3
Dic
2013

Il vero “bene comune” è l’efficienza: il trasporto pubblico di Genova (prima parte).

La vicenda che recentemente ha visto contrapposta l’azienda dei trasporti pubblici genovese all’amministrazione locale è stata esaminata sotto vari profili, tanti quanti sono le sfaccettature che essa presenta e varie sono le opinioni espresse al riguardo, anche su questo blog (v. qui).

Un aspetto forse non molto esaminato in relazione ai fatti citati è quello inerente a una particolare categoria di beni nella quale il trasporto locale è stato ricompreso al fine di rivendicarne l’assoluta alterità rispetto a qualunque ambito privato e, quindi, affermare con decisione l’impossibilità di convogliarlo in tutto o in parte nell’alveo di una gestione private profit oriented. Si fa riferimento ai “beni comuni”, oggetto di molto interesse da parte di economisti e giuristi nel corso degli ultimi anni.  Vale la pena svolgere qualche considerazione sulla questione AMT sotto il profilo suddetto, al fine di verificare se il trasporto pubblico locale possa essere ricompreso nella categoria suddetta e, se del caso, questo status sia tale da sottrarlo all’ipotesi di privatizzazione che talora per esso viene avanzata in considerazione delle condizioni in cui versa, non solo a Genova ma diffusamente.

Dei “beni comuni” sono state fornite definizioni varie, senza che si riuscisse a giungere a una condivisa. Tra coloro i quali di essi si sono occupati, il nome più illustre è quello del premio Nobel 2009 Elinor Ostrom (qui e qui scritti al riguardo, qui una più ampia ricognizione sul punto). In Italia, il tema è stato affrontato, sotto un profilo diverso, dalla commissione Rodotà, incaricata nel 2007 di redigere un progetto di riforma del Codice Civile, mai tradottosi in iniziativa parlamentare, al fine di rinnovare la disciplina della proprietà pubblica individuando i beni da sottrarre al mercato.

Riassumendo in maniera oltremodo sintetica la teoria della Ostrom, i common goods (per alcuni profili, le res communes omnium del diritto romano) sono beni collettivi che “tendono” a essere non esclusivi (nel senso che è difficile escludere qualcuno dall’utilizzarle) e non rivali (cioè la fruizione da parte di uno non impedisce ad altri di fare lo stesso): tra questi, gli esempi di solito citati sono l’atmosfera, il clima, gli oceani e beni similari. Secondo il premio Nobel, essi non possono costituire oggetto di proprietà pubblica o privata, ma vanno invece destinati alla gestione da parte della collettività che ne fruisce, ciò al fine di sottrarli alla “tragedia” del loro sovrasfruttamento. La qualificazione operata dalla Ostrom tiene conto delle caratteristiche strutturali che i beni in discorso presentano oggettivamente: da ciò l’economista fa discendere l’appartenenza alla categoria e la conseguenza che essi vadano affidati alle comunità di riferimento, capaci meglio di chiunque altro di salvaguardarli, autoregolandosi sulla base all’istanza condivisa della loro tutela necessaria. Vengono altresì individuati beni che, non essendo open access come quelli sopra esemplificati, si prestano a regimi di gestione diversi, per lo più misti, che assicurino comunque partecipazione e utilizzo della cittadinanza  interessata.

Se dal punto di vista economico il concetto di “beni comuni” viene delineato in relazione alle loro peculiarità, unitamente a diversi elementi a latere, sotto il profilo giuridico esso necessita di un passaggio ulteriore. In punto di diritto, tale concetto può essere sostanziato solo in ragione dell’interesse, diretto o indiretto, che per il  tramite di quei beni si intenda tutelare e, quindi, della funzione che a essi si voglia attribuire. Pertanto, l’individuazione dei commons viene operata da parte dell’ordinamento come conseguenza di una scelta di carattere “politico”, in relazione alla gradazione delle esigenze collettive prevalenti. Ciò risulta evidente laddove si considerino talune diverse definizioni che negli ultimi anni ne sono state date. Ad esempio, Mattei (“I beni comuni. Un manifesto”, p. 11) fa coincidere “i beni comuni” con quelli che “nell’ordine giuridico medievale costituivano non solo un’importantissima base di sostentamento dei ceti contadini e artigiani ma anche un sistema politico partecipato e legittimo…di autogoverno delle popolazioni autoctone” e li pone a oggetto “della democrazia partecipativa autentica, fondata sull’impegno e sulla responsabilità di ciascuno nel raggiungimento dell’interesse di lungo periodo di tutti”; per Hardt e Negri (“Comune”, p. 8) , per “comune” si deve intendere “tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via”; secondo Donolo (“I beni comuni presi sul serio”, in “L’Italia dei beni comuni”, p. 14) sono beni che “permettono il dispiegarsi della vita sociale, la soluzione dei problemi collettivi”; mentre la già citata Commissione Rodotà (v. qui) li identifica nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.

Al di là delle diverse sfaccettature delle definizioni riportate e, dunque, oltre gli interessi che ciascuna tende a valorizzare per far sì che vengano tutelati, in ognuna si rinvengono elementi comuni alle altre che valgono a caratterizzare i beni in discorso. Questi ultimi possono essere individuati in relazione alla finalità di  godimento collettivo che li connota, oltre al legame tra essi e la collettività di riferimento. Da ciò si fa generalmente discendere la conclusione, da un lato, che vadano sottratti alla logica privatistica del profitto, in quanto tale da inquinare la finalità suddetta; dall’altro, che non possano venire ricondotti alla proprietà pubblica, nelle sue diverse estrinsecazioni, in quanto anch’essa espressione di potere escludente, quindi, elemento di interferenza fra l’interesse della comunità all’uso dei beni in argomento e i beni stessi. Di conseguenza, per detti beni – o almeno per quelli le cui caratteristiche lo consentano pienamente, mentre per gli altri possono ipotizzarsi soluzioni alternative – si reputa che la gestione più adeguata sia quella operata della collettività mediante strumenti di democrazia partecipativa, affinché essa stessa possa fruirne nel modo più pieno e soddisfacente rispetto alle proprie esigenze. Si conferisce così coerenza al quadro d’insieme con una soluzione, da un lato, idonea a valorizzare l’interesse comune alla migliore utilizzazione/conduzione dei beni in discorso, dall’altro, volta a evitare che gli stessi, se posseduti o anche solo gestiti da soggetti diversi, possano essere non distratti dall’uso cui sono destinati o ad esso non completamente indirizzati.

L’indeterminatezza della categoria considerata, dipendente come detto dagli interessi che l’ordinamento di volta in volta sia orientato a tutelare, ha favorito nel tempo la tendenza – o la “ragionevole follia” (Franco Cassano, “La ragionevole follia dei beni comuni”), com’è stata definita – a ricomprendervi beni diversi, alla bisogna. Inoltre, dall’istanza dell’universale godimento degli stessi si è fatta scaturire la conseguenza che alla comunità ne dovesse essere assicurata la fruizione da parte di un soggetto “pubblico”, in quanto istituzionalmente preposto al benessere della cittadinanza. E’ della massima evidenza la pericolosità di tali assunti. Potenzialmente, poiché qualunque cosa può essere strumentale al soddisfacimento di una qualche esigenza collettiva e dunque passibile di rientrare nella categoria in esame, a soggetti pubblici comunque sarebbe assegnato il compito di garantire il godimento di una quantità teoricamente illimitata dei beni più vari senza vincoli di accesso a tutti gli interessati, nonché senza alcun riguardo alla circostanza che ciò venga o meno realizzato secondo criteri di efficienza. Ciò che conta è solo che un soggetto non privato, quindi estraneo alla logica dell’interesse personale, si faccia carico del compito suddetto, e tanto basta. Da ciò deriva un altro pericoloso effetto: quello che per il soddisfacimento della suddetta istanza debbano essere impiegate pubbliche risorse illimitatamente, dovendo essere assicurato alla collettività una fruizione incondizionata dei beni in discorso. L’assolutezza del risultato cui si tende renderebbe, comunque, sempre insufficienti i mezzi utilizzati: considerata la scarsità delle risorse che caratterizza gli input della produzione, a chiunque facciano capo, l’esito non può che essere un inevitabile corto circuito. In altri termini, il fallimento dell’impostazione così adottata è assicurato.

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob).

 

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5 Responses

  1. quantitative easing

    per quel che riguarda beni pubblici x me analisi è semplice.. soluzione è difficilissima (soprattutto x noi italiani): 1) se è troppo gratis allora troppe spese/clientele e troppa domanda (es. medicine comprate anche se nn servono).. 2) ma se è troppo privata invece sfruttano lavoratori e tagliano fuori molto ceto medio impoverito da fruizione.. via di mezzo è forse meno peggio.. dopodichè.. leggo che autore è di Consob (pubblica o privata :).. si può fare elenco kilometrico di raccomandazioni in assunzioni e connivenze con potentati spesso PRIVATI (x chiuder occhi su brogli finanziari di tutti i tipi talvolta in Sinergia con Isvap/Ivass) ai danni della massa del parco buoi.. francamente (anche se condividessi 100% contenuto articolo su Amt) mi vien da dire: ma da che pulpito vien la predica ? colletti bianchi liberisti son meglio di quelli blu sindacalizzati ? boh..

  2. Vitalba Azzollini

    La precisazione circa l’ente di appartenenza serve a escluderne ogni coinvolgimento e, dunque, a chiarire che la responsabilità dello scritto è dell’autore: per cui firmo col mio nome e cognome e solo con quello rispondo di ogni mia affermazione.

  3. roberto

    “(anche se condividessi 100% contenuto articolo su Amt) mi vien da dire: ma da che pulpito vien la predica ?”
    fino a che non si impara a valutare un’idea o un pensiero “per se”, cioè sulla semplicissima valutazione se sia valida o meno, a prescindere da chi la formula, in questo Paese saremo condannati a restare al Medioevo.

  4. luciano pontiroli

    In realtà, il progetto della commissione Rodotà – della quale Ugo Mattei era membro – propone un’articolazione dei beni un po’ più complessa, includendo tra i beni comuni anche beni di proprietà privata, ma sottoposti a vincoli per assicurare la loro destinazione alla soddisfazione di diritti fondamentali. Ne sono esempio i beni culturali, appartengano essi allo stato, ad enti locali o a privati: nella terza ipotesi, la logica partecipativa potrebbe esprimersi solo nella codificazione di un diritto di accesso che difficilmente potrebbe essere ilimitato. Resta il fatto che l’appartenenza privata dei beni riconosciuti d’interesse culturale è, in larga misura, una finzione.

  5. quantitative easing

    Roberto : un vigile ti ferma e ti multa xrchè 6 senza cinture sull’ape (e tu ammetti la tua colpevolezza e paghi).. poi passa uno senza cinture su una Maserati a 100 allora contromano.. lo saluta e lo lascia andare.. allora tu domandi : com’è ? lui ti risponde (oppure nn ti risponde e fa spallucce) : xrchè lui è mio amico.. l’efficienza per gli altri e l’inefficienza x sè e per gli amici è tipica di questo paese fallito x eccesso di clientelismo/corruzione pubblica&privata di massa.. L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù (la Rochefoucauld)

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