10
Mar
2010

Non è la panacea di ogni male, ma il Fme è meglio delle sue concrete alternative

– Lo dico apertis verbis: a differenza di Oscar Giannino, a me la proposta di Daniel Gros e Thomas Mayer d’istituire un Fondo monetario europeo non dispiace. L’idea dei due mi convince alquanto soprattutto in termini ‘relativi’, e cioè rispetto alle alternative immaginabili: il governo economico della politica monetaria (di cui Sarkozy e sodali vanno troppo spesso discorrendo), la discrezionalità e la violazione sistematica del Trattato UE in materia di salvataggio degli Stati membri, la sempreverde armonizzazione fiscale.

Tra l’esercizio intellettuale di Gros e Mayer e l’eventuale implementazione c’è una distanza siderale, ovviamente, soprattutto se si considera quanti e quali passaggi politici ci vorrebbero per trasformare la proposta in un’istituzione reale, con tutti i danni che i Governi nazionali potrebbero arrecare al progetto originario. In concreto, Gros e Mayer partono da due assunti: primo, di fronte al dirompere di crisi finanziarie come quella greca, l’obiettivo delle istituzioni politiche non può essere quello di prevenire a tutti i costi i default sovrani, quanto quello di renderli possibili e possibilmente più ‘ordinati’; secondo, va limitato l’azzardo morale.

Il secondo assunto ispira il meccanismo di finanziamento del Fme immaginato da Gros e Mayer: contribuirebbero al Fondo solo i paesi che non rispettano i criteri di Maastricht. Si può discutere delle cifre, ma per mettere più carne al fuoco i due propongono un contributo pari all’1 per cento della quota di debito superiore al livello del 60 per cento del Pil e della quota di deficit eccedente il limite del 3 per cento del Pil. Fatti due conti, per fare un esempio, nel 2009 il governo di Atene avrebbe dovuto pagare al Fondo lo 0,65 per cento del proprio prodotto interno lordo. A spanne, il meccanismo determinerebbe una sorta di premio assicurativo a carico dei paesi membri, che sarebbero esenti nel caso i loro conti fossero disciplinatamente entro i margini fissati nel Patto di Stabilità. In questo modo, oltre che disincentivare – come si diceva – l’azzardo morale, si darebbe maggiore robustezza agli stessi parametri di Maastricht (finora essi sono poco più che un accordo tra gentilStati).

Il primo dei due assunti è, manco a dirlo, quello di cui meno avete sentito e sentirete parlare sui giornali, sebbene sia particolarmente ricco di significati: il Fondo non dovrebbe avere il compito di evitare i default (perché questi, come ripete la vulgata, determinano insostenibili rischi sistemici), ma quello di minimizzare le peggiori conseguenze risultanti dai default. Detto in altri termini, i default ci devono essere, perché solo così si restaura la disciplina di mercato, mentre il Fondo dovrebbe provvedere a che i loro effetti siano il più possibile circoscritti. A tal uopo, Gros e Mayer immaginano un sistema stile Brady bonds, con il Fondo che scambia il debito del paese in default con dei nuovi titoli, entro il limite del 60 per cento del Pil del paese. Il paese dichiarerebbe default, i creditori si accollerrebbero parte del costo del default ricevendo solo una quota dei titoli che avevano in portafoglio, ma il rischio sistemico sarebbe contenuto entro margini accettabili. Un interessante corollario, nella proposta formulata, è il seguente: il Fondo scambierebbe i propri bond solo con le obbligazioni precedentemente certificate e non con titoli risultanti da operazioni opache o segrete da parte dei governi nazionali.

Le obiezioni di Giannino sono comprensibil e largamente condivisibili. E’ vero, ad esempio, che prima di istituire il Fme, andrebbe sciolto il nodo del peso dell’Europa nel Fmi. Ed entrando più nel merito, ha ragione Giannino quando individua un’incongruenza di architettura istituzionale tra il Fme e la Bce e quando sottolinea il forte rischio di impopolarità della nuova istituzione. Allo stesso tempo, il meccanismo di finanziamento del Fondo (al netto dei problemi di enforcement dello stesso, non banali) è ovviamente ‘pro-ciclico’, inguaia chi è già di per se inguaiato.

Tuttavia, continuo a credere che non vi sia nessuna obiezione di Giannino che non possa essere affrontata con un buon finetuning dello strumento. Sul meccanismo di finanziamento, ad esempio, si può discutere a lungo e si possono trovare soluzioni più accettabili (ad esempio allargando la contribuzione anche ai paesi più virtuosi, a cui si può chiedere un prezzo per l’esistenza stessa dell’unione monetaria), a costo di non perdere la logica – a mio parere sana – del premio assicurativo. Più in generale, nessuno può pensare che il Fondo, individuando soluzioni solo per le politiche di bilancio, sia la panacea di tutti i mali dell’unione monetaria. Per quelli, restano valide tutte le necessarie riforme sul lato dell’offerta, le liberalizzazioni, le integrazioni dei mercati del lavoro, l’abbattimento delle barriere alla mobilità.

Ma se crediamo che il meglio sia nemico del bene, non possiamo non porci il problema delle alternative reali al Fme, molto peggiori del Fondo stesso da ogni punto di vista, istituzionale, giuridico, economico e politico.

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2 Responses

  1. Liutprando

    Ho come l’impressione che si giochi con la finanza pubblica senza l’oste.
    Vero che ogni iniziativa macroeconomica tesa a virtualizzare il comportamento degli Stati membri sia in prospettiva una soluzione appetibile, in teoria. Rimane il fatto che a tirare la carretta sono sempre in meno e se i trasportati, anziché scendere e spingere, ingrassano alla fine l’asino schiatta.

    Il rischio è una rivolta popolare che spedisca al mittente ogni sacrificio necessario per la soluzione di problemi non loro ma esclusivamente di chi gestisce la politica monetaria.

    Siamo all’alba di un neo- feudalesimo.

  2. Luisa

    Spiegazione chiara. Concordo con l’estensore dell’articolo sulla necessità di un meccanismo quasi assicurativo.

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