9
Giu
2011

Public choice, cultura e psicologia di massa

La politica si può vedere da molti punti di vista: l’analisi economica della politica fatta dalla public choice, l’analisi delle idee e del pensiero filosofico, e l’analisi della psicologia dei movimenti politici (o più correttamente, per non commettere peccato contro l’individualismo metodologico, la psicologia dei “movimentati” politici).

Oggi è comparso un mio articolo su Libertiamo in cui dicevo che il pensiero politico contemporaneo ha perso la distinzione tra società e stato, mettendo in luce come il recupero del liberalismo passa anche attraverso una nuova (o forse antica) concettualizzazione della politica.

Sul mio appena nato blog “Mercato e Libertà” ho invece scritto un brevissimo riassunto della visione della politica che esce fuori dalla public choice, o se vogliamo, dagli scritti di Bastiat.

Per completare le premesse, aggiungo una sconsolata nota psicologica.

La public choice dimostra che gli elettori sono male informati perché non hanno incentivi ad informarsi, come spiego sul blog, e questo tra l’altro implica che gli elettori sono facilmente manipolabili, attraverso i canali di informazione, che possono finire nelle mani di gruppi ben organizzati ed informati. Secondo Bryan Caplan, dimostra anche che i pregiudizi sono pressoché inestirpabili perché i benefici di rivedere le proprie posizioni sono nulli, mentre i costi di cambiare idea (e dunque approfondire nuove questioni) sono in genere notevoli.

L’idea che mi sono fatto è che il dibattito pubblico è pressoché inutile: il suo livello è basso per i motivi ben descritti dalla public choice, la possibilità di persuadere le persone con buoni argomenti è scarsa perché i pregiudizi rimangono anche dopo che sono stati confutati e dopo che gli argomenti a favore sono stati tutti respinti, e le persone prendono posizione soprattutto per motivi di identificazione con una qualche causa o persona, senza ragionare sulla questione più di tanto.

Respinta l’ipotesi dunque che il discorso pubblico sia e anzi possa essere razionale (o almeno ragionevole), c’è da chiedersi: come si vince un dibattito? Cosa avvantaggia una delle tesi rispetto all’altra? Come si diffondono nuove idee e pregiudizi? Sappiamo che la ragione non gioca un ruolo di primo piano, ma allora cosa cosa rimane? L’emozione, il sentimentalismo, il senso di identificazione, l’immaginario? Occorre parlare al fegato, allo stomaco e al cuore delle persone anziché al loro cervello?

Per come sono abituato a pensare, ciò equivale ad abdicare alla funzione di portare ragionevolezza e rigore nel dibattito e scendere allo stesso livello dei demagoghi e dei populisti. Potrebbe questa essere l’unica strategia concepibile in un contesto in cui informazione e ragionevolezza sono soggette ad una tragedia dei beni comuni, o è lecito e forse necessario sperare che prima o poi ci si sveglierà?

Gli incentivi sono contro la ragione: parrebbe che la politica sia necessariamente oggetto di analisi superficiali e distorte, vittima di manipolazioni e mistificazioni, e parrebbe che più una società viene politicizzata, e meno la ragione sia rilevante: un ritorno all’adolescenza, la cui comprensione richiede la lettura di Eric Hoffer, e non di Ludwig von Mises. Una sconfitta per le facoltà più elevate dell’uomo: “a playground for the demented”, citando a sproposito Dave Mustaine.

6 Responses

  1. lpr

    Oh Dott. Monsurrò,
    le tue lezioni di elettronica le capisco bene (e ti sono grato per la tua chiarezza nell’esporre tali concetti), ma questo post lo trovo criptico (probabilmente e’ anche colpa mia, visto che sono “a corto” di linguaggio tecnico in merito).

  2. LPR: credo che il core dell’argomento sia la nozione di “rational ignorance”.

    Faccio un esempio pratico anche se stilizzato.

    Una persona deve investire un’ora in più al giorno ogni giorno per studiare per un esame. Se studia a sufficienza, ha buone probabilità di passare con un voto medio alto. Dunque valuta se tra andare al pub con gli amici e prendere un voto alto qual è l’opzione migliore, e decide quanto studiare e quanto uscire la sera. Se il voto vale più della birra, deciderà di studiare di più, altrimenti di andare al pub. Dunque si raggiunge il compromesso migliore tra voti e amici.

    Supponiamo ora che tutto il corso debba fare l’esame insieme, e che ogni persona alla fine prenda lo stesso voto, pari alla media dei voti che ognuno avrebbe meritato. Se ci sono cento studenti, ogni studente ha due scelte: studiare e meritare 25 e non studiare e meritare 15. Supponiamo che 50 persone decidano di studiare e 50 no: alla fine tutte prenderanno 20. Ma supponiamo che una delle persone che aveva deciso di studiare capisca che se smette, il voto medio passa da (50*25+50*15)/100=20 a (49*25+51*15)/100=19.9. In pratica, se decide di non studiare più prende lo stesso identico voto. Se però tutti fanno lo stesso ragionamento, nessuno studia più, e vengono tutti bocciati. Ora supponiamo che 99 persone non studino, ma una persona decida di studiare: il voto passa da 15 a 15.1, e non serve a nulla sacrificarsi per gli altri.

    Insomma, a queste condizioni nessuno studierà, o se studierà lo farà con diletto, ma se poi capisce che tutti gli altri studenti si approfittano del suo entusiasmo magari deciderà di non farlo neanche per diletto.

    Così è la democrazia: nessun elettore si informa veramente sulle questioni di policy, tutti tifano calcisticamente per questo o quell’altro partito, oppure fanno i “menefreghisti”, ma praticamente nessuno ha buone ragioni per prendere decisioni ragionevoli e argomentare sensatamente.

  3. lpr

    @Pietro Monsurrò
    Grazie per la risposta.
    Credo di aver capito un po’ meglio il concetto.
    Stavo tuttavia riflettendo su un fatto: per farmi capire hai dovuto parlare anche un po’ alla mia “pancia” (non sto dicendo che nel commento hai omesso di argomentare le tue idee, ritengo pero’ che, quando si tratta di far capire qualcosa ai “non addetti ai lavori”, si debba parlare/scrivere con un tono piu’ diretto – proprio come, a mio parere, tu hai fatto nel commento).

  4. Sì, è un problema di registro. D’altra parte far passare concetti complessi è una cosa complessa. Posso impegnarmi a fare le cose il più semplici possibili, però in campi tecnici di norma non è possibile farlo senza perdere profondità concettuale. In elettronica una volta ho spiegato gli oscillatori a due tizi che non conoscevano la trasformata di Laplace e ho parlato di diapason… ma non è la stessa cosa. 🙂

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