1
Giu
2010

Il crollo annunciato dell’Europa, di Philippe Simonnot

Questo intervento è stato pubblicato originariamente sul sito dell’Institut Turgot, che ringraziamo per la cortese concessione alla pubblicazione su chicago-blog. Philippe Simonnot è Direttore dell’Atelier de l’éeconomie contemporaine e Direttore del séminaire monétaire dell’Institut Turgot.

Vent’anni fa il blocco sovietico crollava, non già sotto i colpi di un attacco militare dell’imperialismo capitalista, ma schiacciato dal peso delle proprie “contraddizioni economiche”, come avrebbe detto lo stesso Karl Marx.

Quest’avvenimento, inevitabile nell’arco di due o tre generazioni, non era stato previsto da nessuno, eccezion fatta per un piccolo gruppo di economisti imperturbabili, i quali davano fiducia alle leggi del libero mercato. Oggi le stesse leggi permettono di annunciare quel crollo dell’Europa di cui la crisi dell’euro rappresenta il segnale precursore.

Si rimprovera spesso ai mercati la loro vista a corto termine, la loro visione “short-termista”, per impiegare il gergo borsistico. Ma questo significa conoscere assai male ciò che è un prezzo di mercato, fosse anche speculativo – e soprattutto se speculativo. Sul libero mercato, un prezzo concentra in sé tutte le informazioni disponibili non solo per il presente, ma anche per il passato e il futuro. In altre parole, meno sofisticate, si dirà che quelli che hanno del denaro, i “ricchi”, che si tratti di buoni o cattivi ricchi, si preoccupano di un futuro assai più lontano di quello che sta a cuore ai politici, essenzialmente attenti alla loro rielezione. Il celebre “muro del denaro” è un muro su cui si scrive il futuro – come quello di Baldassar (Daniele, 5:25)!

In questo senso oggi i mercati anticipano non solo le conseguenze disastrose dei rimedi che giorno dopo giorno vengono individuati per agevolare la fine di quella crisi finanziaria scatenata negli Stati Uniti due anni fa, ma anche e soprattutto l’incapacità dell’Europa di affrontare il mercato mondiale, dato che si trova bloccata dal gravame di quei debiti pubblici che hanno conosciuto un enorme incremento grazie ai suddetti rimedi.

I “tremendi speculatori” hanno pure inserito nei loro programmi informatici i debiti complessivi causati dal sistema pensionistico a ripartizione, debiti sempre più grandi e sempre meno finanziati, dal momento che la riforma del sistema è rinviata nel tempo o rifiutata. L’autodistruzione di uno Stato sociale che comporta sempre meno bambini e sempre più disoccupati, meno risparmio e più imposte, è tanto prevedibile nell’arco di due o tre generazioni quanto lo fu il fallimento del sistema sovietico, e se i politici lo negano e continuano a negarlo, da parte loro i mercati lo sanno molto bene e ne tengono conto.

A dire il vero, i politici hanno una qualche consapevolezza di questa scadenza che s’avvicina, e che rappresenterà un autentico crollo. Se il presidente della Repubblica francese si precipita al capezzale della Grecia, se spinge verso l’instaurazione di un improbabile governo economico europeo, se al tempo stesso s’affretta a portare a termine l’ultima riforma pensionistica, quale che sia il prezzo elettorale, è per tentare di evitare un umiliante downgrade del giudizio riservato alla Francia sui mercati finanziari, che si tradurrebbe in un supplementare aggravio del debito e in un tremendo schiaffo sul piano politico e personale. Si tratta di una battaglia di retroguardia, spalle il muro: è il caso di dirlo. A meno di un miracolo sul “fronte sociale” (pensioni, mercato del lavoro, sanità) che niente però autorizza ad attendersi, oppure a meno che non si rompa il termometro delle agenzie di rating, il downgrade dello Stato francese è ineluttabile dal momento che il debito pubblico, semplicemente, non è sostenibile.
Ciò che qui viene dello della Francia può qui essere detto per la maggior parte degli Stati europei, impantanati nelle stesse difficoltà.

Il più delle volte i grandi avvenimenti storici coniugano il caso e la necessità: una piccola miccia conduce il fuoco fino al barile pieno di polvere. La miccia è stata la vicenda americana dei subprime (ancora un frutto dello Stato sociale). Il barile sono i debiti pubblici accumulati durante trent’anni. L’esplosione la viviamo in questo stesso momento, che è destinato a porre l’Europa al di fuori della competizione mondiale.

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5 Responses

  1. Pinera sostiene queste tesi da una vita. Naturalmente inascoltato. I sistemi pensionistici europei sono una bomba ad orologeria.

  2. esatto al 1000%, la UE e’ la nuova URSS, forse peggio perche’ ha l’aggravante di potersi indebitare.
    E’ bene che finisca questo incubo keynesiano.
    a morte l’UE !!!!!!!!!

  3. marianusc

    L’europa ha ancora il PIL complessivo superiore a quello degli USA e più di tre volte quello della Cina…
    Avrà pure un valore, servirà almeno a trasformare quest’esito da “inevitabile” a “possibile”

  4. Bisogna solo intendersi su qual’è l’esito inevitabile.
    Il ridimensionamento dello stato sociale a livelli molto più bassi è un esito inevitabile (IMHO).
    Questo non significa che saremo necessariamente tutti più poveri o che saremo più poveri come società.
    Se lo stato sociale viene ridotto permettendo all’economia di crescere in modo stabile e sostenuto, staremo meglio tutti. Se continua con la situazione attuale di tasse alte, leggi e regolamenti castranti, etc. semplicemente lo stato sociale sarà ridotto perché saremo troppo poveri da poterlo mantenere.

    Per dire, se il nucleare fa tanto schifo e non lo vogliamo, poi si paga l’energia elettrica di più (e tutto quello che dipende dall’elettrico). Tutte risorse che poi non possiamo usare per altri scopi (tra cui pensioni e sanità). Se per un letto in ospedale si spendono 500 euro al giorno, e si ricovera gente che potrebbe essere assistita meglio e a minor costo da altre parti, quelli sono soldi sprecati che potevano andare in investimenti produttivi e più posti di lavoro veri.

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