10
Ago
2010

Bankitalia avverte Usa e Ue: serve meno deficit

Mentre il day by day conferma la decelerazione della crescita americana – il dato di oggi sulla diminuita produttività si aggiunge alle delusioni sull’occupazione – e la Cina ha segnato un allentamento della crescita delle importazioni dai Paesi avanzati e una ripresa dell’export al più 38% su base annua, tornando ad alimentare i timori su una ripresa troppo accentuata sulla sola costa asiatica del Pacifico, quanto possiamo stare sicuri che non si riproponga il problema dei debiti sovrani? La risposta che viene da due giovani e brillanti economisti della Banca d’Italia è di quelle che fanno riflettere. No, non possiamo essere affatto certi che la grana dei debiti sovrani sia alle nostre spalle. Al contrario, l’instabilità finanziaria complessiva resta il segno dominante nel medio periodo, e non c’è bisogno di un vero e proprio default di uno Stato per accenderne la miccia. A scriverlo in una recente ricerca sono Fabio Panetta, capo del Dipartimento addetto alle previsioni economiche e monetarie di Bankitalia, e il suo vice Giuseppe Grande. Si tratta di un aggiornamento del filone che si ispira alla ricerche di Carmen Reinhart, ex capo della ricerca del FMI dopo un passato in Bear Stearns e oggi all’Università del Maryland, e Kenneth Rogoff, oggi ad Harvard alla prestigiosa cattedra Thomas Cabot dopo un passato a Princeton. I due economisti hanno rielaborato le serie storiche dei default sovrani addirittura degli ultimi 800 anni, per focalizzarsi poi sugli ultimi 200. Ma la tesi dei due economisti di Bankitalia è che nelle attuali condizioni serva molto meno di un rischio-nazione alla greca, per gettare lunghe ombre sui mercati.

Secondo le proiezioni più recenti del Fondo monetario, il debito pubblico continuerùà a crescere in maniera molto significativa. Misure di contenimento del deficit sono state varate solo da alcuni Paesi europei e dal Regno Unito. Ma il debito pubblico americano al ritmo attuale supererà il 100% del GDP USA prima del 2015. Quello dell’euroarea sarà allora al 95%. E sopra il 90% sarà anche quello del Regno Unito, pur inglobando le energiche misure correttive intanto annunciate dal governo Cameron-Clegg.

In tali condizioni, il rischio è che la sfiducia dei mercati non si limiti più a un novero ristretto di Paesi come è avvenuto nella crisi europea, concentrata su Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda. Ma che si estenda ai Paesi maggiori: con l’eccezione probabile della Germania. La conseguenza? Un aumento dell’inflazione attesa o della svalutazione delle monete, con ripercussioni inevitabili sui tassi d’interesse. Il consenso degli osservatori è che i bassi tassi d’interesse – che la Fed ha appena confermato necessari nel medio periodo, visto che anzi deve estendere le manovra eterodosse di quantitative easing per sorreggere debito pubblico, debito corporate e corsi azionari – sarebbero messi a rischio da tale scenario. Le serie storiche mostrano che a ogni stabile aumento di 100 punti base pagati al collocamento dal debito pubblico USA quando è in forte aumento tendenziale, corrisponda un aumento dei tassi a lungo termine sul dollaro tra i 300 e i 500 punti base addirittura. L’effetto sui tassi e valute europee è del tutto analogo, anche se in questo caso le serie storiche sono più recenti e dunque meno attendibili.

Tutto ciò potrebbe portare, se le autorità monetarie dovessero persistere in un atteggiamento lasco invece di ritoccare i tassi verso l’alto, a un circolo vizioso tra l’aumento del costo e del livello del debito pubblico, e la pressione aggiuntiva che ciò determinerebbe sul costo dell’ulteriore deficit in formazione: la relazione tra deficit pubblici e yields di mercato diventerebbe non lineare. A ciò si aggiungerebbe inevitabilmente l’effetto di crowding out, cioè di spiazzamento che i titoli sovrani eserciterebbero sull’enorme ammontare di obbligazioni private – di istituzioni finanziarie e imprese – che nello stesso orizzonte temporale attende di essere rinnovato a scadenza. Le grandezze in gioco sono molto rilevanti. Nell’euroarea nel 2011 scadono circa 700 miliardi di corporate bonds di cui i sei settimi non sono di banche, negli USA 610 miliardi di cui un terzo bancari. Nel 2012, l’ammontare sale a 750 miliardi nell’euroarea, e a 635 miliardi negli USA. Solo nel 2013 la tendenza è al ribasso, con 590 miliardi in Eurolandia e 440 negli States.

A fronte di tutto questo, i mercati tendono ancora a non orientarsi. Gli yields pubblici decennali statunitensi sono di poco superiori ai 300 punti base, e di circa 350 nel caso britannico. Troppo poco, rispetto a tutto ciò che è nella pipeline. Sino a questo momento è prevalso sui mercati il volo verso il dollaro come moneta -rifugio comunque, il cosiddetto flight to quality. E contano anche i massicci acquisti di bonds pubblici disposti dalle banche centrali e da molte grandi banche private che danno loro una mano. Ma ci sono alcune conseguenze negative.

Le banche si troveranno ad essere sempre più esposte a un rischio di deterioramento dei titoli pubblici che detengono in portafoglio. Negli USA, per le cinque maggiori banche a fine giugno i titoli pubblici erano pari all’8% del loro total assets e al 94% del loro equity. I titoli pubblci servono inoltre come collaterali in moltissime operazioni repos e di finanziamento delle banche centrali, e il deterioramento dei bonds sovrani impatterebbe queste operazioni fondamentali per la liquidità dei mercari. Ciò comporterebbe nuove tensioni sul costo medio del funding a lungo e poi a breve delle banche stesse. Oltre alla crisi di molte aziende private che non potrebbero rinnovare la loro raccolta obbligazionaria.

Conclusione. Anche l’America deve capire che la via al taglio del deficit è necessaria, e l’Europa deve batterla con ancor più decisione di quanto abbia fatto finora sotto l’impulso tedesco. Non proprio ciò che i politici amano sentirsi dire.

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1 Response

  1. laura bendel

    non avendo molto tempo a disposizione, devo essere selettiva nelle mie letture e reputo che gli articoli di oscar giannino siano tra i più chiari per me che sono un ignoremus ed anche che aprano gli occhi sulle relatà che ci vengono nascoste per disinformazione.
    grazie e complimenti
    laura bendel

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