27
Nov
2013

Perché conviene a tutti dividere Alitalia in due

Nel breve tempo intercorso tra la prima scadenza per l’adesione all’aumento di capitale di Alitalia e quella prorogata, che è alla mezzanotte di oggi, il panorama del trasporto aereo italiano è profondamente mutato per effetto delle scelte di offerta di due importanti vettori low cost, la spagnola Vueling e la più nota Ryanair. Vueling, che fa parte di Iag, il gruppo nato dall’aggregazione di Iberia con British Airways, accresce la sua presenza a Fiumicino collocandovi otto nuovi A320 e moltiplica per tre la sua offerta attuale, affiancando per la prima volta alle abituali rotte europee anche sette rotte interne al nostro paese. Read More

22
Nov
2013

Carlo taglia ed Enrico dismette? Davvero davvero? Vediamo..

Ieri è stata una giornata semi-campale, per la politica economica del governo. Sul fronte negativo, lo slittamento ulteriore delle coperture sulla seconda rata IMU in Consiglio dei ministri. Nonché la giusta mazzata venuta dal garante della privacy al redditometro come da 2 anni lo concepiva l’Agenzia delle Entrate: non si dovranno usare medie standard Istat per i consumi familiari, né “fitti figurativi”, né alcun altro tipo di elemento presuntivo. Quando negli ultimi due anni lo dicevamo, che il redditometro veniva concepito come uno studio di settore per famiglie del tutto inaccettabile, i vertici del fisco pubblico se la ridevano. Ora il garante privacy fa ciò che non ha mai saputo fare il parlamento: tutelare i contribuenti. Ma a loro cioè a noi, toccherà pagare i software preparativi elaborati dal fisco, e che ora sono da buttare via per riscriverli…

Sul fronte positivo, invece, le interviste del commissario alla spending review Carlo Cottarelli e la conferenza stampa del premier Letta sulle privatizzazioni. Nel pomeriggio, Letta ha aggiunto che il Consiglio dei ministri era andato per le lunghe proprio per dare più munizioni a Saccomanni, all’Eurogruppo di oggi che parla di conti pubblici e dei rabbuffi venuti da Bruxelles anche alla nostra legge di stabilità. E, in effetti, i tagli di spesa e le dismissioni pubbliche sono il più di queste munizioni aggiuntive. Cerchiamo allora di capire. Perché, obbligatoriamente dopo quel che si è visto in questi anni, prima di credere a Cottarelli che taglia davvero e a Letta che dismette sul serio, prudenza è d’obbligo.

Partiamo dai tagli di spesa. L’osservazione da cui partire è che il governo doveva muoversi prima, appena nato, dopo gli ostacoli a cui era andato incontro l’operato di Piero Giarda prima e di Enrico Bondi poi. E ha ragione il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che ieri ha preannunciato al premier una lettera formale a nome di tutti i suoi associati, “inquieti” ha detto, perché su 800 miliardi di spesa pubblica sarebbe giusto aspettarsi una riduzione del 3, del 4 o del 5%, visto che migliaia di imprese in questi anni di dura crisi hanno dovuto fare efficienza per multipli di queste grandezze.

Ma nelle parole e nel programma annunciato da Cottarelli emergono tre punti, fermi e apprezzabili. Il primo è che il commissario ai tagli mostra una grande serietà, nell’approccio al problema. Evita per questo di sparare cifre a caso, non sposa per prudenza neanche le cifre di cui ha più volte parlato con disnvoltura e leggerezza  Saccomanni, che si è spinto a 32 miliardi di minori spese. Cottarelli sembra risolutamente preferire, dopo tante delusioni e annunci a vuoto, che parlino i fatti. E’ meglio così.Visto che la politica fa finta di non conoscere la spesa pubblica e chiama esperti esterni a farlo in sua vece, Cottarelli non vuole ricadere nelle trappole del passato.

Secondo. Cottarelli ha in pochi giorni messo a punto una metodologia che chiama decine e decine di vertici della Pubblica amministrazione ministeriale intorno a tavoli orizzontali e verticali, in ogni comparto della spesa. Anche questo deriva da una lezione amara del passato. I Giarda e i Bondi sono stati visti dalla PA come elementi esterni, con una condiscendenza venata di sospettosa superiorità. La stessa Ragioneria Generale dello Stato, non sembrava estranea a tale atteggiamento. Molto meglio, dunque, dare qualche settimana ai grand commis di Stato perché dicano esplicitamente la loro, su come intervenire al meglio senza tagli lineari ma scegliendo residui accantonati, doppioni e sovrapposizioni, e veri e propri “regali” a interessi costituiti. E’ questo che va fatto, per contenere il più possibile gli effetti recessivi della minor spesa pubblica.

Terzo. Una volta evitati gli annunci della politica e l’estraneità dai vertici della burocrazia, Cottarelli si riserva di fare proprie proposte al governo, in modo che ognuno si assuma le sue responsabilità. Se queste tre premesse verranno davvero mantenute, e i tempi saranno davvero rapidi, forse – ma forse – è davvero la volta buona. Dalle province alle auto blu, gli italiani non ne possono più di assistere a parole senza fatti.

Quanto alle privatizzazioni, sono altrettanto apprezzabili i 10-12 miliardi di incassi come obiettivo annunciato da Letta. Sinora, il governo aveva di fatto reso ancor più pubblica Ansaldo Energia e dato l’ok a Poste per entrare in Alitalia. Cambiare obiettivo è una buona cosa.

Letta ha parlato di cessioni allo studio fino al 60% di Sace e di Grandi stazioni, del 50% di Cdp Reti, del 40% di Enav e Fincantieri. Inoltre, Eni procederà a un buyback cioè a un riacquisto di azioni proprie, che farà salire la quota pubblica fino a circa il 33%, lasciando così un margine di cessione di un pacchetto pari al 3%. La prima cosa da rilevare è che il governo, con tali operazioni, mira a non cedere il controllo pubblico di nessuno di questi soggetti. E’ ovvio che al liberista che qui scrive la cosa non piaccia, ma realisticamente c’è poco da fare: la maggioranza di Letta – a destra come a sinistra – è purtroppo contraria alle cessioni del controllo. E nel mainstream popolare che segue – sia pur molto minoritariamente – i talk show serali fitti di “dagli all’euro”, “basta favori alle cricche”, “servi della Merkel” e via così, non è che gli animal spirits sembrino molto diversi

Secondo: quanto agli effetti, bisogna distinguere. L’ha già ben detto Carlo Stagnaro. Per le già quotate in Borsa, tirar su denaro senza renderle realmente contendibili passerà anche attraverso la costruzione di scatole cinesi, come accadrà per Cdp Reti, proprio quando gli analoghi artifici societari pluridecennali dei grandi privati, per restare al controllo con quote minoritarie, sembrano finalmente cedere il passo. Una vera contraddizione. Diverso è invece per la parziale privatizzazione di soggetti fin qui solo pubblici come Fincantieri, Sace, Grandi Stazioni ed Enav. In questo caso, auspicabilmente con la quotazione, l’ingresso di soci privati porterà a una maggior disciplina economico-finanziaria e a più efficienza. E diventerà meno difficile sfuggire alla necessità di aprire al mercato la piena concorrenza anche dei servizi che quelle società talora offrono.

La terza osservazione è sull’Eni. Il riacquisto di azioni proprie alimentato dal cash flow aziendale potrà far alzare il valore del titolo diminuendo il flottante. Ma solo alla fine si capirà se, tra costo del debito e rendimento del titolo risultanti, l’Eni non avrà trasferito risorse proprie – anche degli azionisti privati, che sono in maggioranza – allo Stato. Peccato, cedendo un 4% senza buy back lo Stato poteva rendere l’Eni una vera grande public company, senza alleggerirla di risorse e dando al titolo un ben diverso impulso verso l’alto.

Quarto: la destinazione dei proventi. Metà ad abbattere il debito pubblico, ha detto Letta. E sin qui ci siamo. L’altra metà a ricapitalizzare Cassa Depositi, come più volte chiesto ance da Bankitalia. E qui viene il sospetto che possa poi servire a far rientrare lo Stato sulla rete di Telecom Italia, o per costituire quel maxi polo tra Ansaldo Breda, Ansaldo Trasporti, Sts e magari Fincantieri, che non avrebbe logica guardando ai mercati mondiali ma che molto piace a manager pubblici e tifosi dello Stato.

Quinto: non si capisce proprio perché escludere dalla lista Poste e Ferrovie. Per entrambe, separazione  e quotazione delle attività di mercato farebbe bene non solo come preliminare all’abbassamento della quotata pubblica, ma aprirebbe un mercato molto compresso e fitto di contraddizioni (vedi la non-licenza bancaria a poste malgrado la sua colossale rete di raccolta, e il contrasto irrisolto tra AV e TPL in Fs)

I rischi sono dunque tanti, profonde ambiguità restano. Ma in ogni caso è un bene che lo Stato riprenda una sua graduale ritirata, pressato dal debito pubblico. E che Letta si sia deciso. Tra spending review e dismissioni, è in gioco il guadagno di un po’ di credibilità aggiuntiva all’Italia. Ce n’è bisogno. Eccome.

22
Nov
2013

Non si rafforza l’Euro indebolendo la Germania — di Gerardo Coco

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gerardo Coco.

Napoleone sosteneva che esiste un’unica figura retorica seria: la ripetizione. Le convinzioni si affermano grazie alla ripetizione e finiscono per penetrare nelle menti come verità dimostrate. L’«Europa dei popoli» è stata imposta in questo modo. Con la ripetizione si è ora accreditata l’idea che la Germania rubi posti lavoro all’eurozona. Al coro si sono uniti: il tesoro americano nel suo rapporto semestrale, la commissione europea e infine due famosi economisti, Paul Krugman e Martin Woolf.

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21
Nov
2013

I sacri cocci

Nel Fatto quotidiano di ieri, il prof. Montanari replicava con ferma indignazione a un articolo in cui Bruno Tinti, nell’edizione di sabato scorso del medesimo giornale, proponeva di vendere ai privati i siti archeologici riversando su di essi il costo di manutenzione, attesa l’incapacità dello Stato di tutelare il patrimonio storico e artistico.

Apriti cielo.

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19
Nov
2013

Carbosulcis, la miniera senza fondo della politica industriale

La brutta notizia è che la resistibilissima storia della Carbosulcis sia segnata da un altro scandalo, la bella notizia è che dovrebbe essere l’ultima pagina prima della chiusura. Secondo la Guardia di finanza amministratori della società, amministratori locali, dirigenti e funzionari avrebbero autorizzato per dieci anni l’acquisto di beni e servizi per circa 40 milioni di euro senza osservare le procedure di evidenza pubblica. Tra i tanti acquisti anche una serie di macchinari mai utilizzati e costati oltre 17 milioni di euro.

Quanto la Carbosulcis sia costata agli italiani è stato raccontato e documentato da Alessandro Penati in un articolo del 1996 per il Corriere: “Nel 1985 lo Stato decide di dare 512 miliardi di lire all’Eni per riattivare il bacino carbonifero; l’Eni a sua volta investe 200 miliardi nelle miniere. Si arriva però al luglio 1993 e non un solo chilo di carbone è stato estratto”. Si va verso la privatizzazione, ma non ci sono acquirenti perché il carbone del Sulcis è pieno di zolfo, quindi costoso ed improduttivo. Il governo evita di nuovo la chiusura nel ’94 e stanzia 420 miliardi a fondo perduto, “ma non bastano per garantire la redditività degli investimenti ai privati. Il decreto, pertanto, obbliga l’Enel a comprare per otto anni l’elettricità del Sulcis a 160 lire per kwh, quando il costo medio di produzione dell’Ente è di 72 lire”. La differenza la pagano gli italiani in bolletta. Nel 1995 Carbosulcis viene messa in vendita, ma l’asta va deserta. La prospettiva di una chiusura delle miniere porta nuovi scioperi e lotte sindacali, occupazioni e manifestazioni che convincono la regione Sardegna a prendere in carico la società per guidare la “transizione” verso la privatizzazione. Transizione che negli anni di gestione regionale è costata altri 600 milioni di euro (circa 1.160 miliardi di vecchie lire) di sussidi e che ha causato l’apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per aiuti di stato illegittimi. In trent’anni i contribuenti hanno speso dai 2 ai 4miliardi di lire per ogni minatore, la miniera ha bruciato più soldi che carbone (anche qui un po’ di conti) .

L’ultima geniale idea del governo per guidare la “transizione verso la privatizzazione” è quella contenuta nella bozza del decreto “Fare 2” (di cui abbiamo parlato qui) che prevede un contributo di 63 milioni l’anno per venti anni (1 miliardo e 260 milioni totali) ovviamente pagati tramite ulteriori prelievi in bolletta. Un intervento che per salvare il lavoro di circa 500 operai che guadagnano 20-30mila euro l’anno ne costerebbe circa 126mila a testa, altri 2 milioni e mezzo di euro per dipendente nei venti anni complessivi. Il piano di “politica industriale” sembra tramontato, anche per “colpa” della procedura di infrazione europea. L’unico vero progetto industriale in campo è quello che doveva essere attuato trent’anni fa, la chiusura, anche perché ora sono previsti sussidi pure per la fine dell’attività (si fa per dire) produttiva: Bruxelles ha pronti circa 250 milioni di euro per la bonifica e l’accompagnamento alla chiusura delle miniere improduttive entro il 2018.

Ora va di moda elogiare il ruolo dello “Stato imprenditore” soprattutto nei campi dell’innovazione tecnologica e della ricerca, enunciando una serie di casi particolari di successo dimenticando di confrontarli con la stragrande maggioranza di fallimenti pubblici. Che è come presentare un video con i 5 o 6 casi in cui Luca Giurato abbia azzeccato un congiuntivo per dimostrare che sia un ottimo insegnante di italiano. La verità è che la storia della Carbosulcis è la norma più che l’eccezione della logica che ha guidato gli investimenti pubblici e le “politiche industriali” specialmente in Italia. Eppure nel nostro paese nessuno si oppone agli “investimenti pubblici”, né i politici, né gli elettori, né il mondo dell’informazione, tutti ritengono la locuzione sinonimo di “sviluppo”. In realtà nella spesa per investimenti non ci sono meno sprechi che nella spesa corrente visto che, come ha evidenziato Yoram Gutgled nel libro Più uguali, più ricchi, tra il 2000 e il 2010 l’Italia ha speso mediamente 20 miliardi l’anno più della Germania con risultati sconfortanti: “Da noi un chilometro di autostrada o ferrovia costa due volte e mezzo più che in Germania e Francia”. Come spesso accade la lingua può dire molto sul nostro atteggiamento rispetto alla questione, in italiano non esiste il corrispettivo del termine inglese malinvestment, “la parola investire suona meglio della parola spendere – ricorda Gutgeld – investire richiama l’idea di costruire qualcosa per il futuro”, anche se quel qualcosa molto spesso sono tasse e debito pubblico. Quando si sentono politici ed opinionisti parlare di “politica industriale” ed “investimenti pubblici”, si dovrebbe pensare anche alle parole “spreco” e “malinvestment”. E se non rendono l’idea, alla parola Carbosulcis.

Twitter @lucianocapone

18
Nov
2013

Il protezionismo svedese sull’alcool: una soluzione che peggiora il problema

Esercizio di immaginazione: sono le cinque di un sabato pomeriggio e siete nella capitale di uno dei più ricchi paesi occidentali. La sera avete in programma una cena da amici, e volete portare una bottiglia di vino. Per fare ciò, però, siete costretti a dirigervi nel retrobottega di un negozio dove il losco proprietario tiene ammucchiate casse di alcolici di ogni genere, che vende di contrabbando. Dopo aver girato tra gli scatoloni, prendete una bottiglia di vino, pagate e uscite senza dare nell’occhio. Domanda: dove vi trovate?

Avete risposto “nell’America ai tempi del proibizionismo”? Può anche darsi. Ma è quello che potrebbe succedervi anche oggi stesso a Stoccolma e in ogni altra città della Svezia.

Quello tra gli svedesi e l’alcool è sempre stato un rapporto tormentato. Che i nordici bevano parecchio non è una novità, e proprio per contrastare gli effetti del bere il Governo svedese decise, agli inizi del ‘900, di assumere il controllo capillare della distribuzione di bevande alcoliche. Un monopolio che dura fino a oggi. In realtà, i supermercati possono vendere “liberamente” birre e alcolici… A patto che non superino i 3,5° di volume. Il che, come può facilmente capire chiunque non sia astemio, significa non poter vendere nient’altro che birre annacquate.

Per acquistare bevande con una gradazione superiore, invece, bisogna recarsi nei Systembolaget, supermercati aventi l’esclusiva funzione di vendere alcolici e gestiti direttamente dallo Stato. E che, quindi, vendono solo ciò che lo Stato decide di vendere, nei giorni e negli orari in cui lo vuole vendere (non dopo le 15 di sabato né di domenica, per esempio). I Systembolaget, inoltre, sono solo 418 in tutto il territorio svedese (uno ogni 22.000 abitanti), in ottica evidentemente dissuasiva. E sempre per disincentivare l’acquisto di alcolici al loro interno sono vietate le pubblicità dei marchi e le offerte speciali.

Si aggiunge a tutto ciò, in un tristemente coerente pendant, un’elevatissima pressione fiscale. L’aliquota sugli alcolici dipende dalla gradazione: la vodka, per esempio, è tassata al 40%; il vino al 14%; la birra “solo” al 4.5%. Ma non è finita: questa imposta si cumula all’applicazione della VAT (l’equivalente dell’IVA), che è del 12% per le bevande con gradazione al di sotto dei 3.5° e del 25% per quelli con gradazione superiore. Fino al 2007 era riservata al monopolio statale anche l’importazione di bevande alcoliche: se un cittadino avesse voluto importare privatamente del vino italiano, avrebbe dovuto rivolgersi alla Systembolaget (che tratteneva il 17% del prezzo), finché una sentenza della Corte di Giustizia Europea ha dichiarato la normativa in contrasto con il principio della libera circolazione delle merci all’interno dell’UE.

La prima considerazione che mi sembra opportuno fare su questo sistema proibizionista è di carattere psicologico: scoraggiare l’acquisto di alcool con metodi repressivi, invece che educativi, alimenta la percezione che si tratti di un prodotto eversivo, attirando così l’attenzione dei più giovani, notoriamente attratti da comportamenti borderline che li aiutino ad affermarsi ed emanciparsi. Con due ovvie conseguenze: innanzitutto, potendo acquistare alcolici solo fino a una cert’ora e in un solo luogo, la tendenza è quella di comprarne (e, di conseguenza, consumarne) più del necessario. In secondo luogo tutte queste restrizioni, unite a prezzi così elevati, favoriscono la formazione del mercato nero.

Gli effetti economici, poi, sono drammatici: il monopolio statale annichilisce la concorrenza, sprecando enormi opportunità imprenditoriali e sacrificando numerosi posti di lavoro potenziali. Come sempre in questi casi a farne le spese sono soprattutto i consumatori, in particolare quelli meno abbienti (che, tra l’altro, saranno istintivamente portati a percepire l’alcool come un bene di lusso, e come tale ad esserne attratti). Basta passare un weekend a Malmö per rendersi conto di quanti siano gli svedesi che prendono il traghetto fino in Germania e tornano con la macchina strapiena di scorte. E lo stesso accade ai confini con la Danimarca e la Finlandia. Si potrebbe pensare che, quanto meno, il consumo di alcool si sia ridotto grazie a queste politiche. E invece è aumentato del 30% dal 1995 al 2005, con una (seppur lieve) diminuzione negli ultimi 8-10 anni, cioè proprio da quando la Svezia ha aperto le frontiere all’importazione. Una coincidenza?

Piuttosto l’ennesima dimostrazione dell’assoluta inefficacia dei sistemi monopolistici, in particolare laddove ci siano in ballo questioni etiche. Il punto è che il consumo di alcool è connaturato alla società occidentale, piaccia o meno. E l’unica strada per limitarne abusi e conseguenze problematiche è di natura culturale: libertà e consapevolezza, unite, possono fare molto più della repressione. Evitando che gli svedesi si trovino costretti a dover trattare con l’Al Capone di turno per poter comprare una bottiglia di vino il sabato pomeriggio.

Giacomo Lev Mannheimer

 

 

17
Nov
2013

Alitalia e il lungo raggio (I parte)

La nuova Alitalia non ha chiuso in attivo alcun esercizio dalla sua nascita ad oggi, tuttavia le aviolinee mondiali hanno registrato buoni risultati nel triennio successivo alla recessione del 2009: le 76 maggiori compagnie dei cinque continenti hanno ottenuto complessivamente nel triennio 2010-12 un risultato operativo pari a 58 miliardi di dollari e profitti netti dopo le tasse pari a 28 miliardi. Read More