27
Ago
2010

Una fenice viennese? – 2

“Vienna vs Knight” Frank Knight, economista di Chicago noto soprattutto per il libro “Risk, uncertainty and profits”, riteneva che la produzione capitalistica fosse istantanea e il capitale uno stock omogeneo; per gli austriaci, al contrario, la produzione richiedeva tempo e il capitale aveva una struttura complessa ed eterogenea. Credo che Knight argomentasse che in regime stazionario ricavi e costi sono uguali e si riproducono nel tempo in sincronia, e intendesse il capitale come grandezza contabile, quindi omogenea nel senso di misurabile in moneta. La questione da discutere allora, e lo è ancora oggi, era: la struttura del capitale e il tempo di produzione sono fenomeni macroeconomicamente rilevanti, o possono essere trascurati?

Forzando un po’, probabilmente si può dire che Knight è il simbolo dell’abitudine di considerare la produzione come una funzione di un aggregato omogeneo chiamato capitale e di un’altra grandezza, altrettanto omogenea, chiamata lavoro. Esistono però dei lavori contemporanei dove alla produzione si dà un minimo di struttura, come il modello “time-to-build” di Kydland e Prescott, o il modello “putty-clay” di Calvo, e credo i modelli di sectoral shocks, che non conosco, o i modelli di capitale irreversibile come quello di Bernanke (nessuna di queste citazioni è nuova: sono degli anni ’80).

L’evidenza che qualche regolarità nelle modifiche della struttura produttiva esiste è abbastanza forte, ma gli austriaci hanno prodotto pochissimi risultati “empirici” in grado di convincere gli altri della rilevanza di ragionare in termini di struttura produttiva anziché stock di capitale, e di pensare alla produzione come un processo nel tempo anziché un flusso continuo. Se non c’è prova di rilevanza, si ha il problema del rasoio di Occam: perché complicarsi la vita se la cosa non ha conseguenze?

La questione non è – come la pongono oggi molti austriaci – cosa è più realistico assumere: ovviamente su questo vincono gli austriaci. La questione è se il maggior realismo vale la candela: ci sono effetti rilevanti che si possono teorizzare analizzando queste questioni? O si può fare di tutto il capitale un fascio? Qui gli austriaci hanno quindi un lavoro da fare: trovare evidenza empirica, e giustificare teoricamente in maniera più convincente la rilevanza – e non il maggiore realismo, che è fuori discussione – di queste questioni.

In condizioni di crisi come l’attuale, la nozione di struttura diventa probabilmente fondamentale. Un quarto dei posti di lavoro persi negli USA viene dal settore delle costruzioni: questi lavoratori non sono immediatamente riallocabili in altri settori, e dunque sono capacità produttiva più o meno temporaneamente submarginale. Questo non si vede se si considera il lavoro un blob omogeneo: qui l’eterogeneità e la struttura diventano rilevanti.

E che dire dei problemi bancari e finanziari? Qui abbiamo struttura a gogò: non abbiamo solo un capitale delle banche (in quanto intermediari), prestiti alle imprese (attività delle banche) e depositi a vista (passività delle banche). Abbiamo capitale e leva finanziaria, maturity mismatch e vari gradi di rischiosità, abbiamo rischi di mercato e rischi da comportamento opportunistico. E di certo ogni modifica dello stato del sistema richiede tempo. Abbiamo, quindi, struttura, eterogeneità, e processi nel tempo: diamine, è proprio come la teoria austriaca!

E poi c’è la struttura produttiva. Il prezzo del petrolio sale, perché non aumenta l’offerta? Perché serve tempo per fare gli opportuni investimenti! E perché è capitale fisso, durevole, e specifico, e quindi se poi il prezzo scende si avranno perdite! Ma cos’è questo? Sono temi storici degli austriaci! Ricordiamo che Mises analizzò le conseguenze dell’inconvertibilità del capitale settanta anni prima del paper di Bernanke (1983, ma non è il paper famoso sulla Grande Depressione).

La nozione più importante legata alla teoria della struttura produttiva, per gli austriaci, è quella di insostenibilità strutturale. Gli austriaci non si esprimono così, parlano di malinvestment e necessità della recessione, ma è ciò che intendono: le economie possono trovarsi in uno stato dove devono entrare in crisi per eliminare determinati errori. Pensate ad un eccesso di leva finanziaria: bisognerà ridurre il livello di intermediazione, generando una recessione, per consentire all’economia di stabilizzarsi. O pensate ad un eccesso di investimenti nel settore edilizio: bisognerà licenziare persone e buttar via strumenti produttivi, se si scopre che l’offerta è eccessiva. Se l’economia è in uno stato di insostenibilità strutturale, la risposta non è manipolare la domanda aggregata: la nozione di domanda aggregata, anzi, è completamente sterile, sia come guida di policy, sia come strumento concettuale per l’analisi teorica. Struttura, struttura, struttura!

Insomma, c’è del lavoro da fare, ma la probabilità che non se ne ricavi nulla è praticamente zero. La cosa importante, e che gli austriaci in genere non fanno, è parlare con gli altri economisti e confrontarsi con le loro teorie, cercando di capire dove ci sono le differenze, e come queste differenze influenzano la visione dei processi economici, e l’analisi delle politiche economiche. Dati i disastri combinati dai politici con l’avallo di molti economisti, il progresso in questo campo è una questione di importanza epocale.

3 Responses

  1. Silvano_IHC

    Un terreno fertile sarebbe anche quello dell’analisi dei fattori normativi ed istituzionali. E’ un campo in cui gli austriaci potrebbero avere anche un certo vantaggio comparato. Dico “potrebbe”, perché c’è una certa idiosincrasia cronica a prendere in considerazione proposte di tipo second-best in fatto di policy.

  2. Di questa parte degli austriaci non so nulla, tranne che vanno in parallelo con i neoistituzionalisti e la public choice, con temi diversi ma con molti punti in comune. Alla fine, come sottolineato da O’Driscoll in “Economics as a coordination problem”, tra la teoria del capitale e la teoria delle istituzioni sociali il passo è breve, almeno per un austriaco. Eterogeneità, tempo, struttura, relazioni…

  3. Mario Cancellieri

    La teoria del ciclo economico di Van Hayek è attenta alle dinamiche che si generano sul lato dell’offerta : struttura del capitale, capitale e lavoro, risparmio e preferenze temporali dei soggetti economici, la capacità produttiva aggregata vista sostanzialmente come funzione del risparmio, è un ‘analisi serrata e complessa che riposa tutta sulla struttura del capitale dove l’analisi macroeconomica finisce per diventare analisi microeconomica, il risparmio considerato come vero motore del ciclo economico a detrimento della propensione marginale al consumo e della domanda aggregata visti come stimoli imprenscidibili di ogni cambiamento del ciclo.Forse analizzare interpretare le crisi economiche dei nostri giorni nell’ottica della teoria del ciclo economico a suo tempo formulata dalla scuola austriaca potrebbe aprire scenari interessanti altrimenti ottenebrati da una vulgata omogenea tutta tesa a dimostrare l’importanza della domanda aggregata nella determinazione del ciclo economico a scapito del risparmio e degli invenstimenti produttivi.

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