6
Gen
2014

I libri dai quali ho più imparato nel 2013

Non stilo graduatorie dei “migliori libri”. Ma posso dire con ragionevole certezza da quali abbia imparato di più nell’anno appena chiuso. E proporveli, magari per invogliarvi a leggerli se ancora non l’avete fatto.

L’intelligenza del denaro, di Alberto Mingardi (Marsilio editore), non sta in cima alla lista perché Alberto è un amico, e insieme a Carlo Stagnaro, Carlo Lottieri, Serena Sileoni e ai giovani studiosi dell’Istituto Bruno Leoni, anima una rocca di speranza futura per chi è alla ricerca di dati e ragioni a sostegno del libero mercato e della concorrenza. No, il libro va promosso e “fatto leggere” da chi Alberto non lo conosce, perché è un vero libro-manifesto. Se dovessi dare un’indicazione a chi si facesse intimorire dalla 330 pagine, e non avesse voglia di cominciare dai fondamenti – l’insostituibilità delle scelte e preferenze individuali, che cosa sia e “non sia” il denaro, la necessità che i prezzi siano liberi, e via continuando – e magari fosse anche in qualche modo avverso ai criteri mercatisti, allora gli direi di cominciare la lettura da due capitoli che vanno al centro di questioni tornate di moda in questi anni di crisi. Il capitolo “Zio Paperone ministro delle Finanze del re Sole”, che si adatta bene a chi a destra e sinistra ha riscoperto la fola di mercantilismo e dazi per rilanciare l’Italia esportatrice. E “Fenomenologia del signor Burns”, in cui si affronta il nodo delle “esternalità negative” della produzione e degli scambi, che per i neostatalisti si affrontano solo con pesanti regolamentazioni pubbliche “dall’alto” a tutela degli svantaggiati, invece che attraverso libere e più efficaci scelte di cooperazione “dal basso”. Per i malati di italianite, cominciare dagli ultimi due capitoli, “Un’economia fascista” , e “Un’Italia di gattopardi”. Spero che giorno verrà nel quale Alberto venga ancor più pienamente riconosciuto nella vita italiana per quello che ai miei occhi è da anni. Un maestro straordinario.

 

Il berlusconismo nella storia d’Italia , di Giovanni Orsina (Marsilio ed). Anche in questo caso, la segnalazione non dipende dal fatto che lo abbiamo premiato al simposio annuale del Bruno Leoni. E’ davvero per me il libro tra tanti più utile per inquadrare il ventennio berlusconiano, nei suoi limiti ma anche nei suoi innegabili punti di forza per capacità di consenso, e alla luce della “lunga reazione” dell’Italia non di sinistra alle culture ortopedico-pedagogiche di chi intende di volta in volta “rifarla dall’alto”. Gli hegeliani com’è noto non sono solo marxisti, pensate all’azionismo impregnato di un irriducibile senso di superiorità etica rispetto agli italiani, o al manipulitismo della via magistratuale alla vera democrazia. Orsina ha il merito di cucire la parabola berlusconiana – tradottasi in un guaio epocale, per i liberali veri – non come a sé stante, ma nella trama e ordito dell’antiberlusconismo etico, da Scalfari a Grillo. Insieme, entrambe le componenti, sono il ventennio perduto italiano.

 

Mass Flourishing: How Grassroots Innovation Created Jobs, Challenge and Change, di Edmund Phelps, (Princeton University Press). Un libro davvero notevole. Phelps è per un terzo economista macro (la vulgata è che sia neokeynesiano, in realtà lo era negli anni ’60, ora è un eterodosso) e di qui il Nobel, per un terzo storico del mercato e soprattutto dell’innovazione, e per un terzo filosofo. E anche il libro – un altro bel tomo di 378 pagine – è fatto di almeno tre parti. La prima che analizza storicamente l’avvento del moderno capitalismo, successivo a quello mercantilista, e caratterizzato dall’avvento di costante e rapido miglioramento del reddito di masse crescenti. La seconda parte è illuminante e da sola vale il libro, perché è uno spietato atto d’accusa al neocoporativismo che nel mondo OCSE è diventato sinonimo della “terza via” tra Stato e mercato. Per Phelps fu Mussolini il primo a disegnare questa terza via, ma il problema è che gli è sopravvissuta eccome, a partire – e qui i keynesiani s’imbizzarriscono – da Franklin DelanoRoosevelt con la sua National Recovery Administration. Negli ultimi tre decenni, il neocorporativismo cambia solo strumenti: non è più lo Stato a guidare, ma resta il pilota a cui molti interessi affidano la loro tutela e tragitto, con reciproca soddisfazione e a scapito di concorrenza, innovazione e crescita. Iper-regolazione e iper-giuridicizzazione diventano le due facce dell’imbrigliamento pubblico del libero mercato e della sua forza d’innovazione. Stiamo anche qui parlando, come nel libro di Mingardi, del contrasti tra James Meade e Joseph Stiglitz – gli idoli delle “soluzioni dall’alto” alle esternalità negative – rispetto a Ronald Coase e alle soluzioni cooperative dal basso. La terza parte è quella che più ha fatto discutere in America, piena com’è di sfiducia sia per i democratici sia per i repubblicani sia per i fat cats della grande finanza, a fronte degli ostacoli all’innovazione che la loro azione congiunta creerebbe: ma su questo punto il lettore italiano potrebbe solo suicidarsi, al paragone.

 

The Bankers’ New Clothes: What’s Wrong with Banking and What to Do About It, di Anat Admati e Martin Hellwig (Princeton University Press). E’ uscito a inizio 2013, praticamente insieme a The Federal Reserve and the Financial Crisis che raccoglieva alcune conferenze di Ben Bernanke, ma è incomparabilmente più utile del secondo. Utile la la scelta di unire due punti di osservazione da ambo le rive dell’Atlantico, visto che gli autori sono un economista tedesco e uno americano. Ma soprattutto – almeno per chi la pensa come noi – un libro che non si perde in mille se e cento ma intorno all’origine della crisi finanziaria, ma va dritto al punto e lo sviluppa attraverso decine di esempi, americani come europei. Gli intermediari finanziari nel ventennio precrisi hanno voluto e hanno potuto – grazie ai regolatori – abbassare troppo il rapporto tra equity e liabilities. Se ordinariamente il rapporto era tra 20 e 30 ai vecchi tempi, poi divenne regola e non eccezione avere 3 porzioni di capitale per 100 di impieghi, a prescindere dal loro rischio e anzi nel suo impennarsi. L’annullamento del rischio dell’emittente insieme a quello del prenditore, tramite il rating dell’arranger intermedio, si è rivelata un’enorme fallacia previsiva. E il punto di fondo, per i regolatori finanziari, è tornare a ciò che le banche – e la politica, quasi sempre – lamentano invece come un grave errore, in tempi di crisi: cioè tornare ad elevare il capitale bancario. Nell’Italia che racconta la penosa storiella del suo sistema bancario come il più solido al mondo, e mentre da Siena viene l’ennesimo no ad aumenti di capitale sul mercato che diluiscano vecchi azionisti colpevoli, è una lettura che mi sento di raccomandare.

 

Il grande declino, di Niall Ferguson, (Mondadori). L’opera originale è del 2012, ma io l’ho letta solo nella traduzione italiana del 2013. Il titolo italiano è fuorviante: non è un libro sulla crisi finanziaria mondiale. Il titolo originale è The Great Degeneration, e il cuore del libro è il capitolo III, in cui Ferguson illustra la degenerazione dei sistemi di common law, corrosi ormai da quelli “francesizzanti” di diritto codificato. La legge dello Stato invece di quella che deriva dalla Tradizione delle Comunità. Ferguson trae ispirazione degli economisti istituzionalisti, come Douglass North ed Hernando de Soto ( se non avete letto il suo Il mistero del capitale, fatelo a riprova che le previsioni di lungo periodo sono ardue: all’epoca, nel 2001, diceva che il mercato aveva successo solo nell’Occidente)). E’ di grande interesse per il lettore italiano la parte centrale, sull’insostenibilità del debito pubblico rispetto alle entrate sul Pil di molti Paesi Ocse, chiosata con la scena de Il buono il brutto e il cattivo in cui Eastwood dice a Wallach: “il mondo si divide in due, chi ha la pistola e chi scava”. Nel mondo attuale col suo enorme debito pubblico l’Italia scava la sua fossa, mentre la pistola ce l’hanno altri. Ed è utilissimo che Ferguson ricordi a tutti che la prima definizione di “debito intergenerazionale” ci venga da Edmund Burke. Esaltanti le pagine contro il monopolio pubblico dell’istruzione, un vero freno all’innovazione e alla crescita. La conclusione del libro – sul ritorno allo “stato stazionario” di Paesi prima in crescita, per le precise ragioni descritte da Adam Smith nel libro primo cp.8 della sua Ricchezza delle Nazioni: e cioè quando le loro “leggi e istituzioni” degenerano al punto tale che l’élite a caccia di rendite domina i processi economici e politici – dovrebbe essere letta a voce alta nei messaggi di fine anno del Capo dello Stato italiano, e nei discorsi di fiducia di un vero governo di svolta.

 

Menti tribali, perché le brave persone si dividono su politica e religione, di Jonathan Haidt (Le Scienze-CodiceEdizioni To). Magari molti di voi sono diffidenti verso grandi libri (questo ne ha quasi 450, fitte) scritti da psicologi morali. Io lo ero, anni fa. I percorsi intrecciati delle scienze cognitive, gli avanzamenti e gli esperimenti della neurobiologia rispetto alle scelte economiche e politiche, autori come Daniel Kahneman – l’unico a prendere un Nobel per l’economia da psicologo – mi avvicinarono ad alcuni aspetti della psicologia, intrecciata all’evoluzionismo e alla teoria delle scelte collettive. Naturalmente, seguo psicologi morali coerenti alla “nostra” scuola”. In sintesi, per Platone – e per Kant, molti secoli dopo – la psicologia morale nasce dal prevalere della ragione. E’ lo stesso errore commesso dalle derive illuministe posthegeliane. Per David Hume, nella psicologia morale le passioni e i desideri esistono eccome, e la ragione ha come sfida quella di “servirli” entro certi limiti. Thomas Jefferson scrisse che entrambe le pulsioni sono inscindibili. Orbene tutto quel che stiamo imparando negli ultimi decenni dalla neurobiologia, e dallo studio comparato dei sistemi di morale nelle diverse are del globo, dimostra che avevano ragione Hume e Jefferson, non Platone e Kant. Detto ciò, segnalo questo libro perché ha rappresentato un pezzo fondamentale della terapia personale a cui mi sono sottoposto negli ultimi 10 mesi, per capire che cosa davvero mi avesse spinto a comportarmi come mi ero comportato, all’origine del mio sputtanamento sui titoli di studio, di enorme danno per il movimento che avevo – per disperazione – fondato e portato in otto settimane alle urne, tra molte e crescenti curiosità e aspettative. Il mio problema personale è comprendere ed emendarmi dalla scelta di Glaucone: il personaggio che nella Repubblica di Platone oppone a Socrate la convinzione che nell’azione pubblica non sia affatto preferibile “il virtuoso coerente”, ma sia legge ferrea al suo posto quella di “colui che vuole apparire virtuoso”. Platone dà ragione a Glaucone, Socrate sostiene l’opposto, e muore coerente. Vi risparmio qui l’utilità del libro per i mio caso personale, potrei scriverne per decine di cartelle, tratte da lunghi e penosi appunti auto-anamnestici rispetto ai tanti testi citati nel capitolo 4, il cui titolo dice tutto :“Votate per me, ecco il motivo”. Voglio solo darvi l’idea delle tre dimostrazioni fondamentali delle tre distinte parti del tomo. Primo, nella psicologia morale le intuizioni precedono sempre il ragionamento strategico. Secondo: la morale è molto più di una bilancia di danno e correttezza, e capita per questo che la morale pubblica dei conservatori tocchi sei o sette registri mentre quella dei progressisti resta incatenata a due soli, giustizia ed eguaglianza. Terzo: la morale unisce e acceca, nella religione un tempo dovunque e oggi soprattutto in alcune parti del mondo, ma in politica quasi sempre e dovunque. Un manuale al pluralismo morale per la bipartisanship, NON al relativismo morale. Utilissimo per la vita pubblica americana ma ancor più per quella italiana.

 

Focus, perché fare attenzione ci rende migliori e più felici, di Daniel Goleman (Rizzoli). È la seconda tappa, rispetto alla precedente. Goleman è un altro ex cattedratico di psicologia, ad Harvard, e da tempo si è dato a ricerche sulla leadership emotiva a partire da Menzogna, autoinganno e illusione. Questo testo è molto utile per riflettere sui fondamenti neurobiologici dell’attenzione, cioè per evitare errori e imparare quando li si commette. Le riviste di management suggeriscono simili letture più per i tratti descrittivi della leadership ideale e dei successi che può conseguire, che per i fondamenti scientifici delle osservazioni da cui dedurre teorie della leadership. A me interesse l’esatto opposto, capire come funziona il tronco encefalico, che ospita il barometro neuronale che fa aumentare o meno eccitazione ed attenzione a seconda del livello di vigilanza che viene automaticamente ritenuto necessario. Oppure come funziona la giunzione temporo-parietale, che insieme ad alcune regioni della corteccia prefrontale sembra ospitare un circuito che rafforza la concentrazione escludendo le emozioni: in pratica, come mantenere una distanza tra se stessi e gli altri, cosa necessaria per evitare di essere sia autocentrati sia parti passive di un gruppo.

 

In difesa delle cause perse, di Slavoj Zizek, (Ponte alle grazie ed). Da qualche anno mi chiedo come mai la sinistra italiana continui a riempersi la bocca della “società liquida” di Zygmunt Bauman, quando dovrebbe citarlo solo Giuseppe De Rita, a capo del filone del valorismo nostalgico praticato un tempo come instrumentum regni da élite corporative. O la sinistra italiana è inconsapevole, cioè non ha letto abbastanza di quanto si produce intellettualmente nel post-industriale, oppure è davvero soprattutto nostalgica della rendita di posizione togliattiana: valori etici per non governare. Se non fosse così, gran parte della sinistra italiana – non solo quella antagonista ma la maggioranza degli attuali parlamentari Pd, che si riconoscono in Fassina e Barca assai più che in Renzi – dovrebbe citare Zizek. Per questo ho iniziato a leggerlo. È un fluviale filosolo politico nato a Lubiana, ma di solidissima radice franco-tedesca quanto a studi filosofici, e che insegna in diverse università americane. Scrive un librone l’anno, è impegnato in una trilogia su Hegel, e ho appena finito la riedizione aggiornata e ampliata di questa sua difesa delle cause perse, che risaliva al 2009. Quali sono le cause perse che difende: ah beh, per cominciare Roberspierre, Mao, Stalin… Ma Zizek non è affatto un rozzo comunista. Da Alain Badiou a Horkheimer e Adorno, nelle 640 pagine trovate una cavalcata godibilissima – e densa di cultura con la C maiuscola – attraverso passaggi di cui la sinistra incolta resterà sempre incapace, come l’elogio della scelta di Heidegger nel 1933 (quando divenne nazista, ehm…). Del resto, se credete che l’intellettuale radicale non sia stato affatto sconfitto, ma venga invece esaltato dalle contraddizioni della modernità, allora l’egualitarismo senza condizioni, nell’ambientalismo come nel mercato, “deve” rappresentare la vera alternativa a un liberalismo che Zizek non avversa in quanto strumento nelle mani delle ricche corporations, ma al contrario perché non è mai riuscito davvero a rivelarsi – ancora – capace di essere anti-Stato e anti-Autorità (oggi, esercitata dai tecnici), praticando davvero quella “scelta dal basso” che a Zizek piace per definizione, e radicalmente. Il difetto del suo pensiero è che c’è – ovviamente – troppo Lacan e Deleuze. Ma Toni Negri dopo essere più volte lodato viene respinto come un povero eurocentrista che ha letto evidentemente poco, e c’è da ridere di gusto.

 

Il popolo del Duce, storia emotiva dell’Italia fascista, di Christopher Duggan (Laterza). Merita il premio che ha vinto nel 2013 come Political History Book of the Year, insieme al Wolfson History Prize. Dugan insegna storia italiana all’Università di Reading, e lavora vecchio stile sugli scartafacci d’archivio. Quest’opera dà spessore e ricerca alla tesi defeliciana degli “anni del consenso” tra Italia e Mussolini. Gli archivi della segreteria personale del Duce del fascismo diventano così il racconto vero e profondo in oltre 500 pagine di un’immedesimazione di massa nel capo del fascismo, alimentata e pasturata secondo tecniche di consenso insieme pre-moderne – le centinaia, impressionanti le testimonianze che mi erano sconosciute, di donne prese incontrandole una sola volta – e modernissime – le elargizioni pubbliche. Per avere un’idea, nel solo inverno 1933-34 e nella sola provincia di Rovigo, furono distribuiti a nome del Duce 3770 quintali di farina, 435 di pane, 66 di pasta, 60 di riso, 850mila – 850 mila! – “ranci del popolo”, e 60mila articoli di abbigliamento. Purtroppo, ciò di cui ci resta memoria è solo la punta dell’iceberg, con vette come la massaia bolognese che tra il 1937 e il 1943 scrisse 848 lettere a Mussolini. Nell’estate del 1943 la Segreteria di Mussolini inviò al macero milioni di schede contenenti ciascuna gli estremi di una singola unità di corrispondenza, e 480mila dei 565mila più corposi fascicoli in cui era stata archiviata una corrispondenza sistematica. Deludente invece l’epilogo in cui l’autore si pone il problema della continuità Berlusconi-Mussolini. Poche pagine impregnate di considerazioni etiche alla Paul Ginsborg, che non levano importanza ad uno dei maggiori contributi alla ricostruzione documentale del rapporto tra Mussolini e l’opinione popolare italiana.

 

Progetto di un impero-1823, L’annuncio dell’egemonia americana infiamma la borsa, di Nico Perrone (La città del sole ed.). Una bella ricerca sui presupposti della dottrina enunciata dal presidente americano James Monroe nel dicembre 1823, nella totale disattenzione delle potenze della Restaurazione europea. L’unico nelle distratte cancellerie a capire al volo che cosa significasse “l’America agli Americani” fu Metternich. Ma lui per primo aveva altro a cui pensare. I mercati invece capirono e reagirono subito. Tanto che a Londra e Parigi, i due ventricoli cardiaci del mercato finanziario di allora, per due anni registrarono un vero rally i titoli del debito pubblico delle malcerte repubbliche sudamericane in lotta per l’indipendenza dalla Spagna . È un libro pieno di particolari poco battuti dalla storiografia ordinaria. È notorio il peso che ebbe l’appartenenza alla massoneria di molti presidenti nei primi decenni degli USA, ma di fatto è infondato che tale criterio sia stato decisivo per il formarsi dell’indirizzo interventista alla base della dottrina elaborata da John Quincy Adams, il segretario di Stato di Monroe. Adams, figlio di presidente, divenne presidente degli Stati Uniti anch’egli nel 1824, e lo divenne con una manovra oligarchica, non avendo ottenuto la maggioranza né dei voti popolari né degli electoral votes. Era un un oligarca alla testa del partito anti massonico contro Andrew Jackson massone notorio (diventerà presidente 4 anni dopo), l’autore della base di pensiero che ha spinto gli Stati Uniti a oltre 100 interventi armati in tutto il continente americano, nei 165 anni dalla dottrina Monroe alla caduta del comunismo.

 

Population 10 Billion: The Coming Demographic Crisis and How to Survive it, di Danny Dorling, (Constable ed). È “il” libro da regalare al professor Sartori, e a tutti i malthusiani che indicano da più di due secoli l’eccesso di popolazione come uno dei limiti naturali allo sviluppo e altresì come contraddizione intrinseca del mercato. Dorling è un geografo oxfordiano e nel suo libro si diverte a ricordare quanto infondati siano stati in passato gli allarmi di chi ha immaginato che la sovrappopolazione misera avrebbe abbattuto il saggio di profitto prima e il capitalismo e la democrazia poi – un certo signor Karl Marx – in quanto sinora il tasso di crescita dell’utilità di trasformazione da input limitati grazie alla tecnologia e all’elevata produttività è sempre cresciuto più di quanto crescessero le bocche da sfamare. Certo, sono passati 64mila anni per raggiungere nel 1820 il primo miliardo di individui, poi 106 anni per il secondo miliardo, 34 per il terzo nel 1960, 15 per il quarto nel 1975, 13 per il quinto miliardo nel 1988, 12 per il sesto miliardo nel 2000, 11 per il settimo miliardo raggiunto due anni fa. Continuano in tale accelerazione, saremmo 133,5 miliardi nel 2300. Ma c’è una frenata in corso. Non arriveremo ai 10 miliardi prima del 2100. Usciti dalla povertà, etnie e popoli abbattono il tasso di figli per donna assai più rapidamente di quanto s’immaginasse. Chi si preoccupa, sappia che più è contrario per “preservarci” alla libera immigrazione, più contribuisce a tener bassa la nostra produttività e a tener alto il loro tasso di fertilità. L’esatto opposto di quel che serve.

 

Ascoltare Beethoven, di Giovanni Bietti, (Laterza). Da anni seguo un percorso di approfondimento tematico musicale, dal barocco alla musica atonale poiché non amo molto la musica romantica. Ma mi ero da tempo allontanato da Beethoven, coltivato da ragazzo. Mi ci ha riavvicinato questo bel volume di un grande pianista e musicologo animatore delle iniziative al parco della Musica romano, corredato da un cd con 49 tracce musicali che nel volume vengono evocate per “spiegare” l’evoluzione di forma e dinamica, tonalità e ritmo, registro e massa della produzione musicale del genio di Bonn. In particolare trovo utilissima la guida tecnica al “terzo Beethoven”, quello della produzione tarda successiva al 1820, da anni quella sua che più mi appassiona. Nelle sonate op.109 e 11, nei Quartetti op 127, 131, 132 e 135, nelle Variazioni Diabelli, nelle Sei Bagatelle op.126, c’è una così spinta ridefinizione delle forme, temi, successioni e perfino dell’armonia, giustapponendo registri gravi e medio-acuti, che gli epigoni romantici a cominciare d Schubert non riuscirono a seguirlo in nulla, estranei innanzi a uno stile che sentivano immane ma di cui nulla comprendevano. Anche Brahms e Wagner, per quanto provassero, non riuscirono a riprenderne le chiavi. E bisognerà aspettare il Novecento degli Schoenberg e dei Webern, per venirne a capo. Il libro di Bietti è essenziale per cogliere gli aspetti tecnici di questa ultima grandiosità rabdomante beethoveniana. La più grande, rispetto alla rotonda fede illuminista del periodo mediano beethoveniano e del Fidelio che tanto mi appassionavano da giovane.

Buona lettura a tutti.

7 Responses

  1. Grazie per la segnalazione.
    Di Slavoj Zizek avevo già letto qualche recensione e non mi spiacerebbe leggerlo, non so se ne avro’ tempo.

  2. RiccardoG

    Letture tutte molto molto interessanti…peccato per le disavventure elettorali, avrei tanto voluto che la sua lista avesse potuto affermarsi (detto da uno che si ritiene molto piu progressista, socialista e laico che liberale, sono liberale quel tanto che basta!)

  3. luciano pontiroli

    Interessanti segnalazioni. L’opera di Zizek è nella mia bilbioteca, ma non l’ho ancora letta: ho letto però “Il soggetto scabroso”, lavoro più impegnativo e non sempre perspicuo: un trascorrere da Kant ed Hegel a Lacan, in una prospettiva rivoluzionaria che si fa beffe della sinistra istituzionale. Eppure è curioso come certa “nuova sinistra”, pur partendo da riferimenti intellettuali diversi, condivida temi libertari: tra il Manifesto dei beni comuni di Ugo Mattei e Credere nello Stato? di Carlo Lottieri i punti di contatto non mancano …

  4. Gianfranco

    La morale e’ relativa. L’etica e’ assoluta.
    Da quando ho capito questo, non c’e’ piu’ problema.

  5. Piero

    Menti tribali, perché le brave persone si dividono su politica e religione, di Jonathan Haidt …….
    Platone diceva che l’anima è una biga con 2 cavalli.. uno son le passioni e l’altro la ragione.. nella Repubblica (opera della maturità) il motivo x cui auspica il Governo dei Filosofi, dei Saggi Aristocratici, è che la 1° Democrazia Ateniese gli aveva in pratica Suicidato il suo maestro Socrate.. visione pessimista sulle capacità del popolo di esser ragionevole di fronte alle esche dei Populismi.. nel nostro piccolo Mussolini/Berlusconi docet (su quest’ultima riga son consapevole che la pensi in modo molto diverso da me)..

  6. Agostino Ronco

    Dimmi cosa leggi e ti diro’ chi sei!
    Complimenti Giannino, molte grazie per questo bell’ elenco di libri e per le sue interessanti riflessioni che leggo sempre molto volentieri
    Cordiali saluti,
    A. Ronco

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