27
Ott
2015

Arriva Netflix a Sanremo—di Nicola Saporiti

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Nicola Saporiti.

Dal 22 Ottobre il colosso americano dei media “Netflix” ha iniziato ad offrire i propri servizi anche in Italia. È una notizia che mi incuriosisce molto, e non in quanto potenziale futuro utente: non sento infatti particolare necessità di vedere film “on demand” in streaming via internet, servizio per altro da tempo offerto in Italia da altre società. Dal punto di vista di genitore, la proiezione solo ad una certa ora della puntata quotidiana del cartone animato preferito di mio figlio mi regala una comoda scusa per spegnere il televisore e dirottarlo verso altre attività.

Sono invece molto curioso di scoprire come Netflix si adatterà ad operare nel mercato Italiano. Questa società è infatti nota per avere una cultura aziendale estremamente innovativa, copiata da molti nella Silicon Valley, che però è quanto di più stridente si possa immaginare con lo stereotipo italianissimo del “posto fisso” di lavoro.

NETFLIX nasce alla fine degli anni ‘90 nel classico garage californiano come servizio di noleggio videocassette con modalità innovativa: per competere con le diffusissime catene di negozi di videonoleggio, NETFLIX offre un servizio in abbonamento postale ad un costo fisso mensile. In pratica, con NETFLIX gli utenti possono per la prima volta ricevere quotidianamente, comodamente a casa, una nuova videocassetta di loro scelta, da restituire in buste pre-affrancate.

Nel 2001, per sopravvivere alla crisi economica, NETFLIX si vede costretta a licenziare tutti i dipendenti non strettamente essenziali. Dopo avere ridotto il personale di oltre un terzo, le 80 persone rimaste si rendono conto di poter operare ugualmente ed anche di poter lavorare meglio, con maggiore libertà e soddisfazione. Nasce così una cultura aziendale fondata sui principi di (estrema) “libertà e responsabilità”, immortalata in una famosa presentazione powerpoint che in seguito è stata pubblicata su internet trovando immediata diffusione.

Per molti aspetti, le condizioni di lavoro offerte da NETFLIX incarnano perfettamente il sogno di ogni italiano: ferie illimitate per ogni dipendente, totale flessibilità sugli orari di lavoro, nessun controllo su assenze per malattia, stipendi periodicamente aggiornati ai livelli massimi osservati nel mercato, procedimenti e burocrazia interni minimi.

Il rovescio della medaglia è riassunto in una metafora contenuta nella famosa presentazione: “non siamo una famiglia, siamo una squadra di sportivi professionisti”. L’azienda esige da ogni dipendente risultati ai massimi livelli. Non offre nè un percorso formale di carriera, nè alcuna sicurezza di rapporto lavorativo di lungo corso, ignorando per esplicita politica aziendale fattori come l’impegno profuso nel lavoro, il corretto rispetto delle procedure, l’anzianità di servizio ed anche la fedeltà dimostrata all’azienda. Prestazioni soddisfacenti, ma non eccezionali non sono sufficienti ad assicurare una collaborazione continuativa.

NETFLIX rinasce quindi come azienda disegnata per adattarsi al cambiamento e promuovere l’innovazione: per ben due volte in meno di venti anni riesce a trasformare completamente il proprio prodotto, rivoluzionando la modalità di fruizione dei prodotti di intrattenimento televisivi in 35 milioni di case americane e giungendo oggi ad una capitalizzazione di circa 40 miliardi di dollari. Per prima sviluppa la tecnologia ed offre film in streaming su internet. Per prima adotta le tecnologie cloud. Per prima produce direttamente serie televisive per competere con i canali televisivi tradizionali e rispondere alla minaccia della nascente presenza online delle grandi case di produzione cinematografiche.

Un esempio apparentemente draconiano della cultura di libertà e responsabilità propria di NETFLIX è il cosiddetto “keeper test”: periodicamente l’azienda si chiede, per ciascun impiegato o manager: “se dichiarasse di volersi dimettere passando ad un concorrente, vi preoccupereste di trattenerlo?” In caso di risposta negativa, l’azienda conclude il contratto di lavoro con quella persona (pagando una generosa liquidazione). In caso affermativo lo stipendio del dipendente viene spontaneamente aumentato al livello massimo teoricamente necessario per trattenerla in azienda.

Il “keeper test” viene applicato senza eccezioni: quando, a causa della prorompente crescita dell’utenza via internet, NETFLIX decise di affidarsi completamente ai servizi cloud di Amazon (l’eccessivo consumo di banda rischiò di far collassare la rete internet) il geniale team di ingegneri che aveva inventato lo streaming di video è stato invitato a trovare nuove opportunità (“move on”). La stessa Patty McCord, responsabile delle risorse umane di NETFLIX sin dal 1998 e co-autore della politica di libertà e responsabilità, nel 2012 ha dovuto lasciare l’azienda. Le sue competenze erano specializzate nell’assunzione ed addestramento di personale per imbustare, spedire ed archiviare quotidianamente milioni di DVD in decine di mega-magazzini sparsi in tutti gli Stati Uniti. Quando Netflix è diventato uno dei principali produttori di serie televisive, il suo lavoro ha iniziato a richiedere competenze nella gestione di rapporti di lavoro con attori, registi e tecnici cinematografici, che lei non possedeva e nelle quali – forse – non avrebbe parimenti eccelso.

Da qui dunque la mia curiosità per l’arrivo del “keeper test” di NETFLIX nel paese dei contratti di lavoro nazionali, della cassa integrazione, e dove l’arretratezza del modello di protezione sociale alimenta più che in altri paesi il sogno di “sistemarsi” con un “posto fisso”.
Qualora NETFLIX non avesse già scelto dove aprire la propria sede nel nostro paese, mi permetterei di suggerire la città di Sanremo, dove troverà competenze nel campo dell’intrattenimento di assoluta eccellenza, prodotto di 65 anni di Festival della Canzone Italiana. In cambio potrà forse offrire condizioni di lavoro più consone alle esigenze dei 195 dipendenti del comune (su 271 controllati) accusati dalla Guardia di Finanza di timbrare il cartellino e poi andare a fare canottaggio.

A chi avesse curiosità di approfondire l’argomento suggerisco di scaricare le 126 pagine della presentazione originale “Netflix Culture: Freedom & Responsibility”, oppure di ascoltare il podcast della trasmissione radio Planet Money del titolo illuminante: “Hard work is irrelevant”.

2 Responses

  1. FR Roberto

    Netflix rappresenta un caso di studio di sicuro interesse.
    Nel concreto bisogna capire cosa sono i “risultati ai massimi livelli”.
    Se per raggiungere tali risultati una persona con un’intelligenza e con una preparazione sopra la media deve lavorare duramente per 15 ore al giorno, siamo di fronte a sfruttamento.
    Se il lavoratore ha la possibilità di scegliere e accettare liberamente queste condizioni, in cambio di una retribuzione adeguata, non vedo nessun problema.
    Trovo concettualmente errato il “keeper test”, perchè in un’azienda organizzata come si deve, tutti devono essere utili, ma nessuno indispensabile, e quindi in base ad esso tutti dovrebbero essere licenziabili senza rimpianti.

  2. Anonimo

    MC Laura, 27 Ottobre 2015
    Io credo che il “Keeper test”, tradotto in una realtà italiana, possa assumere una variazione sfumata ossia quella di un semplice “test di valutazione”. Sappiamo bene che ,nel pubblico e nel privato, sia raro trovare una vera e sistematica valutazione meritocratica finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo (puro e crudo, oggettivo). Questo, pertanto, creerebbe già un acceleratore di sviluppo, motivazione e crescita.
    Ma il sistema Netflix è altro. Esso tende piuttosto ad aggregare solo eccellenze per una specifica competenza, quasi con un concetto free-lance, tenute insieme solo dal momento “x”, del keeper test. Per il resto ognuno è libero di organizzare il proprio tempo, luogo e modo di lavorare. Forse, con questa formula, si riuscirebbe anche in Italia ad importare quel modello lavorativo. Fa riflettere, indubbiamente.

Leave a Reply