e finita nel nulla? Nessuno avrebbe immaginato 10 anni fa che Marchionne si sarebbe rivelato quello che è davvero. Non è un car guy, non è un ingegnere, non è un malato di scocche e motori, non ama neanche particolarmente la sua gente, freddo com’è.

E’ tre altre cose. Un grande ottimizzatore finanziario. Un deal-man, nelle trattative tosto come un mastino. E ha entrature internazionali decisive. Queste tre qualità lo hanno portato a farsi scegliere nel 2009 da Obama come il salvatore di Chrysler al suo terzo default nella storia. E ad assumere il controllo totale di una Chrysler dimagrita e risanata, tornata all’utile dal 2010 e dal 2011 in grado di restituire al Tesoro americano integralmente i 7,6 miliardi di aiuti pubblici.

Tutto ciò con un esborso minimo per Fiat. Dei 4,35 miliardi di dollari a cui è stata valutata la quota residua del 41,5% di Chrysler in mano al sindacato americano UAW, solo 1,75 verranno da Fiat. Senza dunque rendere necessaria alcuna manovra né sul capitale né sul debito, vista l’ingente liquidità che Marchionne ha sempre mantenuto per prudenza. Il resto, lo metterà la cassa di Chrysler stessa, tra dividendo straordinario e tre rate annuali. Tanto per dire, i tedeschi di Daimler pagarono 36 miliardi di dollari la Chrysler nel 1998, per poi scornarsi e svenderla. Marchionne ha dunque compiuto la sua missione. Storica, davvero. Fiat ha salvato Chrysler. E Chrysler ha salvato Fiat proiettandola nel mondo globale, come del resto nel 2009 lo stesso Marchionne disse in un’audizione al Parlamento italiano.

Il secondo nodo sono i passi a venire del gruppo. Non sappiamo quanto fondata sia l’illazione del Financial Times, per la quale il prossimo piano triennale atteso in primavera sarà l’ultimo di Marchionne. Certo è che, vinta la battaglia finanziaria del controllo al minimo prezzo di Chrysler, a questo punto bisogna lavorare come matti sulle sinergie industriali. Molto più avanzate di quelle sinora realizzate, innestando motori Fiat su piattaforme Chrysler con restyling. Qui sorge un problemino finanziario, e uno di strategia. Finora in realtà gli impegni sul rispettivo debito assunti da Fiat, candidandosi a una Chrysler sorretta dal contribuente americano, hanno tenuto separate finanziariamente le due società. Molti limiti resterebbero anche ora che Fiat controlla il 100% della società USA.

La cassa di Chrysler ammontava a circa 11,5 miliardi di dollari nell’ultima semestrale. Un po’ meno di 3 miliardi andranno al sindacato. A questo punto, tenere le due società separate con la più piccola – Fiat – che controlla la maggiore e oggi molto più dinamica, finanziariamente non ha molto senso. Un’operazione di fusione finanziaria vera ottimizzerebbe flussi di cassa, oneri del debito, investimenti. E consentirebbe, meglio se passando per il mercato – sorpresa! – l’ingresso di un nuovo partner internazionale. Necessario alla crescita mondiale.

Non esce alcuna indiscrezione, da Torino o Detroit. Ma nel mondo finanziario – vedi la dura nota di Fitch oggi, che conferma il giudizio junk sui bonds Fiat – come degli osservatori dell’auto a cominciare da Automotive News, l’idea è che Marchionne potrebbe riservarci quest’ultima sorpresa.

Perché – eccoci al terzo nodo – ne va della nuova missione del gruppo. Coi suoi 4,4 milioni di autoveicoli venduti nel 2012, Chrysler-Fiat sarebbe settima al mondo, lontanissima dai quasi 10 milioni di Toyota, gli oltre 9 di Volkswagen, e da General Motors, il trio di testa. Seguite da Nissan-Renault, Hyundai e Ford. Il gruppo guidato da Marchionne si colloca qui, sopravanzando di poco la Honda. Ma per recuperare il grandissimo gap sul mercato asiatico a cominciare da quello cinese , che da solo vale 18 milioni di auto solo per il 25% coperto da case domestiche, occorre un partner industriale-finanziario Non è un caso che l’indebolitissima francese PSA-Citroen, coperta di miliardi dallo Stato, abbia appena imbarcato al 25% del suo capitale i cinesi di Dongfeng, mentre GM l’abbandona, inguaiata com’è con la sua Opel europea. Mettiamocelo in testa: se davvero Chrysler-Fiat vuole arrivare in 3 anni ai 6 milioni di unità vendute, la sua missione a breve-medio è innanzitutto asiatica, non europea, vista la debolezza strutturale del mercato nel nostro continente, e che negli Usa le cose già marciano per il verso giusto ( nel terzo trimestre 2013 Chrysler negli States ha realizzato utili per 862 milioni di dollari, Fiat in Europa nel 2012 ha perso 700 milioni di euro, e se va bene saranno poco meno di 500 anche nel 2013).

Ed eccoci al punto finale: l’Italia. Per il nostro malandato paese, che ha perso grandi imprese nei posti di spicco delle graduatorie mondiali, è motivo di brindare che Fiat sia oggi pienamente internazionalizzata. Ma per il sistema-Italia, al contempo, è un esito amaro. Fiat è infatti un’eccezione. Siamo in fondo alle graduatorie europee come investimenti diretti esteri nel nostro Paese. Ma in lusso, moda, alimentare ed altre eccellenze italiane, sono molto più numerosi i marchi storici di successo che vengono acquisiti da giganti stranieri, che possono offrire loro più forza finanziaria, più investimenti, migliori proiezioni commerciali nel mondo di quanto si possa fare dall’Italia

Se guardiamo ai consumi, ieri abbiamo avuto i dati dell’auto di dicembre, con un modestissimo segno positivo, per la prima volta da inizio crisi. Ma con poco più di 1 milione e 300 mila auto vendute nel 2013, dal 2007 abbiamo perso quasi il 50% del mercato italiano, e più del 25% rispetto al 2011. Le follie pubbliche vigenti sull’auto – 30 diversi adempimenti amministrativi e 18 prelievi diversi per autoveicolo – impediscono di pensare a un recupero sul passato se non nell’orizzonte di 6-7 anni.

E se guardiamo alla cosiddetta politica industriale – termine di cui diffidare sempre –  non aver voluto e saputo per decenni aprire a costruttori in Italia diversi da Fiat ci vede oggi produrre in Italia 400mila auto, un quarto di quelle realizzate da stranieri in Spagna, mentre nel Regno Unito la sola Toyota ne assembla 3 milioni. Politica e sindacato italiani dovranno ora farsene una ragione. Chrysler-Fiat ha una sfida mondiale davanti a sé. E noi siamo un mercato debole e residuale. Non sappiamo se davvero il rilancio di Alfa Romeo 4 volte promesso da Marchionne ora arriverà davvero. Nel 2012 le 100 mila unità vendute erano pari a quanto Audi vendeva in 3 settimane. Se il marchio fosse stato ceduto ai tedeschi, oggi non avremmo il problema dei 5 stabilimenti italiani Fiat, costretti da questo mercato a regimi asfittici di cassa integrazione.

Sarà duro per politica e sindacato immaginarlo: ma per il bene di Chrysler-Fiat è meglio produrre laddove nel mercato deve crescere, perché il mercato tira. Mentre l’Italia deve pensare a sé, se sarà capace di offrire tasse e relazioni industriali capaci di attirare altri grandi costruttori. Credere che Fiat restituisca in perdita oggi parte dei vantaggi che la politica le ha riservato per cent’anni, è una fesseria perché fesseria è stato darglieli.

2
Gen
2014

Il misterioso fascino della “busta arancione” – di Andrea Battista

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Andrea Battista.

Se ne parla da svariati anni. Almeno per i non addetti ai lavori – ma forse non solo – è uno dei tanti misteri del nostro paese.

Ancora pochi giorni fa il ministro Giovannini ricordava i complessi problemi tecnici e legali legati all’invio della c.d. busta arancione ossia – più esplicitamente – dell’estratto conto individuale relativo alla previdenza pubblica.

Svariate domande sul tema sono ispirate dal puro buon senso: “come si fa” ad essere contrari ad informare la popolazione su quello che prenderà di pensione? Cosa c’è di così intrigante in questo “mistero”? Come è possibile non riuscire ad inviare in qualche modo questa informazione, dopo diversi anni di buoni tecnici al lavoro?

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31
Dic
2013

Cinque riforme a sforzo zero per il 2014

Ci sono riforme che hanno un rilevante costo economico: per esempio, per ridurre le tasse bisogna prima tagliare la spesa almeno in egual misura. Altre riforme impongono costi politici e sociali: per esempio le liberalizzazioni e privatizzazioni impongono significativi costi di aggiustamento per i dipendenti delle aziende ex monopoliste, e comunque richiedono tempo per produrre effetti. Ci sono, infine, riforme che dipendono solo dalla volontà: qui si propongono cinque riforme, ma sarebbe meglio chiamarle fioretti, per il 2014.

Le riforme “a sforzo zero” non sono vere e proprie riforme: non richiedono di pensare in modo diverso il funzionamento della macchina statale (come la riforma tributaria) né di cambiare leggi o riorganizzare aziende (come le liberalizzazioni). Si tratta, piuttosto, di cambiamenti che investono non tanto l’ “ambiente” politico-normativo, quanto i comportamenti degli attori politici. Sono piccoli cambiamenti di atteggiamento che possono produrre grandi risultati in termini di trasparenza e qualità del dibattito pubblico. La ragione per cui faticano a essere messi in atto va cercata nello “status quo bias“: la resistenza che tutti opponiamo al fare in modo diverso cose che abbiamo sempre fatto allo stesso modo. Se Enrico Letta vuole dare un senso alla stabilità; se Matteo Renzi vuole cambiare verso; se una destra nuova e decente esiste e vuole battere un colpo: queste riforme si possono mettere in atto, da domani. Se lo si vuole, sempre che lo si voglia.

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30
Dic
2013

A sua insaputa, anche la ri-municipalizzazione tedesca insegna che a vincere è il mercato.

Dopo vent’anni di affidamento dei servizi ai privati, in Germania è in corso un’inversione di tendenza che vede tornare le autorità municipali responsabili della gestione di alcuni servizi pubblici, con particolare riferimento alle reti elettrica, del gas e del teleriscaldamento, attualmente nelle mani di alcune multinazionali, tra cui Vattenfall e Eon. Read More

28
Dic
2013

Mps oggi: 4 motivi per restare senza parole

Quel che oggi è avvenuto a Siena mostra purtroppo che l’Italia è assai restia a cambiare sul serio, quando vengono al pettine disastri figli di improprie commistioni tra politica e finanza. E’ amaro dirlo: gli effetti della decisione di ieri non si ripercuoteranno solo su Siena, che dall’esplosione del plurisecolare Monte dei Paschi ne ha già subiti tanti. Colpiscono la credibilità dell’intero sistema bancario italiano, e dei suoi regolatori pubblici, il Tesoro che vigila sulle Fondazioni bancarie, e la Banca d’Italia che vigila sugli istituti di credito.

In seconda convocazione dopo che il giorno prima gli investitori istituzionali e i fondi esteri non si erano presentati non fidandosi delle liti italiane, l’assemblea del Monte dei Paschi di Siena ha respinto la proposta del presidente Profumo, dell’amministratore delegato Viola e della maggioranza del cda della banca: un aumento di capitale di 3 miliardi da realizzare subito, essendo già stato richiesto e contrattato nei dettagli con l’Unione Europea grazie all’assistenza di Tesoro e Bankitalia, ed avendolo già annunciato i manager ai mercati mondiali, chiudendo anche un accordo internazionale con primarie banche per il consorzio di garanzia necessario al buon successo del collocamento.

E’ passata la linea sostenuta dalla Fondazione, che chiede un rinvio di almeno 6 mesi della ricapitalizzazione. Perché altrimenti in tempi rapidi non ha modo di trovare compratori per il 31% residuo della banca che le è restato in mano. Antonella Mansi, presidente della Fondazione, si è battuta come un leone per un rinvio che apparentemente sembra ragionevole. E invece non lo è affatto.

La Fondazione è indebitata con le banche per 339 milioni su un patrimonio residuo di poco superiore ai 500. Non solo non ha i denari per partecipare all’aumento di capitale e difendere il suo 31%. Se non trova acquirenti per un bel po’ delle sue attuali quote non è in grado di rimborsare le banche, e a quel punto le perdite sul patrimonio residuo salirebbero oltre la soglia di legge. In altre parole la fondazione senese finirebbe fallita. Proprio quella tra tutte le fondazioni che più ha sfidato nei decenni la legge istitutiva. Nella condiscendenza generale della politica e dei regolatori. Create all’inizio degli anni 90 per “accompagnare” le ex banche pubbliche al mercato, le fondazioni dovevano per la legge Ciampi dismettere nel tempo il controllo degli istituti di credito e concentrarsi sulla restituzione al sociale e ai territori (a cui dovevano il patrimonio, formatosi nei decenni delle banche pubbliche) di flussi crescenti di un capitale sobriamente impegnato in asset non speculativi.

La fondazione senese – espressione del Comune e Provincia di Siena, e della Regione Toscana, cioè del Pd – è rimasta invece ben oltre il 50% del capitale MPS, fino all’esplosione di quest’ultima. E quando fu necessario un primo aumento di capitale nel 2011, a fronte ormai dell’evidenza del prezzo folle pagato da Mps a fine 2007 per acquisire Banca Antonveneta – 10 miliardi al Santander, che se l’era aggiudicato per 3 in meno pochi mesi prima – pur di non scendere sotto il 50% la Fondazione si indebitò ulteriormente, concentrando una quota elevatissima del proprio patrimonio solo sulla scommessa del controllo dell’istituto, autorizzata allora dal Tesoro (che vigila sulle fondazioni) e dal governo di centrodestra. A riprova che se MPS era del Pd, a tutta la politica andava “l’attenzione” della banca. Oltre a “conti d’attenzione” per esponenti dei partiti, MPS comprava forsennatamente BtP.

L’aumento di capitale 2011 per altro non bastò a reggere patrimonialmente la banca, tanto che fu necessario l’intervento dello Stato con 4 miliardi di Tremonti bonds, su cui grava un interesse elevato, il 9% e in crescita di mezzo punto l’anno, e la clausola che in caso di mancata restituzione possano trasformarsi in capitale della banca, cioè in nazionalizzazione.

Quando, alla fine del 2012, sono esplose le indagini giudiziarie ed è venuto al pettine anche il nodo dei derivati per centinaia di milioni contratti da Mps per alleggerire le perdite e truccare i conti, non scrivendoli in bilancio per anni, la banca ha cambiato guida, con l’avvento di Profumo e Viola. Il sindaco di Siena ad aprile è cambiato anch’esso, dal dalemiano Ceccuzzi al renziano Valentini. E infine è cambiato il vertice della fondazione: il Pd era fuori causa, e ha affidato la guida all’imprenditrice Mansi, vicepresidente nazionale di Confindustria. Sembrava cambiato tutto, e la lezione “basta con la politica nelle banche” finalmente appresa. Invece, macché.

A Profumo e Viola sono toccati mesi durissimi: due successive versioni di piano industriale lacrime e sangue, alla base del recupero di credibilità necessario a poter lanciare un nuovo aumento di capitale. Quando a ottobre tutto era pronto, a fronte della presenza del sostegno pubblico coi Tremonti bonds l’Unione Europea ha chiesto che l’aumento di capitale passasse da 2,5 a 3 miliardi, e un indurimento ulteriore del piano industriale.

La montagna da scalare del recupero di efficienza di una banca disastrata da decenni di controllo politico è tutta in salita: tagli al personale per 8 mila unità, 3.400 in più dei 4.640 già previsti, chiusura di 550 filiali invece delle 400 del vecchio piano. Ritorno a 500 milioni di utile nel 2015, ma subito restituzione al Tesoro di buona parte dei Tremonti bonds oltre al pagamento degli ingenti interessi intanto dovuti, e di quelli sulla parte non restituita. Vincoli stretti sullo stipendio ai manager, per l’ad scende da 1,3 milioni a 500 mila euro al massimo. Discesa a non più di 17 miliardi dei BtP in pancia alla banca, che obbligano a tener fermo capitale che l’istituto non ha e che deve usare per gli impieghi, non per “tenersi buona” la politica (a metà 2012, MPS era arrivata a detenerne 32 miliardi).

Questo è il quadro. Profumo e Viola l’aumento di capitale l’hanno dovuto contrattare alla luce del sole con Bruxelles, con Tesoro e Bankitalia a fianco. Oltretutto l’Italia è la prima a dire che vuole più Unione Bancaria rispetto ai neghittosi tedeschi, e ora da Siena arriva il no. Il consorzio di garanzia internazionale per il collocamento era vincolato alla data, scade il 31 gennaio. Chi si fiderà a collocare l’inoptato, per un nuovo aumento dopo sei mesi? Profumo e Viola sono decapitati nella credibilità davanti ai mercati mondiali. Il titolo lunedì scenderà vedremo di quanto, rispetto alla già risibile soglia di 17-18 centesimi. E tutto questo per cosa? Perché l’Italia resta consociativa.

Primo. Perché la fondazione sostiene di non poter dissipare il proprio patrimonio. In realtà, anche se la Mansi prima non c’era, come primo azionista per anni ha determinato le scelte della banca, comprese quelle sciagurate, ha sfidato la legge restando oltre la soglia del 50%, e ha irresponsabilmente concentrato troppo patrimonio sulla banca. Chi sbaglia paga, dovrebbe essere la legge. Troppo comodo credere i mercati internazionali facciano da bancomat, mettano i soldi dopo i guai di Siena, ma in assemblea continui a comandare chi i guai li ha fatti.

Secondo. La fondazione non è sola a sostenere questo. C’è dietro l’intero mondo dell’Acri, l’associazione delle fondazioni bancarie italiane guidata da Guzzetti. Che ha spiegato alla politica che far pagare così duramente una fondazione è un errore verso l’intero sistema. Alcune delle primarie fondazioni sono pronte ad assumere parte delle quote della sorella senese, e ad aiutarla a reinvestire il ricavato in un quota che resti quella più elevata nell’azionariato futuro di Mps. Per questo serve tempo, un aumento di capitale a fine 2014. Per continuare a ripetere la storia che le fondazioni bancarie sono un presidio di italianità e stabilità delle banche, quando avrebbero dovuto dismetterne il controllo da anni e anni.

Terzo. Anche il Pd la pensa così. Se a luglio il nuovo sindaco Valentini parlava rassegnatamente di soci esteri per Mps, nelle ultime settimane a Saccomanni ha spiegato che occorre evitare “soci sgraditi”, e che Siena deve restare in sella. L’accordo con l’Europa l’hanno firmato Profumo e Viola, mica i senesi. Che vadano a casa loro due, e magari si nomini presidente Barucci, che è in scadenza all’Antitrust. Sarei curioso di sapere se davvero la pensa così Renzi, se è questa lòa svolta che stiamo attendendo.

Quarto. Che gli industriali si prestino a far da controfigura presentabile del Pd in questa partita, è purtroppo singolare solo per chi si stupisce del consociativismo italiano. La Mansi sarà in buona fede, ma il conflitto d’interesse tra la solidità patrimoniale della Fondazione e quello della banca è di un’evidenza oggettiva: doveva saperlo bene, visto che di bilanci non è sprovveduta, allorché poche settimane fa assunse la presidenza della fondazione. E che Tesoro e Bankitalia siano rimasti a guardare mentre l’accordo con l’Europa saltava, la dice lunga su quanto, di fronte al controllo bancario e al peso del Pd, non c’è Europa e rigore che tenga.

E’ ovvio che Fondazione e pd sappiano benissimo che a questo punto il rischio-nazionalizzazione, tramite conversione dei bonds pubblici, è fortissimo. Ma loro lo preferiscono al mercato: sia il “governo-amico” a sovrintendervi, in maniera da tutelare chi va tutelato. Cosa che aggiunge ragione a chi, un anno fa, come il sottoscritto, per diffidenza invocava una nazionalizzazione-pulizia subito, senza tutele per gli azionisti di conrrollo e con promessa contestuale di restituire al mercato una banca in sesto attraverso una privatizzazione a 2 anni, come avviene nel Regno Unito.

27
Dic
2013

Il metro di Roma a Natale e le logiche capovolte dell’Italia

Roma, orario dei trasporti urbani a Natale. Lo riporto come cartina al tornasole in grado di svelare non solo a cosa serve il trasporto pubblico (a Natale e nel resto dell’anno, a Roma e nel resto d’Italia) ma anche le logiche soggiacenti il funzionamento del nostro paese.

Martedì 24 dicembre
Per Metro A e Metro B, ultima corsa alle 21. Sulla B1, ultima partenza alle 20,56 da Laurentina per Conca d’Oro.Anche bus, filobus e tram si fermano alle 21. (…)

Mercoledì 25 dicembre
A Natale, metropolitane attive dalle 8 alle 13. Sulla metro B1, da Laurentina per Conca d’Oro l’ultima corsa sara’ alle 12,56. Bus, filobus e tram in servizio dalle 8,30 alle 13 e dalle 16,30 alle 21. Regolare il servizio dei bus notturni. Per la ferrovia Roma-Lido, da Piramide corse dalle 8 alle 13,30, da Colombo corse dalle 7,23 alle 12,23. (…)

Immaginiamo ora di essere dei marziani che sanno tuttavia come funzionano domanda e offerta sui mercati. Come interpretiamo il fatto che i trasporti pubblici non siano operativi la sera della vigilia di Natale e il pomeriggio della festività? Pensiamo che non sia prevista domanda e inoltre che non vi siano obblighi pubblici a offrire il servizio anche quando la domanda è scarsa. Da non marziani sappiamo invece che è l’esatto contrario: la domanda prevedibile a Roma a Natale è tutt’altro che scarsa e inoltre i trasporti pubblici sono (cospicuamente) sovvenzionati dal contribuente per funzionare anche dove e quando la domanda è debole.

Conseguenza: applicando la logica di ogni paese normale pensavamo ingenuamente che gli autisti e i mezzi pubblici fossero strumento per consentire ai viaggiatori di spostarsi. Niente di più sbagliato: in un paese come l’Italia che funziona con logiche rovesciate sono in realtà i viaggiatori strumento per consentire agli autisti di spostarsi sui mezzi pubblici. E il giorno di Natale e la vigilia gli autisti, impegnati presso le loro case con le loro famiglie, non avevano nessuna intenzione di spostarsi. Dunque i viaggiatori non servivano.

Questa storia mi ricorda quelle vecchia che vedeva importanti musei italiani (un tempo) stabilmente chiusi il giorno di ferragosto e in altre importanti festività. Anche in quel caso ci stupivamo perché da poveri ingenui pensavamo che i custodi dei musei fossero strumento essenziale per consentire ai turisti, soprattutto stranieri, di contemplare l’arte italiana. Ma non potevamo commettere errore più grande. In un paese a logiche capovolte come l’Italia erano infatti i turisti lo strumento per consentire ai custodi dei musei di farsi contemplare dalle opere d’arte. E il giorno di ferragosto essi non sentivano questa esigenza.

 

 

27
Dic
2013

#Liberalizzazioni – Il “Loop” del monopolista

Il cliente è al centro dell’attenzione di un’azienda, se questa è in un ambiente competitivo e liberalizzato.

Quando un mercato è in mano ad un monopolista, il consumatore soffre, ma quando due mercati sono in una situazione di bassa concorrenza, il rischio è che il consumatore possa entrare in un “circolo vizioso”: il loop del monopolista.

Il monopolio è una forma di fallimento di mercato ed è per questo che l’Istituto Bruno Leoni mostra l’andamento del mercato liberalizzato in Italia tramite il proprio Indice delle Liberalizzazioni ogni anno.

Dall’indice del 2013 si ricava che uno dei settori meno liberalizzati è quello postale, come giustamente ricorda nel suo capitolo il professore Ugo Arrigo, dato che il valore assegnato è pari al 2 per cento. Read More