6
Ago
2015

Rai: l’artiglio dei partiti, quando servirebbe una rivoluzione industriale

Peccato, peccato, peccato. Le nuove nomine RAI portano il segno di una scelta conservativa, effettuate a cavallo tra vecchia legge Gasparri e una riformetta che modifica solo i poteri del vecchio dg, rendendolo un ad di nomina governativa. Ma che comunque dovrà fare i conti con un cda scelto dai partiti, e una commissione parlamentare di vigilanza sempre invasiva. Renzi non ha creduto che la scadenza del contratto di servizio pubblico, nel 2016, significasse l’occasione per una duplice rivoluzione. La prima: che cosa sia e debba essere in futuro il cosiddetto servizio pubblico. La seconda: quale piano industriale debba darsi l’azienda RAI – che pubblica è e pubblica resta – noi privatizzatoti non demorderemo, ma siamo minoranza assoluta – ma che comunque potrebbe rompere l’equilibrio di stagnazione che contraddistingue l’offerta multimediale italiana, d’informazione e di intrattenimento.

Il primo punto è autoevidente. A conferma, basta paragonare l’indagine parlamentare britannica avviata un anno e mezzo fa in vista della scadenza della Royal Charter di servizio pubblico assegnata alla BBC. I partiti britannici si sono posti il problema fondamentale: che cosa sia il servizio pubblico e come evitare un’impropria commistione tra informazione di qualità, e logiche e proventi commerciali. Lo hanno fatto a fronte di una BBC che a David Cameron non piace, ma che già da anni ha la sua parte di servizio pubblico, la BBC Public Broadcasting, separata dagli altri servizi d’informazione mondiali e a tema della stessa BBC. Dove per “separata” s’intende che BBC PB non può usare proventi commerciali ma solo il canone, a differenza delle altre società di BBC che non costituiscono oggetto di servizio pubblico. Mentre i 12 trustees che governano la BBC sono presidenti di grandi banche e aziende private, direttori di grandi musei indipendenti, ex presidenti di grandi gruppi editoriali privati come quello del Financial Times, non uomini dei partiti. Sarà anche per questo, che la BBC in 8 anni ha ridotto i suoi costi del 22%.

Dalla parte opposta di un ideale rappresentazione dei diversi modelli di servizio pubblico radio televisivo, ci sono quelli dei paesi che nel tempo hanno deciso di abolire il canone: come Spagna, Olanda, Polonia. Di fatto, ai partiti e alla politica italiana, neanche questa volta è interessato un fico secco approfondire alcunché delle ragioni industriali, economiche e culturali che hanno prodotto in Europa regimi di servizio pubblico tanto diversi dal nostro. Con tanti saluti alla rottamazione e alla fame d’innovazione.

Poiché però è una pessima abitudine italiana ragionare per pregiudizi, venendo alle scelte industriali e di settore non vogliamo commettere l’errore di giudicare prima di averli visti in azione il nuovo cda, la nuova presidente Monica Maggioni e il nuovo dg di cui si resta in attesa come una sorta di “uomo del miracolo”. Senza troppe speranze, aspetteremo i fatti. Ma ciò non ci esime dal richiamare alcuni colli di bottiglia in attesa di essere risolti, e che sono la dannazione del sistema tv italiano.

Il punto non è l’equilibrio di bilancio della RAI. Sotto questo profilo, la gestione uscente Gubitosi-Tarantola ha chiuso il 2013 con un utile proforma di poco più di 5 milioni, e il 2014 addirittura sfiorando i 58 milioni. Naturalmente quest’ultima cifra è stata resa possibile solo da un’operazione straordinaria, non dal raggiunto equilibrio della gestione ordinaria: la quotazione delle torri di trasmissioni di Rai Way, realizzando così un incasso di 280 milioni e una plusvalenza netta di 228. Mentre l’anno prossimo, come tutti gli anni pari, sarà un bilancio difficile per la RAI a causa dei diritti tv dei grandi eventi sportivi, Olimpiadi ed Europei di calcio, che a proiezioni attuali di bilancio e senza scelte incisive riporterebbero la perdita verso i 150 milioni annui.

Ma ripetiamolo: il problema, per quanto importante, non è l’equilibrio di bilancio. In realtà bisogna aspettarsi che la politica giudicherà il neo super direttore generale innanzitutto dalle nomine alla guida delle testate storiche della RAI, attenta a ogni variazione del bilancino di potere tra vecchia destra e neo-vecchia sinistra. Invece, il nuovo super direttore generale dovrebbe invece stupire tutti, a cominciare dal proprio cda, ponendosi per esempio tre domande “di sistema”.

La prima: ha ancora senso considerare frequenze e satellite – le coordinate tecnologiche della triade Rai-Mediaset-Sky – come l’eterno campo di gioco in cui c’è chi incassa più pubblicità (in regresso da anni) e chi compensa col canone?

La seconda: ha davvero ancora significato che il servizio pubblico sia solo RAI, pur essendo implicitamente già fatta la scelta da parte della politica, e non sia invece interesse primario della RAI stessa estenderlo anche ad altri soggetti?

La terza: cosa può fare la RAI, per assecondare un balzo in avanti rispetto al gap digitale italiano, che finora l’ha vista in realtà prosperare ma che danneggia il paese e per l’azienda disegna un’eterna Roncisvalle di retroguardia?

E’ ovvio che per noi le tre domande avrebbero risposte obbligate. Primo: no, non ha più senso ragionare sulla vecchia tavolozza di frequenze e satellite, perché la sfida è quella degli smart device, della banda larga e del “pago per quel che vedo”: nel 2014 per la prima volta in Italia coloro che hanno visto immagini in streaming su multidevice hanno superato in percentuale coloro che restano fedeli alla vecchia tv. Secondo: sì, la RAI guadagnerebbe essa per prima un ruolo di traino civile e culturale se per prima immaginasse un servizio pubblico affidato per esempio anche a emittenti locali in pool, che restassero indipendenti ma con garanzie per rispondere ai criteri di servizio pubblico, e alle quali “offrire” supporti tecnologici da parte della Rai stessa. Non è affatto detto – se la politica non ci arriva – che la RAI non possa per prima immaginare un servizio pubblico più “tedesco”, cioè offerto anche da reti saldamente locali.

Terzo: i politici si riempiono la bocca della necessità di nuove fiction “italiane” per il mercato internazionale, ma con tutto il rispetto le sfide sono altre e innanzitutto tecnologiche. L’avvio del passaggio ai nuovi standard digitali, dal DVB-T2 all’Ultra HD, con relativa sostituzione di apparati ricettivi e decoder. I nuovi formati e linguaggi che sono necessari – nell’informazione e nell’intrattenimento – in un mondo in cui il ricevente pagante ha strumenti capaci di isolare ogni singolo dettaglio dell’immagine. La sfida tecnologica è la più importante. E’ quella battuta dai newcomers: Netflix, Discovery e via proseguendo.

L’anno scorso, abbiamo assistito a una cosa senza senso. La RAI ha quotato le sue torri per raddrizzare il bilancio a cui Renzi aveva inflitto un taglio di 150 milioni. Ma industrialmente l’operazione doveva essere del tutto diversa: mettere assieme le torri Rai, Mediaset e di Telecom Italia, con una ricaduta nazionale di efficientamento industriale e non di effimero beneficio finanziario per ciascuno dei tre sfiancati players, a fatturato calante da anni. Invece, apparentemente il governo ragiona in un modo singolare. Le grandi aziende telcos in Italia sono ansanti, e la politica le considera al guinzaglio – e talora le minaccia, come avviene per Telecom Italia – invece di usare per prima la RAI pubblica in un’ottica di accelerazione nazionale della banda larga e della strategia multi-device.

Naturalmente, speriamo di sbagliarci. Magari è la volta buona, che la RAI di questa nuova stagione ci lasci senza parole. Siamo pronti a metterci tutta la necessaria cenere sul capo e anche sulla lingua, se per buona sorte accadesse davvero. Ma dovessimo scommetterci sopra, allora no, non lo faremmo.

 

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9 Responses

  1. FR Roberto

    Osservazioni ragionevoli e condivisibili in larga parte.
    Il problema vero e ancora maggiore però è a monte di queste considerazioni. L’Italia è un paese che trascura meritocrazia e legalità, e in cui trionfano gli interessi dei vari clan, che perseguono il loro tornaconto particolare, e non quello collettivo. Se si superasse questo immenso scoglio, tutto il resto sarebbe più facile, e sarebbe meno oneroso risolvere altri problemi.

  2. Francesco_P

    Una piccola nota: se non fosse per Gasparri, saremmo ancora all’analogico perché limita i canali disponibili e, quindi, la concorrenza. Non voglio attribuire a Gasparri dei meriti che non si merita (perdonatemi il gioco di parole); voglio semplicemente mettere il dito nella piaga dell’arretratezza come scelta di vita della politica (ma anche della maggioranza dei funzionari pubblici) perché consente di rafforzare il potere del gruppo di appartenenza.
    Il presidente e il consiglio di amministrazione sono palesemente frutto di un’operazione consociativa in cui Renzi ha coinvolto il CdX e le componenti cattoliche per limitare le pretese della sinistra del suo partito e dei gruppi a sinistra del PD. Insomma, Renzi si è comportato in perfetto stile democristiano, praticando la “politica dei due forni” come ha fatto in tutto il suo mandato.
    Stante questa situazione, non credo che possiamo avere fiducia che l’attuale politica sia in grado di pensare alla separazione della infrastruttura di trasmissione (Ray Way) dalla RAI e alla privatizzazione della RAI con relativa “cacciata dei politici da uno dei più grandi templi dello spreco pubblico e del clientelismo”.
    I governi britannici ragionano in modo molto più lineare e nell’interesse dell’economia e dei cittadini per il semplice motivo che hanno avuto la Tatcher che ha letteralmente strappato il tessuto di immobilismo e di marciume le che stava affossando il Regno Unito.

  3. guido

    Purtroppo di Rai ed informazione mi intendo poco ma colgo l’occasione per fare due domande:
    Le frequenze del digitale terrestre sono state messe all’asta? Lo stato ha LEGITTIMANTE guadagnato dalla vendita delle frequenze? Posto che un servizio pubblico debba esistere, si potrebbe almeno iniziare a vendere rai2 e rai3 lasciando al mercato la fiction e le olimpiadi ( non propriamente materia di pubblico interesse )?

  4. Francesco_P

    Egregio guido, 7 agosto 2015,
    finora nessuno a risposto alle sue domande che so essere quelle di tantissime persone. Ci provo io, sebbene non sia un esperto e ben sapendo che la materia è vero e proprio “pane per azzeccagarbugli”, mi consenta l’espressione goliardica e non accademica.
    In Italia le frequenze vengono assegnate secondo una prassi che prevede come primo atto il vaglio dei requisiti da parte di una “commissione di esperti”. Dopodiché, come si legge si Wikipedia, “La concessione è infine rilasciata, nel caso delle emittenti locali, dal solo Ministro delle Comunicazioni, mentre per quelli nazionali è necessario che il Ministro senta in via preliminare il Consiglio dei ministri“. Non esiste un meccanismo di ASTA per la loro assegnazione. Va ricordato che ci sono stati alcuni problemi per l’utilizzo di alcuni canali del digitale terrestre in aree di confine per via delle interferenze con emittenti estere.
    E’ altrettanto grave è che non esista una reale distinzione fra infrastruttura di comunicazione e emittente pubblica essendo Ray Way è una partecipata della RAI. Invece, LA GESTIONE DELL’INFRASTRUTTURA DOVREBBE ESSERE SEMPRE OPERATA DA UNA TERZA PARTE in modo da non penalizzare alcun soggetto utente.
    La concorrenza e la pluralità dell’informazione sono dunque limitati nell’attuale sistema.
    In un sistema libero non esisterebbe una TV di Stato ed insisterebbe la separazione fra i soggetti emittenti e il o i soggetti responsabili per la trasmissione del segnale. Lo Stato, al più, potrebbe affittare degli spazi sulle emittenti per ragioni istituzionali.
    Sarebbe saggio pensare di vendere separatamente RAI 3, RAI, 2, i canali tematici, e infine RAI 1, ma questa saggezza cozza contro l’interesse dei partiti e dei funzionali pubblici. Per cui nessuno pensa a realizzare un quadro legislativo per rendere possibile e conveniente la privatizzazione.
    Purtroppo se il centro destra ha fatto delle pessime pseudo-riforme del settore radiotelevisivo per istituzionalizzare un sistema oligopolistico, la sinistra è stata solo capace di sostenere il sistema monopolistico pubblico occupato dai partiti. In altri termini è riuscita ad essere “peggio del peggio”.

  5. Francesco_P

    Egregio guido, 7 agosto 2015,
    Ieri sera, rispondendole, ho dimenticato. Questa incisione che raffigura la vendita delle indulgenze http://www.viaggio-in-germania.de/indulgenze1.jpg assomiglia tantissimo alla vendita delle frequenze TV, ma anche al rilascio delle concessioni edilizie, dei permessi e delle licenze, ecc.
    Nulla di nuovo sotto il sole, ma anche la riconferma di un metodo vecchio e sicuro per finanziare il potere molto in voga ancor oggi in Italia e rifiutato da molti popoli europei da 498 anni.

  6. Guido

    Grazie per le risposte. Non ho però capito la connessione tra la vendita delle indulgenze e la vendita delle frequenze. In definitiva quello che voglio dire è che lo stato farebbe meglio il suo dovere se si occupasse di infrastrutture. La vendita delle frequenze non dovrebbe essere un strumento per fare cassa sperperandone il ricavato, ma uno strumento finalizzato a gestire e migliore l’infrastruttura tecnologica; in più la qualità dei primi tre canali non è in linea con la qualità attesa da una televisione che incassa una tassa ( onerosissima per le imprese turistiche come gli hotel ) e pubblicità dai privati. Credo sia meglio vendere il carrozzone rai, ponendo però un limite al numero di canali per ogni editore (evitando agglomerati eccessivi ) e dei limiti di pubblicità e contenuti sulle fasce dedicate ai bambini…Il resto lo fa benissimo la concorrenza!

  7. Gianfranco

    Con tutto il rispetto – e che non venga scambiata per una forma imbecille di sarcasmo, la parola “rispetto” – lei commette un “errore” di fondo.
    Fraintende la gestione della RAI con la gestione di una televisione.
    Dimostri prima che che la RAI non e’ la solita roba all’italiana, e poi le sue osservazioni saranno “collocabili”.
    Poiche’ non puo’ dimostrarlo lei, cosi’ come nessuno, le sue osservazioni non hanno senso.
    La saluto
    Gianfranco.

    ps. se non sbaglio, ascoltavo distrattamente mentre portavo mio figlio al lago, radio 24 ha detto che la cosa piu’ seguita e’ una maledetta telenovela. e questo vuol dire due cose: 1. che il pubblico e’ stato annientato e chi guarda la tv ormai e’ la casalinga di Voghera nella sua versione piu’ nichilista; 2. che siccome nessuno capisce nemmeno che le telenovelas sono merda e che se e’ il programma piu’ guardato e’ solo perche’ il resto della popolazione la tv non la considera piu’, quello che ci aspetta e’ tutta una serie di produzioni di fiction brutte e ritardate perche’ cosi’, apparentemente, consigliano le statistiche. per me la RAI ha smesso di esistere da quando non trasmette piu’ il concerto di capodanno.

  8. guido

    Ciao Gianfranco, ma per un servizio veramente pubblico, non sarebbe sufficiente un canale? Intendo dire, una televisione che non guarda allo share, che trasmette una buona informazione, il concerto di capodanno, la prima della scala, le più importanti competizioni sportive non calcistiche dove sono coinvolti atleti italiani etc.. Aggiungo una vera tribuna politica che ponga i politici uno contro l’altro con domande dal pubblico e tempi di risposta limitati ( non scrivanie in mogano e assoli propagandistici ). Una televisione forse austera ma di reale servizio…Il resto LO PUÒ FARE IL MERCATO!!! Io non voglio che il mio canone ( obbligato ) contribuisca in alcun modo al compenso del super ospite di SANREMO…di cui non me ne può fregar di MENO! Saluti!

  9. Gianfranco

    Caro Guido,
    ficchiamocelo in testa: tutto e’ funzione di quanti clientes si possono collocare alle spese dello stato. Tutto quanto. Dal numero di alunni per classe, ai 120 passaggi burocratici necessari per aprire un bar, alle grandi opere, alle partecipate.
    Contro questo, il tuo buon senso niente puo’.
    Ciao.

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