6
Gen
2014

“Continuiamo così, facciamoci del male!”: l’Italia e certe scelte sul digitale (seconda parte).

Nella prima parte è stata rilevata la mancata effettuazione di un’analisi d’impatto da parte del Governo con riferimento alla disciplina, attualmente sospesa, relativa alla c.d. web tax. Si è evidenziato come l’analisi suddetta sia stata invece svolta da parte di molti di coloro che hanno commentato detta misura, mostrando gli effetti che la tassa avrebbe prodotto, sotto i più vari aspetti, oltre a rilevarne motivi di contrasto con la normativa europea vigente. Essi hanno in tal modo dimostrato come la regolamentazione di materie di una tale portata non può avvenire senza che le conseguenze siano state esaminate sotto ogni punto di vista: le interconnessioni tra settori sono tali da rendere necessario che tutti i soggetti, sia pure indirettamente coinvolti, vengano messi in condizione di apportare il proprio contributo in fase di predisposizione delle leggi.

Come accennato, la norma volta a imporre un preventivo accordo per l’attività dei motori di aggregazione e indicizzazione di notizie, che propongono oltre ai link anche riassunti e anteprime degli articoli nelle proprie pagine dei risultati (snippet, frammenti brevi di testo, equiparabili a delle “citazioni”), al momento è stata evitata: ma forse non in via definitiva, considerato che non era la prima volta che veniva presentata. Sembra utile, dunque, qualche considerazione al fine di valutare come essa potrà incidere sul web, soprattutto al fine di comprendere a chi, se emanata, potrà giovare e quali effetti, più in generale, potrà avere: come per la web tax, sempre quello è il punto, vale a dire la necessità di un’analisi di impatto.

Una prima proposta di legge al riguardo, analoga a quella attuale, era stata presentata  nel 2010 e poi ripresa nel 2012. Partendo dal presupposto che “l’inosservanza dei diritti di utilizzazione economica dell’opera editoriale danneggia le imprese editrici i cui giornali, da prodotto di una complessa e costosa attività produttiva e intellettuale, diventano oggetto di illecita riproduzione”, il proponente l’iniziativa giungeva alla conclusione che “le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione, il diverso ruolo in cui si atteggiano le piattaforme che mediano tali contenuti informativi, le peculiarità di alcuni sistemi di distribuzione e di categorizzazione delle notizie (tra cui, in primis, i motori di ricerca) rendono (…) necessario ed improrogabile un intervento del legislatore”, al fine di garantire “la tutela della proprietà intellettuale dell’opera editoriale sia nelle forme tradizionali (carta stampata) sia nelle forme digitali (diffusione via internet)”.

Già in altri Paesi, comunque, gli editori avevano inteso trarre un proprio beneficio dall’attività svolta dagli aggregatori e indicizzatori di notizie, Google in particolare. In Brasile, dopo tentativi di accordo con la multinazionale, i 154 giornali aderenti all’associazione nazionale dei periodici brasiliani (ANJ) avevano vietato l’indicizzazione dei loro contenuti nel servizio “News”, come qui riportato, con la conseguenza che gli articoli pubblicati erano comunque reperibili in rete, ma non se cercati per il tramite dell’aggregatore citato. La scelta era stata motivata con la circostanza che Google non corrispondeva alcuna remunerazione per l’utilizzo di detto materiale, deviando peraltro le visite sulle pagine internet dei giornali on line. A ciò il colosso americano aveva replicato che sarebbe stato come se un ristorante avesse imposto un pagamento a un tassista che gli portasse clienti: così ognuno era rimasto sulle proprie posizioni, senza che venisse trovato un accordo. In Europa, il primo Paese a contestare l’utilizzo degli articoli on line, specificatamente da parte di Google, è stato il Belgio. Nel 2006, la Copiepresse, l’associazione degli editori belgi di lingua francese e tedesca, ha accusato il motore di ricerca di violare il copyright dei suoi giornali, danneggiando il relativo traffico sul web, tramite la pubblicazione di link e sintesi di articoli. Dopo pronunce giurisdizionali sfavorevoli a Google,  l’azienda di Mountain View, con l’obiettivo di mettere fine alla controversia, ha concordato (come qui si riporta) con i giornali belgi una collaborazione basata su un accordo che non prevede il pagamento di compensi, ma una diversa contropartita, rappresentata dalla pubblicità dei servizi di Google sui media degli editori e dall’utilizzo a condizioni particolari, da parte di questi ultimi, delle soluzioni pubblicitarie fornite dalla società statunitense. In seguito, anche Francia e Germania hanno avanzato pretese nei confronti di quest’ultima, sempre con riferimento allo sfruttamento di link e contenuti parziali di articoli digitali. In Francia, così come in Belgio, la controversia è sfociata in un accordo (v. anche qui) che si è tradotto non in una vera e propria remunerazione, bensì nella messa a disposizione da parte di Google di 60 milioni di euro per un fondo finalizzato a sostenere il passaggio all’editoria digitale, oltre all’offerta di condizioni vantaggiose per chiunque volesse avvalersi delle soluzioni pubblicitarie da essa stessa proposte. In Germania, a differenza dei due Paesi europei citati, alla soluzione negoziale si è preferita quella normativa: così l’attività dei motori di ricerca è stata ricondotta alla disciplina in materia di diritto di autore. Nel marzo 2013 sia Bundestag  che Bundesrat, ridimensionando le più ampie pretese degli editori, hanno deliberato (come qui, tra gli altri, riportato) che questi ultimi fossero titolari di ogni diritto di commercializzazione dei loro prodotti o di parti di essi, restando invece consentita a motori e aggregatori la pubblicazione di sintesi del testo.

In Italia, come accennato, la via prescelta, ancorché non percorsa fino in fondo, è stata quella legislativa. Del resto, è antico vizio italico quello di ricorrere alla regolamentazione minuziosa di attività il cui svolgimento, se rimesso all’accordo negoziale tra le parti, potrebbe forse sfociare in un risultato più idoneo a contemperare gli interessi contrapposti e, soprattutto, più facilmente modificabile in relazione a una realtà in progressiva evoluzione, qual è quella di internet e del digitale. Invece, nel nostro Paese si pretende di imbrigliare una materia così fluida in norme rigide che seguono schematismi obsoleti, utilizzando istituti non adattabili alle tecnologie più avanzate. Sarebbe più adeguato – e non solo con riguardo a questo tema – dettare chiari principi generali, lasciando che la realtà si sviluppi autonomamente rispetto a qualunque regola volta a precostituirne i binari, limitandosi a seguire il corso degli eventi e controllandone gli effetti. Se a ciò si aggiunge la circostanza, già rilevata per la web tax, che discipline di rilevante portata vengono introdotte nell’ordinamento senza un’analisi volta a verificare se saranno tali da recare un reale valore aggiunto, ovvero un nocumento che ne renda antieconomico il risultato, appare chiaro che, nonostante gli obiettivi di semplificazione che ogni Governo pare voler perseguire, la c.d. inflazione normativa non può che aumentare.

La questione “link tax” offre diversi spunti sotto il profilo normativo. La disposizione in forza della quale l’attività di indicizzazione/aggregazione di notizie attraverso siti internet o motori di ricerca non sarebbe stata possibile in mancanza dell’accordo dei titolari dei diritti sui contenuti avrebbe reso il link relativo oggetto di privativa, proprio come l’opera dell’ingegno cui esso è collegato. Ciò avrebbe inciso, quindi, sull’art. 65 della legge sul diritto d’autore (L. n. 633/1941) – concernente l’utilizzazione, a date condizioni, degli articoli di carattere economico politico o religioso salvo non ne sia stata riservata la pubblicazione – che rappresenta attualmente un buon equilibrio tra il diritto della collettività a essere informata e quello degli editori a essere remunerati per l’attività da essi svolta. La necessità di un preventivo accordo circa il mero utilizzo anche dei link avrebbe, dunque, posto ulteriori limitanti paletti alla proprietà intellettuale, rendendo oggetto del diritto di autore non solo l’opera ma anche i collegamenti  ipertestuali alla stessa. Questi ultimi, di fatto, costituiscono soltanto l’esito tecnico di un percorso volto, mediante regole di programmazione, a rendere rintracciabile il testo cui si riferiscono. Peraltro, laddove effettivamente si voglia rendere non reperibile un prodotto digitale, tale percorso può essere agevolmente bloccato: in mancanza, l’accesso al prodotto stesso può ritenersi implicitamente consentito. Dalla norma in discorso sarebbe stato vanificato il c.d. “fair use”, vale a dire l’uso legittimo di contenuti anche in mancanza di autorizzazione, poiché nella disposizione in esame non si prevedeva alcuna differenza circa l’utilizzo o meno a fini di lucro, didattici o di commento, ciò al fine di individuare fattispecie nelle quali esso fosse liberalmente consentito. Quanto alle sintesi che accompagnano i link in sede di indicizzazione/aggregazione, stante la formulazione della disposizione poi non approvata (“..la comunicazione al pubblico e in ogni caso l’utilizzazione, anche parziali, in ogni modo o forma…di prodotti dell’attività giornalistica”), sarebbero state anch’esse oggetto di divieto in mancanza di accordo. Ciò avrebbe contrastato con quanto previsto dall’art. 70 LdA, che permette il “riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico” purché non “costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera”, nonché nel rispetto di altre condizioni. Detta norma è, peraltro, aderente a quanto previsto dall’art. 10 della Convenzione di Berna, che sancisce il diritto di citazione, purché in osservanza di determinate regole. Infine, se il legislatore nazionale avesse introdotto la disposizione in discorso avrebbe dimostrato di non tenere in alcun conto la circostanza che la Commissione europea, nelle scorse settimane ha avviato una consultazione pubblica sul copyright  al fine di modificare le regole esistenti in relazione all’evoluzione di una realtà digitale ormai di estrema rilevanza. Del resto, anche per la c.d. web tax il Governo, fino alla proroga dell’entrata in vigore, ha dimostrato di non curarsi delle opinioni avanzate in sede UE in relazione alla possibile violazione della normativa europea né dell’ipotesi di apertura di una conseguente procedura di infrazione.

Sotto il profilo dell’incidenza della norma suddetta sugli ambiti da essa coinvolti, i risultati non sono più edificanti. Al di là delle motivazioni formali poste a suo fondamento – consistenti, come si è visto, nella necessità che, a fronte di una tecnologia invasiva, i diritti sulle opere dell’ingegno vengano tutelati – la link tax derivava, così come la web tax, dall’esigenza di rastrellare, ove possibile, risorse: da parte degli editori, in questo caso. Il settore è in crisi da diverso tempo e, poiché evidentemente le sovvenzioni pubbliche allo stesso elargite non sono sufficienti, essi cercano il modo di reperire altrove ulteriori entrate, esercitando  la propria influenza sul legislatore affinché ciò avvenga. Il paradosso è che, in mancanza di un processo normativo trasparente e motivato mediante un’effettiva analisi di impatto, il risultato finisce per essere dannoso per tutti, in primis per coloro cui dovrebbe recare vantaggio. Si valuti, innanzi tutto, il seguente aspetto: la norma cui si fa riferimento, in considerazione del traffico che i social media apportano sui siti dei giornali on line, nelle intenzioni degli editori rappresentava il modo per continuare a fruire di quel traffico e dei relativi proventi, partecipando al contempo ai profitti realizzati dagli  aggregatori/indicizzatori. Ma i motori di ricerca, dato il nuovo oneroso limite posto alla propria attività, avrebbero potuto decidere di rinunciare alla pubblicazione dei link in parola: poiché l’editoria digitale trae i propri ricavi in gran parte in funzione della quantità di accessi effettuati dagli utenti, il mancato reperimento dei relativi contenuti, in quanto non aggregati/indicizzati, avrebbe causato meno entrate sui relativi siti, con conseguente minore visibilità della pubblicità che serve a sostenerne i costi e, dunque, con un danno agli editori stessi. Numeri utili a valutare il relativo impatto emergono da un recente scritto circa il traffico generato dai social media per le principali testate: l’incidenza è rilevante ed elevato è il “tasso di rimbalzo”. Del resto, nel 2010 Murdoch bloccò l’indicizzazione delle notizie dei suoi giornali da parte di Google News, per evitare che quest’ultima  ne traesse profitto, ma due anni dopo, resosi evidentemente conto del valore dei lettori veicolati dell’azienda di Mountain View, la consentì di nuovo (v. qui). Si consideri, inoltre, che gli aggregatori di notizie costituiscono una “vetrina” soprattutto per le realtà editoriali minori: appare evidente il nocumento che a esse deriverebbe laddove i link dei relativi prodotti digitali non fossero indicizzati a causa delle condizioni imposte al riguardo. Infine, sempre ai fini della valutazione dell’incidenza della norma in discorso, giova rammentare che, mesi fa, anche il venir meno della possibilità di pubblicare delle rassegne stampa on line venne fondato sulle medesime ragioni addotte in relazione alla norma in esame (qui se ne trattò). La verifica successivamente svolta ha dimostrato che, a distanza di mesi dalla loro scomparsa, i supposti effetti benefici che ne sarebbero dovuti scaturire per il comparto editoriale non vi sono stati, come qui appare evidente e come qui viene dimostrato. Ciò accade quando l’impatto di una certa misura non viene fondatamente analizzato: gli effetti della soluzione elaborata non risultano, poi, quelli sperati.

Già quanto appena esposto basterebbe a qualificare la rilevanza della disposizione in discorso, ma non è tutto. Essa menzionava l’utilizzo in “ogni modo e forma” dei contenuti editoriali digitali: in detta ampia formulazione dell’obbligo di preventivo accordo con i titolari dei relativi diritti sarebbero così stati ricompresi anche i link pubblicati dagli utenti nei social network al fine di condividere e far circolare le informazioni, com’è d’uso sin dal loro esordio. Le conseguenze di ciò sono intuitive: la veicolazione di contenuti editoriali tramite collegamenti ipertestuali – attualmente possibile a chiunque, ovunque e nelle modalità e nei tempi che decide – ne sarebbe risultata imbrigliata. La libertà di opinione, cui l’informazione è funzionale e che ne costituisce principale supporto e irrinunciabile fonte di arricchimento, sarebbe stata danneggiata e con essa quel concetto di democrazia coscientemente esercitata che trova nella conoscenza condivisa importante fondamento. Più in generale, la norma di cui si tratta avrebbe snaturato il web, così come sin dall’inizio esso è stato concepito, vale a dire quale strumento di piena fruizione di contenuti, proprio mediante i link e salve talune condizioni, accessibile liberamente. La sottoposizione di almeno parte del suo funzionamento ad autorizzazioni avrebbe sfavorito la circolazione di notizie e dati; limitato l’interazione fra i suoi utilizzatori, che ha contribuito a sostanziare e far crescere la società dell’informazione e, al contempo, la consapevolezza della collettività circa la realtà circostante; reso autoreferenziali i contenuti pubblicati qualora, per evitare accordi o pagamenti di compensi, si fosse evitato di menzionare i collegamenti ipertestuali cui essi fossero eventualmente riferiti; in tal caso, annullato la possibilità di amplificare via web la conoscenza, avvalendosi dei link relativi a quanto creato da altri, limitando in tal modo le possibilità di espressione personale e al contempo di arricchimento della comunità virtuale. In sintesi, a essere danneggiato da tutto questo sarebbe stato quel pluralismo informativo che nel nostro ordinamento si sostanzia nella libertà di informare e di essere informati (art. 21 Cost.) e così nella possibilità dei cittadini di accedere alla più ampia varietà di fonti di conoscenza che ogni forma di autorizzazione e, quindi, di controllo individuale o di organizzazioni sulla circolazione di informazioni, avrebbe ridotto. Nel contemperamento degli interessi sotteso alla scelta di regolamentazione, le libertà suddette sarebbero state, quindi, poste in secondo piano rispetto a esigenze diverse. Ciò avrebbe reso necessario almeno conoscere preventivamente le motivazioni in forza delle quali le istanze degli editori volte a incrementare le proprie entrate venissero ritenute prevalenti rispetto a quelle della comunità web ad acquisire una conoscenza che si traduce nel beneficio della collettività in generale. Ma il legislatore, in molte circostanze, suole affermare i propri intendimenti come fossero dogmi: dunque, omette di rappresentare, con argomentazioni fondate a supporto, l’analisi costi/benefici che dovrebbe precedere l’emanazione di ogni norma, valutando l’arricchimento della società in generale, e non solo di una categoria particolare. Una realtà in continuo divenire qual è quella attuale non offre certezze, ma opportunità: il legislatore continua a cogliere solo quelle di rastrellare nuove “tasse” a favore di se stesso o di categorie individuate, in mancanza di un’analisi di impatto idonea a motivare in maniera trasparente il processo normativo che lo induce a certe scelte. Forse per questo l’AIR in Italia è così poco e male usata.

La link tax è stata al momento evitata, ma forse non in via definitiva, come si diceva. In mancanza dell’impegno a fornire un servizio di qualità, la crisi del comparto editoriale non potrà essere superata dai suoi attori mediante accordi economici volti a consentire loro di accaparrarsi la propria fetta di profitti. Qualcuno diceva “Continuiamo così, facciamoci del male!”: era una fetta di Sacher, in quel caso, ma va bene ugualmente per rappresentare come in Italia si sta operando con riguardo al digitale.

 

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

 

2 Responses

  1. Francesco_P

    Pensate ad un mondo in cui se il vostro occhio guarda un cartellone pubblicitario con un’avvenente fanciulla che reclamizza un prodotto, allora dovete pagare una somma all’agenzia pubblicitaria più le relative tasse indipendentemente dal fatto che acquistiate o meno il prodotto! Paradossale, direte, ma il paradosso aiuta a capire il mondo. Eppure queste assurdità esistono perché pagando il canone RAI si paga una tassa per poter vedere la pubblicità in TV!
    Non dobbiamo dunque meravigliarci di nulla, nemmeno delle assurdità più strampalate per giustificare posizioni di rendita.

  2. Gianfranco

    Complimenti, Vitalba Azzolini, per aver reso digeribile il concetto.

    Cordiali saluti
    Gianfranco.

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