5
Gen
2014

“Continuiamo così, facciamoci del male!”: l’Italia e certe scelte sul digitale (prima parte).

E’ una norma mai nata o, forse, per ora soltanto evitata. Infatti, nel Decreto Legge n. 145/2012 (c.d. Destinazione Italia), pubblicato sulla G.U. n. 300/2013, dove ci si sarebbe aspettati di trovarla stante il comunicato fornito dal Governo (v. qui), essa non compare.

Si tratta della disposizione che avrebbe introdotto la c.d. link tax (anche se non si tratta di una tassa in senso vero e proprio, bensì di un onere comunque imposto per l’utilizzo di collegamenti ipertestuali che rimandano a “opere dell’ingegno”), in forza della quale la riproduzione, la comunicazione al pubblico e comunque l’utilizzazione, anche parziali, in ogni modo o forma, compresa l’indicizzazione o aggregazione di qualsiasi genere di notizie attraverso siti internet e/o motori di ricerca veniva subordinata all’autorizzazione dei relativi titolari dei diritti. “Per contrastare la crisi del comparto editoriale” era stato stabilito che gli usi suddetti dei prodotti dell’attività giornalistica dovessero essere preceduti da un accordo anche di tipo economico tra le parti e che, in mancanza, l’AGCom avrebbe determinato le condizioni per potersi avvalere dei prodotti menzionati, ciò su istanza della parte interessata (qui viene riportato il testo della norma in discorso). Forse le polemiche che hanno accompagnato l’emanazione della c.d. web tax  (la cui entrata in vigore è stata sospesa al fine di verificarne la compatibilità con la normativa europea) hanno evitato che venisse inferto un ulteriore danno al settore. Ultimamente, infatti, su web e digitale aveva già inciso l’emanazione del regolamento AGCom in tema di copyright on line (qui criticato); la previsione di incentivi (peraltro irrilevanti, dato l’ammontare massimo stanziato al riguardo dal Governo, come qui dimostrato) concessi per l’acquisto di libri cartacei, ma non di e-book; la normativa in materia di equo compenso alla SIAE (come qui si vede). Peraltro, sullo sfondo a tutto ciò restano i gravi ritardi accumulati – e che paiono ormai cronicizzati – nell’attuazione dell’Agenda Digitale, qui sintetizzati. E’ una sorta di “odi et amo” – o di schizofrenia, se si preferisce – l’atteggiamento del legilsatore nei riguardi del digitale. Se da un lato ne riconosce l’importanza e il valore, dall’altro non sembra adoperarsi per favorirlo: come qui si rileva, in Italia l’economia digitale pesa solo l’1,7% del Pil rispetto al 3,9% della media dell’Unione europea; recuperare già solo 30 minuti di tempo al giorno, attualmente spesi per pratiche burocratiche, avrebbe vantaggi per il Paese fino a 40 miliardi di euro; l’aumento dell’efficienza del sistema dei servizi e della digitalizzazione potrebbe generare un incremento del 2% della produttività. Evidentemente, la modernizzazione e la crescita del Paese e, con essa, l’occupazione e l’innovazione, non costituiscono interessi primari, dato che vengono definiti essenziali in sedi ufficiali, ma di fatto non perseguiti in modo efficace (qui l’ennesima dimostrazione).

Con riguardo ai citati provvedimenti da ultimo varati – nonché alla link tax per il momento evitata e di cui si tratterà in prosieguo – ci si chiede “cui prodest”, vale a dire a chi le relative normative  siano volte a recare benefici e, dunque, quali siano gli interessi tutelati. La risposta non è immediata né definitiva, considerato che, al di là degli intenti espressamente dichiarati, i dubbi sono molti. Al riguardo, un policy maker realmente trasparente avrebbe fornito le risultanze di un importante strumento, l’analisi di impatto (di cui qui si è scritto), utile a conferire pubblica evidenza al processo di regolamentazione svolto e, al contempo, accountability al legislatore stesso. A mezzo dell’analisi suddetta quest’ultimo, sulla base di informazioni circa il contesto e le relative istanze, ottenute anche a mezzo di pubbliche consultazioni, avrebbe reso chiari gli obiettivi perseguiti, le modalità operative, i criteri adottati nelle scelte compiute a seguito della ponderazione delle esigenze dei soggetti coinvolti. Come conseguenza, nell’ambito di una serie di opzioni di regolazione, ma anche di non-regolazione (c.d. opzione zero), l’AIR gli avrebbe consentito di restringere il numero di quelle rilevanti fino ad arrivare alla scelta ritenuta migliore. La valutazione preventiva degli effetti che la scelta normativa potrà produrre è, infatti, volta a scongiurare l’emanazione di disposizioni di scarsa utilità in quanto inidonee a recare valore aggiunto, ovvero i cui pesi stimati sopravanzino i vantaggi attesi, quindi già solo potenzialmente dannose: ciò anche nell’ottica di una sempre necessaria semplificazione normativa, connessa alla misurazione degli oneri amministrativi (cui l’Italia si è, peraltro, obbligata per il periodo 2012-1015 con il d.l. n. 5/2012, c.d. decreto semplificazioni). Il fine dell’AIR è la trasparenza, che prima di tutto è “metodo” come qui si è scritto: tuttavia, con particolare riferimento alla web tax il legislatore nazionale è parso seguire un metodo diverso. Essa, più che sulla stima dei costi e dei benefici che comporta, pare fondata sull’assunto che in tempo di crisi taluni interessi necessitino di essere soddisfatti in termini assoluti, anziché valutati comparativamente rispetto ad altri: tra i primi, l’esigenza di “far cassa”, indotta dallo stato di emergenza che porta a ritenere implicitamente giustificata ogni deroga allo stato di diritto. Così si reputa superflua quella verifica dell’incidenza delle emanande leggi che, prima ancora che imposta dall’ordinamento, è principio di buon senso ed espressione di ordinaria diligenza in qualunque attività amministrativa o regolamentare che comunque coinvolga risorse e interessi collettivi. Nel caso di specie, il Governo ha inteso introdurre una norma destinata ad avere una forte rilevanza su internet e digitale, ambito in continua evoluzione, senza effettuare preventive audizioni volte a conoscere critiche, osservazioni e spunti di coloro i quali operano in esso; altresì, senza aver portato a conoscenza degli interessati le proprie valutazioni circa le conseguenze più importanti che la nuova tassa avrebbe comportato per l’intero settore e i suoi attori. Per il testo di legge attraverso cui la web tax veniva introdotta non è stata fatta l’AIR prevista, come qui rilevato espressamente. Tuttavia, proprio quella tecnologia che il Governo non pare tenere molto in conto ha permesso di supplire alla rilevata carenza: sì che l’analisi di impatto non svolta dal legislatore è stata in qualche modo effettuata, e soprattutto sul web divulgata, da parte di coloro che ne hanno trattato (qui, qui e qui commenti autorevoli, qui, qui, qui e qui altri contributi). Essa ha così consentito a ogni interessato di giudicare la portata del provvedimento e gli effetti che esso è destinato a produrre attraverso dati comprovabili e fondati. Per le osservazioni più specifiche, si rimanda agli scritti di cui ai link riportati: in sintesi, la norma in forza della quale le aziende straniere che vendono pubblicità online nei nostri confini sarebbero obbligate a dotarsi di una partita IVA italiana di certo non è tale da giovare all’attrattività del mercato nazionale per gli investitori né al processo di globalizzazione in atto, oltre a presentare profili di violazione della normativa comunitaria. Al di là di un dichiarato principio di equità fiscale, teoricamente volto a favorire una situazione di parità di trattamento e condizioni idonee a un’effettiva competizione tra gli operatori del settore italiani e stranieri, la web tax in ultima istanza imporrebbe a questi ultimi quegli oneri burocratici che nel nostro Paese appesantiscono ogni processo, precludendo a esso progresso e innovazione e svantaggiandolo nella concorrenza con Paesi diversi, sotto il profilo tributario tra gli altri. E’ di immediata intuizione la circostanza che la questione verrebbe risolta dai soggetti esteri interessati in via elusiva ovvero evitando l’Italia quale controparte nelle transazioni in discorso: sì che la tassa sul web finirebbe non solo per non recare valore aggiunto alle casse dello Stato, ma addirittura per produrre danno al sistema nazionale, al quale il legislatore riteneva potesse apportare giovamento. Non resta che sperare che la valutazione della compatibilità con la normativa UE possa consentire di giungere a conclusioni diverse rispetto a quelle che hanno condotto alla predisposizione della norma; nonché augurarsi che, qualora entri in vigore, almeno la VIR (verifica d’impatto della regolamentazione), anch’essa prevista dalla legge, venga effettuata. Stante l’obiettivo che con l’introduzione della citata tassa il Governo si era proposto, l’indicatore dell’efficacia della nuova normativa sarebbe l’aumento delle entrate fiscali, dunque un dato misurabile oggettivamente. Tuttavia, anche un ipotetico aumento di tali introiti, se attuato con modalità tali da ridurre la competizione fra imprese, finirebbe per tradursi in un danno per gli utilizzatori finali del servizio e, quindi, in un risultato negativo, comunque. L’AIR, valutando preventivamente e a tutto tondo le conseguenze di un provvedimento, se ben svolta, l’avrebbe probabilmente evidenziato.

 

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

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