Roma: Marino caccia l’assessore rigorista, smentisce il governo e sceglie le tasse
C’è una pessima tendenza che si sta affermando nelle grandi amministrazioni locali italiane con i conti in dissesto. Di fronte alla necessità di ridurre il debito accumulato e di incidere con rigore nella spesa corrente fuori controllo, sindaci e presidenti dopo tante parole si trovano innanzi a una scelta. Farlo per davvero, oppure cacciare gli assessori al bilancio che, al momento della formazione della giunta, erano fieri di aver scelto per le caratteristiche di indipendenza e competenza, proprio per evitare spesa facile e favori ai partiti. E’ accaduto a De Magistris a Napoli, a Crocetta in Sicilia. Ieri si è purtroppo aggiunto alla lista il sindaco di Roma, Ignazio Marino. E l’assessore Daniela Morgante, rea di proporre tagli veri, è stata accompagnata alla porta.
Marino dirà che non ha colpa, che la Morgante si è dimostrata impoliticamente priva di ragionevolezza con le sue proposte. E che chi lo critica è espressione di un complotto. Quest’ultima accusa è classicamente espressione di una coda di paglia: di una politica che crede di nascondere i propri difetti accusando chi li sottolinea di servire interessi diversi da quelli collettivi. In questo caso, del cittadino e contribuente di Roma e di quello italiano, visto che del dissesto della finanza pubblica della Capitale pagano un sovraccosto rilevante sia innanzitutto i romani, sia tutti gli italiani che hanno dovuto subire l’onere di due decreti salva-Roma in pochi anni, nel 2008 e ora.
Marino è sindaco da un anno. Ma, come dimostrano le oltre 300 pagine della relazione di verifica della finanza capitolina curata dalla Ragioneria Generale dello Stato, se è verissimo che la prassi di bilanci falsi affonda a Roma nei decenni, per costi sottostimati o totalmente celati, la macchina del debito non per questo si è fermata né nel 2008, dopo l’escissione di 14 miliardi di debito pregresso dalla contabilità del Comune, né nel 2013 quando Marino è diventato sindaco. Anche nel 2013 la spesa corrente in Campidoglio è cresciuta, è salita oltre i 5 miliardi di euro. Una spesa per oltre il 50% fatta dal solo costo dei 25 mila dipendenti diretti comunali, e dei 37mila aggiuntivi dell’oceano di società controllate. Persino nei conti disastrati dello Stato nazionale, il costo del personale è pari all’11% del Pil e al 22% del totale della spesa: al Comune di Roma la percentuale e gli oneri sono percentualmente addirittura doppi.
Il sindaco sapeva bene che conti inerzialmente tali da continuare a generare altri 2,5 miliardi di debito entro il 2015, e 5 miliardi tenendo conto del consolidato delle municipalizzate – cifre puntualmente elaborate da agenzie di rating come Fitch – non si riallineano con le centinaia di milioni iniettate dal governo con il salva-Roma. Quel che serviva, anzi quel che serve, è un intervento energico. Una scommessa politica. Presentarsi ai romani come colui che ridisegna perimetro e costi dell’amministrazione capitolina dopo decenni di cavallette e locuste. Sapendo che i tagli incidono su interessi, clientele, pletore di dirigenti infilati dai partiti per gonfiare portafogli privati, e di correnti. L’assessore Morgante viene invece estromessa perché le sue ipotesi di tagli erano troppo pesanti. Su oltre 2 miliardi di costi diversi da quelli retributivi, aggiungere ai 300 milioni di minori spese da patto di stabilità altri 200 milioni di risparmi, più altri 197 milioni di spese non coperte: significava insomma spendere 700 milioni in meno, diminuire tra il 30 e il 50% molte dotazioni annuali,a funzioni come cultura e i municipi, manutenzione urbana e via continuando.
Marino ha detto no. Non ci sta. Ma se i tagli sembrano eccessivi, è perché il sindaco non ne vuole sapere, di fare una scelta risoluta per abbattere il debito sul versante delle dismissioni. C’ è ben oltre un miliardo di euro, tra patrimonio immobiliare pessimamente gestito, e quote di società partecipate di primo e secondo livello, che il Campidoglio potrebbe e dovrebbe smobilizzare. L’elenco è immane, di società partecipate, enti pubblici vigilati ed enti di diritto privato controllati: ACEA S.p.A, ACEA ATO2 S.p.A., Aequa Roma S.p.A., Aeroporti di Roma S.p.A., AMA S.p.A., ATAC S.p.A., Centrale del Latte di Roma S.p.A., Centro Agroalimentare Roma S.c.p.A., Centro Ingrosso Fiori S.p.A., EUR S.p.A., Investimenti S.p.A., Le Assicurazioni di Roma – Mutua assicuratrice Romana, Risorse per Roma S.p.A., Roma Metropolitane S.r.l., Roma Patrimonio S.r.l. in liquidazione, Roma Servizi per la Mobilità S.r.l., Servizi Azionista Roma S.r.l., Zètema Progetto Cultura S.r.l.. E ciascuna di queste ha una germinazione di società sottostanti.
Invece no. Il sindaco ha accettato solo l’ipotesi – tutta da verificare – di dismettere una trentina di società comunali di secondo livello che non offrono servizi, ma naturalmente recuperandone e tenendone a costo pubblico tutti i dipendenti. Sono sparite, per ordine del sindaco, le promesse revisioni degli oneri a carico del Campidoglio nei contratti di servizio di Atac e Ama. E dire che persino le farmacie comunali accumulano debiti per milioni di euro: 15 da ripianare nel prossimo bilancio. Il Campidoglio riesce a perdere dai mercati all’ingrosso che controlla, come da musei e mostre: 50 milioni di spese per 7 milioni di incasso dai biglietti.
La scelta del sindaco è di difendere la spesa comunale come “sociale” mentre gronda di “particolare”. E, pr difenderla, il sindaco decide di elevare al massimo ogni possibile aliquota, da quelle sulla casa all’occupazione del suolo pubblico, dalla tassa di soggiorno a quella sulle affissioni. Il Messaggero ha documentato in maniera comparativa come Roma sotto il sindaco Marino diventerà la landa più disgraziatamente tassaiola d’Italia, con un prelievo maggiore di chi stava ai massimi, e quasi doppio della media nazionale. Quel che è peggio, è che una parte non trascurabile della sua maggioranza e del Pd pensa che la cosa migliore sia rinviare le scelte vere al dopo elezioni europee, limitandosi per ora a un accordo di massima sui saldi che rinvii ogni decisione seria al piano triennale di rientro.
In questo modo, si pregiudicano tutte le sane intenzioni poste dal governo ponendo vincoli seri di raddrizzamento dei conti di Roma, come condizione esplicita nel decreto di salvataggio. Ci pensino, il sindaco e la sua maggioranza. Per una volta non seguiamo l’esempio tedesco, visto che la grande Berlino è sulla via di accumulare 65 miliardi di debito al 2015. Scrivemmo nei giorni del salvataggio che Roma non doveva diventare la Grande Mantenuta d’Italia. E lo ripetiamo, ora che in Campidoglio sembra prevalere la linea di farsi sordi e ciechi.