5
Feb
2010

E ora, SNAM

L’Eni vince o perde? La bozza di accordo raggiunta tra il gruppo di San Donato e la Commissione europea ha tutto l’aspetto di un compromesso doroteo. Formalmente, l’Eni dovrà sbarazzarsi della proprietà sui gasdotti Tenp, Transitgas e Tag (i primi due portano il gas dal Nordeuropa in Italia attraverso Germania e Svizzera, il terzo fa affluire gas russo via Austria). Di fatto, almeno nell’immediato cambierà poco: il Cane a sei zampe mantiene i diritti di transito, e il Tag – il tubo più delicato, per ragioni economiche e geopolitiche – non sarà ceduto al mercato ma a un interlocutore amico (probabilmnete la Cassa depositi e prestiti, o forse un ente pubblico italiano costituito ad hoc). A conti fatti, se non è zuppa è pan bagnato: ma a volte un sassolino nel breve termine può scatenare una frana nel lungo.

La partita si gioca contemporaneamente su molti tavoli. Uno è quello di Bruxelles. La Commissione ha scommesso molto sull’accusa di comportamenti anticompetitivi rivolta all’Eni. Con questa apparente vittoria, Neelie Kroes – commissario uscente alla Concorrenza – lascia la scena in modo trionfale. Però, per così dire, in questi casi far incazzare la vittima del procedimento può non essere sufficiente, ma è di norma necessario: perché, allora, l’Eni non sembra particolarmente sconvolta?
Una premessa. L’obbligo di vendita dei gasdotti internazionali mi lascia perplesso, visto che la questione è sicuramente più controversa rispetto a quanto accade per la rete nazionale. Ma l’orientamento sembra quello, e quindi è importante capire da cosa nasce e dove può portare.
Anzitutto, dunque, l’Eni non è sconvolta perché nel breve termine non cambierà nulla, sotto il profilo strategico: mantenere i diritti di transito significa tenere in mano il boccino, e mantenere segrete le informazioni più sensibili. Per di più, il Tag (che nella prospettiva Eni riveste un ruolo chiave) passerà in mano a un azionista amico, che esso sia la Cdp (la cui disponibilità è stata confermata dal presidente, Franco Bassanini) o un altro soggetto pubblico italiano. Infatti, il nuovo acquirente avrà lo stesso azionista di riferimento dell’Eni – il Tesoro – ed è quindi prevedibile che i due “si parlino”.
Secondo: il capo dell’Eni, Paolo Scaroni, è pressato dal mercato. I 20 miliardi di debito non pregiudicano la stabilità del gruppo, ma sono una rogna. Tant’è che l’anno scorso la compagnia ha dovuto (voluto?) tagliare il dividendo: una mossa simbolica, del valore di 500 milioni di euro all’anno, ma indicativa del clima che si è formato; e anche un messaggio chiaro al Tesoro: con la congiuntura attuale, dal limone non si può spremere più di così. Tutto ciò all’indomani della Robin Tax e della tassa sulla Libia. C’è, poi, la proposta di breakup continuamente reiterata, anche a mezzo stampa, dal fondo Knight-Vinke, che detiene direttamente l’1 per cento del gruppo e rappresenta un altro 1 per cento (ma forse parla a nome di una fetta più ampia). Knight-Vinke insiste sulla necessità di superare gli attuali vincoli finanziari. Incassare 1,5 miliardi dalla cessione dei gasdotti non cambierebbe la vita di Scaroni, ma gli toglierebbe qualche castagna dal fuoco. Sebbene, paradossalmente, renderebbe meno visionario il riassetto voluto dal fondo americano.
Terzo: per Eni, l’esuberanza del Cav sta cominciando a diventare davvero molesta, per Scaroni. Le durissime dichiarazioni del premier e del ministro degli Esteri, Franco Frattini, contro l’Iran possono mettere in moto reazioni non gradite nel paese islamico. E questo, a sua volta, può ripercuotersi su una serie di terreni molto delicati, dove il gruppo si trova (Uganda) o potrebbe trovarsi (Libia) in serie difficoltà. Senza contare che un’Eni distratta da questioni più urgenti sarebbe fatalmente meno focalizzata nella partita a scacchi con Gazprom per la rinegoziazione dei contratti take or pay. La sensazione che deve serpeggiare nel quartier generale dell’Eni è forse che si sia rotto il tacito patto per cui l’Eni si presta alla politica industriale del governo (limitando i licenziamenti, mantenendo troppo a lungo unità produttive moribonde come la chimica, regalando i soldi degli azionisti per la social card, eccetera), e in cambio il governo accetta di seguire, in politica estera, il sentiero tracciato da Piazzale Mattei (ragione, tra l’altro, di un costante e apertamente dichiarato senso di fastidio da parte degli Stati Uniti). Trasmettere la sensazione di accerchiamento, di trovarsi sotto schiaffo da parte dei barbari di Bruxelles, anche se non necessariamente è così, può essere strumentale a ottenere un ammorbidimento delle intemperanze berlusconiane. In questo caso, buona fortuna.
Detto ciò, vale la pena evidenziare che non tutto il male vien per nuocere. A dispetto del controllo di fatto che l’azienda continuerà a esercitare sui gasdotti, la presa si allenta e rende ancora più anacronistica la struttura del gruppo. Ancora meno credibili sono pure le resistenze che oppone alla separazione proprietaria della rete di trasporto nazionale e degli stoccaggi. La linea del Piave scaroniana, secondo cui l’integrazione verticale è fonte di un irrinunciabile vantaggio competitivo quando si tratta coi russi, viene gravemente compromessa (senza contare che l’analisi finanziaria di Knight-Vinke solleva ulteriori e fondati dubbi su questo aspetto). Infatti, se il controllo diretto – e soprattutto la percezione di tale controllo – viene meno, si indebolisce anche l’argomento della sua necessità come strumento negoziale. Tant’è che il presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis, non ha perso l’occasione per rilanciare la richiesta, che fin dall’inizio ha caratterizzato il suo mandato, di sottrarre la Snam all’Eni.
Nota a margine: il mandato di Ortis e dell’unico commissario dell’Aeeg, Tullio Fanelli, scade a dicembre (con sollievo di tanti, nel governo). Sarà interessante vedere su quali nomi maggioranza e opposizione troveranno il consenso necessario. Sarà interessante, in particolare, vedere se queste persone – a partire dal futuro presidente – manterranno le posizioni tradizionali dell’Autorità oppure se il monopolista saprà essere sufficientemente persuasivo, nei confronti di esecutivo e parlamento, da ottenere una rosa di nomi meno ostili. Sarà anche interessante, infine, vedere in che modo Piazzale Mattei tenterà di raggiungere questo obiettivo. Per esempio, chissà come raccorderà il bilancio (quasi sicuramente in ulteriore flessione) col dividendo (quando Tremonti tornerà a batter cassa, che per lui anche gli spiccioli contano).
Resta il fatto che Scaroni deve oggi giocare con estrema attenzione le sue carte. Ha due strade davanti. Una è quella di insistere a muoversi principalmente sul piano politico: poiché le azioni si pesano, oltre che contarle, l’asse con Via XX Settembre non può essere pregiudicato, e dunque è essenziale costruire un rapporto orientato alla protezione della rendita monopolistica. In questo caso, ci si può aspettare una libera interpretazione del patto con Bruxelles (sempre che il market test abbia un esito positivo: incognita non da poco) e la blindatura di Snam.
Oppure, poiché le azioni si contano, oltre che pesarle, Scaroni può decidere, con una mossa a sorpresa, di parlare alla maggioranza silenziosa dei suoi azionisti. Quel 70 per cento di risparmiatori e investitori istituzionali è sicuramente più rappresentato dal chiassoso Knight, che non dal taciturno Tremonti. Dunque, Scaroni potrebbe fare delle concessioni, e far leva sulla sanzione comunitaria per disfarsi anche dell’infrastruttura nazionale (e con essa di buona parte del debito che grava su Piazzale Mattei). In questo modo, si comprerebbe una libertà di azione tale da poter chiudere in modo teatrale e imprevisto la sua esperienza all’Eni. E, con questo biglietto da visita, cercare fortuna a Trieste.

You may also like

Repetita iuvant: vendere quote del tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti non significa privatizzare.
Il “giusto prezzo” dell’energia—di Stephen Littlechild
Perché si dicono tante sciocchezze nel dibattito energetico in Italia?
Il grande gombloddo fossile: 1.402 miliardi di sussidi!

3 Responses

  1. Il gruppetto di infrastrutture nazionali credo che Eni sarebbe sotto sotto felice di cederle o perlomeno non gli cambierebbe chissà che allentare la morsa su Snam. Lo si è capito al momento della cessione di Stogit e Italgas.
    Il core business rimane l’E&P e lo sanno tutti che le infrastrutture interne rappresentano solo un fatto affettivo per l’azienda.Io non vedo altre ragioni. Dicono che serva ad alleggerire il debito sul consolidato.Mah!
    Il destino è mollare la rete. Si aspetta solo quando. Ma cambierà poco.

    Esempio. Non credi che gli scocci dover investire in stoccaggi e sottostare alle richieste di mezza italia su aumentarli? Credo che sarebbero contenti che sia il MERCATO a investire più che loro.

    Il Tag è strategicamente importante e loro lo sanno. Per quello ora non fanno granchè casino e la Cassa tutto sommato gli piace.

    A parte la voce di Colitti, tutto sommato apprezzabile, Governo, Eni, Sapelli, Urban ecc sono sterili. tutta sta difesa dell’unicità di ENi rispetto alle altre IOC io non la capisco.
    Exxon ha mollato le raffinerie da loro e nessuno ha gridato allo scandalo.
    Dalla Uk quei furbi di Bp si danno alle rinnovabili, creano società in mezzo mondo dedite al solare e addirittura non si ricordano + come si chiamano, ma alla peggio cambiano il Ceo.
    Non mi pare facciano tanto baccano.

Leave a Reply