12
Ago
2015

Migranti e Italia: la Chiesa ora esagera

Nel 2014 in Italia son sbarcati 170 mila migranti, e 120mila nelle sole isole siciliane. Nel 2015, il trend in corso conferma quella cifra, anzi secondo la polizia di frontiera ai ritmi dei salvataggi di questi ultimi giorni si potrà superare la quota di 200 mila.

Queste le ruvide cifre dell’emergenza migranti nel nostro paese. Cifre che rendono pochissima cosa l’accordo europeo di redistribuzione di 32mila unità complessive. Ma anche numeri che dovrebbero far riflettere le persone assennate, prima di prorompere in tirate polemiche francamente stupefacenti. Mi riferisco questa volta non alla politica italiana, ma alla Chiesa cattolica. Al papa Bergoglio, che dall’inizio del suo pontificato rivolge appelli all’Italia ad accogliere tutti i migranti, fino al punto di aver definito pochi giorni fa strage e omicidio volontario non farlo. Ai vescovi italiani, che con monsignor Galantino hanno dato dei “piazzisti da quattro soldi” ai politici italiani che chiedono di distinguere tra rifugiati che hanno i titoli per essere accolti, e vasta maggioranza di migranti che sono da reimpatriare, o da redistribuire secondo criteri paritari con altri paesi Ue.

Per rispetto e convinzione, non applico ai vertici della Chiesa i criteri della polemica che la politica alimenta al suo interno, o che i media riservano giustamente talora alla politica. Stupefatto dunque dall’aspra durezza delle parole usate dal pontefice come dai vertici della Chiesa italiana, ho deciso di capire meglio. Umilmente, ho ripreso in mano il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa cattolica, ufficialmente elaborato dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Per comprendere, dottrina alla mano, la scelta di toni tanto duri, visto che non si tratta certo di procacciarsi voti alle prossime elezioni contro Salvini o contro Grillo.

Al capitolo ottavo, dedicato alla comunità politica, i paragrafi dal 379 al 382 sono chiari e illuminanti. “Gesù rifiuta il potere oppressivo dei capi delle nazioni, ma non contesta mai direttamente le autorità del suo tempo. San Paolo invita ai doveri dei cristiani verso le autorità, demandate al bene comune. San Pietro esorta i cristiani a un’obbedienza responsabile verso le autorità che fanno rispettare la giustizia, assicurando calma e tranquillità. Solo quando la politica si autodivinizza, allora diviene la Bestia dell’Apocalisse, e contro di essa come contro Satana bisogna essere duri fino al martirio”. Sono tutte citazioni testuali.

Quel che mi chiedo è se, di fronte a politici che – con toni diversi, e a volte ricorrendo a parole criticabilissime – chiedono comunque misura e discernimento nell’accogliere 200mila migranti l’anno, i vertici della Chiesa cattolica usino le parole che hanno usato identificandoli ormai nella Bestia dell’Apocalisse. Non so voi, ma la risposta che mi do è che no, non è francamente possibile. I numeri del fenomeno che si abbatte sull’Italia devono indurre anche la Chiesa al rispetto di quel senso della misura e del bene comune che gli apostoli identificavano come il metro vero dell’atteggiamento e del tono dovuti dai cristiani alla politica.

Ieri il responsabile immigrazione della Caritas, Oliviero Forti, polemicanente rintuzzando Salvini, Zaia e altri che chiedono quanti migranti sia disposti a ospitare la Chiesa italiana, egli per primo non ha smentito che la disponibilità nel 2014 a fronte di 170mila sbarcati non era superiore alle 15 mila unità. La lista dei conventi che ospitano migranti messa on line dalla Cei è smilza. E non sono mancati casi come quello della Diocesi di Crema, che ha comunicato la sospensione dell’accoglienza agli immigrati in un convento della città, ”a causa della tenace e strenua opposizione di molti genitori” di un’attigua scuola. Certo, come ha ricordato Forti, in diversi casi sono le caratteristiche architettoniche dei vecchi conventi e seminari a non essere adeguate ai criteri di sicurezza necessari per ospitare i migranti. E ha concluso che occorrerebbe un tavolo istituzionale per risolvere il problema. Ecco, quest’ultimo appello ci sembra più consono alla gravità del tema. La Chiesa cooperi con lo Stato, visto che le 23mila parrocchie italiane possono di sicuro far di più che offrire accoglienza a 15mila migranti.

Le gerarchie cattoliche non possono pensare che milioni di italiani non leggano trascrizioni come quelle pubblicate dalle indagini di Mafia Capitale a Roma, in cui Buzzi dichiara esplicitamente “tu c’hai un’idea di quanto ce guadagnamo co’ gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E anche le cooperative bianche e cattoliche, e politici che a loro facevano rifierimento, sono coinvolti in indagini che mostrano come tra il corrispettivo assicurato dallo Stato e i costi veri sostenuti, il traffico di migranti sia nel nostro Paese occasione di turpe mercimonio. Non meno orrendo di quello degli scafisti in mare. E con tanti saluti alla fede in Cristo e ai doveri di solidarietà che le gerarchie predicano.

Lo Stato italiano, su questa materia, è pieno di pecche. Finisce per demandare a Comuni ed Enti Locali la sistemazione di un numero sempre più elevato di migranti dopo aver assolto ai doveri di salvarli in mare, perché non si è dotato mai di un efficace e trasparente sistema di gestione nazionale del fenomeno. Ma proprio per questo milioni di italiani – al di là delle mire politiche di Salvini e Grillo – sono allarmati per l’impatto di un fenomeno di queste proporzioni. Che ogni sera ai tg diventa più gigantesco.

Non deve sfuggire alla Santa Sede che l’altro megacorridoio europeo di ingressi in Europa paragonabile quantitativamente al nostro, quello centreuropeo sulla frontiera balcanica, vede in atto strategie di paesi di governi e sensibilità diverse, come Ungheria e Germania, volti però a stringere le viti dell’accoglienza, ampliando la rete dei cosiddetti “paesi sicuri” da cui transita il flusso, come Serbia e Macedonia , e dichiarando sin d’ora che i migranti che raggiungono le loro frontiere saranno riaccompagnati a quei paesi di precedente transito. Di conseguenza resta solo la porta sud, spalancata agli arrivi in massa: cioè la porta mediterranea che sbocca sulle coste italiane. Spalancata anche perché le gerarchie cattoliche dichiarano apertamente che uno Stato che si ponga anche solo il problema della sostenibilità del fenomeno, del discernimento di chi possiamo ospitare rispetto a chi no, è uno Stato assassino. Ed è dell’Italia che stanno parlando, non di tutti i paesi europei.

Ecco perché un appello a misurare le parole delle gerarchie cattoliche mi sembra necessario. Tanto più quando si parla a nome di un’autorità che non è di questo mondo, ma che con le concrete possibilità offerte dal nostro dolente paese deve per forza fare i conti. Per non sconfinare in un’utopia che del cristianesimo non è parte, perché la sua dottrina insegna a fare il meglio possibile rispetto alle risorse finite e ai difetti degli umani, ai quali – con tutta la migliore volontà – i miracoli sono impossibili.

11
Ago
2015

Serve il Certification Officer, contro le megaretribuzioni sindacali opache per legge

Il caso di Fausto Scandola, espulso della CISL su richiesta ai probiviri della segreteria nazionale del sindacato, mostra con evidenza perché serva finalmente una legge sui doveri del sindacato: innanzitutto quelli democratici verso i suoi iscritti, e di trasparenza verso tutti i cittadini. Purtroppo, la materia dello scandalo mostra anche perché la legge non ci sarà.

Era fine febbraio 2014, quando a un dibattito alla Bocconi la segretaria generale della Cgil, ironica e polemica verso uno studente che criticava il sindacatone rosso, lo fulminò con una domanda secca: “ma tu lo sai quanto guadagna un lavoratore italiano”? Lo studente rimase interdetto. Eppure la risposta pronta c’era. Sì, noi sappiamo perfettamente dall’Istat qual è il reddito medio procapite degli Italiani, e di come al sud sia poco più della metà che al nord, e per questo la media italiana supera di poco i 20 mila euro lordi. Quel che invece non sappiamo affatto è il reddito dei sindacalisti. L’unico modo di saperne qualcosa è che qualcuno che li conosce davvero si decida a parlarne. Come è avvenuto ora a Fausto Scandola, iscritto alla CISL dal 1968, che ha pubblicamente chiesto alla sua organizzazione come possano davvero dirsi rappresentanti dei lavoratori dei dirigenti sindacali – dei quali ha fatto nomi e cognomi – che, sommando compensi per il proprio ruolo e quelli per incarichi ricoperti grazie al proprio ruolo, arrivano a sfiorare i 300mila euro lordi di reddito annuo. Cioè più del Capo dello Stato italiano, ovviamente più di Obama, nonché più del massimo consentito per legge a qualunque dirigente pubblico. E ben 15 volte tanto, rispetto al reddito medio degli italiani.

Qual è il motivo dell’espulsione di Fausto Scandola? E’ accusato di aver condotto un’indagine riservata su dati personali coperti da privacy, e di ingenerare danno pubblico al sindacato. In un paese dove il sindacato fosse tenuto a obblighi di trasparenza, lo scandalo sarebbe l’espulsione. Perché il problema non è Scandola, che andrebbe anzi nominato alla testa dell’organo di controllo nazionale del suo sindacato. Il problema sono le migliaia di dirigenti delle confederazioni sindacali – ben oltre 20 mila – che queste cose le sanno benissimo, e che tacciono oggi come hanno taciuto ieri per anni. Perché per moltissimi di loro la carriera di dirigente sindacale è stata una pacchia.

Ogni tanto, negli anni, le confederazioni dichiaravano delle cifre di compenso dei vertici apicali. Fino ai tempi di Epifani segretario della Cgil, la sua retribuzione mensile lorda era dichiarata di poco superiore ai 3mila euro (netti, dunque sui 75 mila euro lordi annui), e la dozzina di membri della segreteria nazionale confederale sotto i 3mila euro. Leggermente superiore quella di Angeletti alla Uil, e dei suoi membri della segreteria rispetto a quelli Cgil. Mentre il capo della Fiom, Landini, ancora oggi starebbe sotto i 3mila euro, visto che nel 2013 ne dichiarava 2250 (sempre netti), aggiungendo che era la retribuzione più alta di tutta la FIOM: alla quale va comunque riconosciuto che, sotto la gestione Landini, è diventata la federazione sindacale che pubblica on line la maggior quantità di dati rispetto all’intero universo sindacale italiano, buste paga comprese.

In realtà, eccezion fatta per la FIOM, le cifre fornite dalle confederazioni sono sempre state del tutto non controllabili. La vicenda del predecessore della Furlan, Raffaele Bonanni travolto proprio dall’emergere della sua incredibile crescita di retribuzione negli ultimi 5 anni di guida della CISL, avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta. Che puntualmente non è avvenuta. Bonanni è andato a casa e sparito in silenzio, dopo che dai 118mila euro lordi del 2006 passò vertiginosamente ai 336mila dell’ultimo anno di guida CISL. E naturalmente facendo media piena a fini previdenziali degli ultimi 5 anni di maxi-salari, perché non soggetto alla riforma Dini né Fornero e potendo contare su pensione dunque pienamente retributiva. Della Furlan, l’attuale leader Cisl, conosciamo la retribuzione 2008, che era di 99mila euro lordi, e siamo in attesa di capire ora a quanto è salita: visto che il 9 luglio scorso la CISL ha approvato un nuovo regolamento nazionale, per il quale la retribuzione massima dovrà essere quella del segretario confederale. Quanto alla trasparenza, la Furlan afferma che “verrà messo tutto on line”. Potete stare certi che non sarà così. E non solo perché, come sappiamo oggi grazie a Scandola espulso dalla CISL, Bonanni non era certo solo, a veleggiare intorno a quelle cifre. Il fatto è che anche per le precedenti regole vigenti in Cisl avrebbe dovuto esserci un tetto al cumulo retributivo, che come si vede non era affatto rispettato: tanto, senza obblighi di accountability pubblica, basta la privacy a coprire tutto.

Quindi, ancora una volta i nuovi impegni CISL saranno scritti sull’acqua. Per due ordini di ragioni. La prima è che ridicolmente ci direbbero solo i compensi diretti per gli incarichi sindacali, e non quelli complessivi per gli incarichi in società consorzi e quant’altro ottenuti grazie ai ruoli sindacali: è la privacy all’italiana, bellezza. In nessun paese civile viene riservata a chi svolge ruoli pubblici, ma da noi invece è così. Per questa stessa ragione, non possiamo sapere i nomi dei 17.319 sindacalisti che hanno beneficiato della norma contenuta nel decreto 564 del 1996, sulle cosiddette ‘pensioni d’oro’, norma che ha permesso a dirigenti e dipendenti sindacali di avere una pensione integrativa attraverso il pagamento anche di un solo mese di contributi da parte delle organizzazioni sindacali.

La seconda ragione è che nel nostro paese, come abbiamo detto e ridetto mille volte, la politica si è ben guardata dall’attuale l’articolo 39 della Costituzione, cioè disciplinando per legge i diritti ma anche i doveri dei sindacati , tra cui il rispetto pieno della democrazie interna e gli obblighi di trasparenza finanziaria. Per questo, i sindacati in Italia sono praticamente associazioni private, e non sono affatto tenute a redigere un bilancio consolidato nazionale, né economico né patrimoniale. Non sappiamo nulla del loro reale patrimonio immobiliare, e dobbiamo ogni volta fare noi giornalisti dei conti approssimativi su quanto incassino dai CAF fiscali, e dai patronati.

Nessun obbligo di bilancio consolidato consente di aggirare con enorme facilità il quesito di quanto pesi la retribuzione di dirigenti e quadri sindacali sul totale delle risorse delle confederazioni. Un dato che i loro iscritti dovrebbero considerare di elementare informazione democratica, esattamente come ogni dipendente Fiat sa quanto guadagna Marchionne. La Furlan dice ora che l’impegno diverrà girare alle strutture territoriali e aziendali il 70% delle entrare della CISL: ma di quali entrate, quelle derivanti dagli iscritti, o quelle a cui si perviene sommando CAF, patronati e immobili? Perché se sommiamo la stima di entrate che le tessere di iscritti lavoratori (oltre 6 milioni) e pensionati (di più) producono ai tre sindacati confederali, arriviamo intorno ai 900 milioni dai primi e 300 dai pensionati, circa 1,2 miliardi. Ma la somma si moltiplica, sommando i proventi da CAF, patronati, e redditi dalla gestione di – si stima – oltre 10 mila immobili di Cgil, Cisl e Uil.

Qual è l’alternativa, a questo regime di pazzesca discrezionalità difeso con le unghie proprio dai sindacati che gridano ogni giorno per la mancata trasparenza delle imprese e della pubblica amministrazione? Francamente, ci siamo stufati di aspettare il giorno in cui verrà una legge nazionale dedicata ai doveri sindacali. Quel giorno non ci sarà, perché nessuno a destra né a sinistra – neanche Renzi, al quale va però riconosciuto il merito di aver dimezzato i distacchi sindacali con il decreto PA dello scorso anno – avrà la voglia di beccarsi la protesta che verrebbe scatenata da decine di migliaia di professionisti dell’agitazione. Ripetiamo: dell’agitazione, non della contrattazione.

Ergo, adottiamo almeno il modello britannico. Nel Regno Unito un organo pubblico, il Government Certification Officer, ha il compito di tenere ufficialmente gli elenchi degli iscritti a sindacati e associazioni datoriali, assicurarsi che non agiscano in frode né l’uno verso l’altro né all’interno della loro stessa organizzazione rispetto ai loro iscritti, e infine di esercitare il diritto di accesso ai loro bilanci e conti patrimoniali. Annualmente, grazie al Certification Officer, i lavoratori e i cittadini britannici sanno tutto delle retribuzioni di centinaia di sindacalisti, territoriali e nazionali, di ogni categoria e incarico. Attualmente, alcune decine stanno poco sotto o poco sopra le 100mila sterline annue lorde, la media sta sui 45 mila, moltissimi sotto. Oltre ai compensi sindacali, il Certification Officer ha diritto di conoscere anche bonus e benefit, comprese le macchine di servizio con autista. E come si vede dalla reazione dei media ai dati annuali, l’intero paese ha così elementi per conoscere direttamente i dati e farsi le sue idee, su come e quanto le Trade Unions paghino i propri dirigenti. Fate il paragone con l’Italia, giudicate voi cosa sia meglio.

 

6
Ago
2015

Rai: l’artiglio dei partiti, quando servirebbe una rivoluzione industriale

Peccato, peccato, peccato. Le nuove nomine RAI portano il segno di una scelta conservativa, effettuate a cavallo tra vecchia legge Gasparri e una riformetta che modifica solo i poteri del vecchio dg, rendendolo un ad di nomina governativa. Ma che comunque dovrà fare i conti con un cda scelto dai partiti, e una commissione parlamentare di vigilanza sempre invasiva. Renzi non ha creduto che la scadenza del contratto di servizio pubblico, nel 2016, significasse l’occasione per una duplice rivoluzione. La prima: che cosa sia e debba essere in futuro il cosiddetto servizio pubblico. La seconda: quale piano industriale debba darsi l’azienda RAI – che pubblica è e pubblica resta – noi privatizzatoti non demorderemo, ma siamo minoranza assoluta – ma che comunque potrebbe rompere l’equilibrio di stagnazione che contraddistingue l’offerta multimediale italiana, d’informazione e di intrattenimento.

Il primo punto è autoevidente. A conferma, basta paragonare l’indagine parlamentare britannica avviata un anno e mezzo fa in vista della scadenza della Royal Charter di servizio pubblico assegnata alla BBC. I partiti britannici si sono posti il problema fondamentale: che cosa sia il servizio pubblico e come evitare un’impropria commistione tra informazione di qualità, e logiche e proventi commerciali. Lo hanno fatto a fronte di una BBC che a David Cameron non piace, ma che già da anni ha la sua parte di servizio pubblico, la BBC Public Broadcasting, separata dagli altri servizi d’informazione mondiali e a tema della stessa BBC. Dove per “separata” s’intende che BBC PB non può usare proventi commerciali ma solo il canone, a differenza delle altre società di BBC che non costituiscono oggetto di servizio pubblico. Mentre i 12 trustees che governano la BBC sono presidenti di grandi banche e aziende private, direttori di grandi musei indipendenti, ex presidenti di grandi gruppi editoriali privati come quello del Financial Times, non uomini dei partiti. Sarà anche per questo, che la BBC in 8 anni ha ridotto i suoi costi del 22%.

Dalla parte opposta di un ideale rappresentazione dei diversi modelli di servizio pubblico radio televisivo, ci sono quelli dei paesi che nel tempo hanno deciso di abolire il canone: come Spagna, Olanda, Polonia. Di fatto, ai partiti e alla politica italiana, neanche questa volta è interessato un fico secco approfondire alcunché delle ragioni industriali, economiche e culturali che hanno prodotto in Europa regimi di servizio pubblico tanto diversi dal nostro. Con tanti saluti alla rottamazione e alla fame d’innovazione.

Poiché però è una pessima abitudine italiana ragionare per pregiudizi, venendo alle scelte industriali e di settore non vogliamo commettere l’errore di giudicare prima di averli visti in azione il nuovo cda, la nuova presidente Monica Maggioni e il nuovo dg di cui si resta in attesa come una sorta di “uomo del miracolo”. Senza troppe speranze, aspetteremo i fatti. Ma ciò non ci esime dal richiamare alcuni colli di bottiglia in attesa di essere risolti, e che sono la dannazione del sistema tv italiano.

Il punto non è l’equilibrio di bilancio della RAI. Sotto questo profilo, la gestione uscente Gubitosi-Tarantola ha chiuso il 2013 con un utile proforma di poco più di 5 milioni, e il 2014 addirittura sfiorando i 58 milioni. Naturalmente quest’ultima cifra è stata resa possibile solo da un’operazione straordinaria, non dal raggiunto equilibrio della gestione ordinaria: la quotazione delle torri di trasmissioni di Rai Way, realizzando così un incasso di 280 milioni e una plusvalenza netta di 228. Mentre l’anno prossimo, come tutti gli anni pari, sarà un bilancio difficile per la RAI a causa dei diritti tv dei grandi eventi sportivi, Olimpiadi ed Europei di calcio, che a proiezioni attuali di bilancio e senza scelte incisive riporterebbero la perdita verso i 150 milioni annui.

Ma ripetiamolo: il problema, per quanto importante, non è l’equilibrio di bilancio. In realtà bisogna aspettarsi che la politica giudicherà il neo super direttore generale innanzitutto dalle nomine alla guida delle testate storiche della RAI, attenta a ogni variazione del bilancino di potere tra vecchia destra e neo-vecchia sinistra. Invece, il nuovo super direttore generale dovrebbe invece stupire tutti, a cominciare dal proprio cda, ponendosi per esempio tre domande “di sistema”.

La prima: ha ancora senso considerare frequenze e satellite – le coordinate tecnologiche della triade Rai-Mediaset-Sky – come l’eterno campo di gioco in cui c’è chi incassa più pubblicità (in regresso da anni) e chi compensa col canone?

La seconda: ha davvero ancora significato che il servizio pubblico sia solo RAI, pur essendo implicitamente già fatta la scelta da parte della politica, e non sia invece interesse primario della RAI stessa estenderlo anche ad altri soggetti?

La terza: cosa può fare la RAI, per assecondare un balzo in avanti rispetto al gap digitale italiano, che finora l’ha vista in realtà prosperare ma che danneggia il paese e per l’azienda disegna un’eterna Roncisvalle di retroguardia?

E’ ovvio che per noi le tre domande avrebbero risposte obbligate. Primo: no, non ha più senso ragionare sulla vecchia tavolozza di frequenze e satellite, perché la sfida è quella degli smart device, della banda larga e del “pago per quel che vedo”: nel 2014 per la prima volta in Italia coloro che hanno visto immagini in streaming su multidevice hanno superato in percentuale coloro che restano fedeli alla vecchia tv. Secondo: sì, la RAI guadagnerebbe essa per prima un ruolo di traino civile e culturale se per prima immaginasse un servizio pubblico affidato per esempio anche a emittenti locali in pool, che restassero indipendenti ma con garanzie per rispondere ai criteri di servizio pubblico, e alle quali “offrire” supporti tecnologici da parte della Rai stessa. Non è affatto detto – se la politica non ci arriva – che la RAI non possa per prima immaginare un servizio pubblico più “tedesco”, cioè offerto anche da reti saldamente locali.

Terzo: i politici si riempiono la bocca della necessità di nuove fiction “italiane” per il mercato internazionale, ma con tutto il rispetto le sfide sono altre e innanzitutto tecnologiche. L’avvio del passaggio ai nuovi standard digitali, dal DVB-T2 all’Ultra HD, con relativa sostituzione di apparati ricettivi e decoder. I nuovi formati e linguaggi che sono necessari – nell’informazione e nell’intrattenimento – in un mondo in cui il ricevente pagante ha strumenti capaci di isolare ogni singolo dettaglio dell’immagine. La sfida tecnologica è la più importante. E’ quella battuta dai newcomers: Netflix, Discovery e via proseguendo.

L’anno scorso, abbiamo assistito a una cosa senza senso. La RAI ha quotato le sue torri per raddrizzare il bilancio a cui Renzi aveva inflitto un taglio di 150 milioni. Ma industrialmente l’operazione doveva essere del tutto diversa: mettere assieme le torri Rai, Mediaset e di Telecom Italia, con una ricaduta nazionale di efficientamento industriale e non di effimero beneficio finanziario per ciascuno dei tre sfiancati players, a fatturato calante da anni. Invece, apparentemente il governo ragiona in un modo singolare. Le grandi aziende telcos in Italia sono ansanti, e la politica le considera al guinzaglio – e talora le minaccia, come avviene per Telecom Italia – invece di usare per prima la RAI pubblica in un’ottica di accelerazione nazionale della banda larga e della strategia multi-device.

Naturalmente, speriamo di sbagliarci. Magari è la volta buona, che la RAI di questa nuova stagione ci lasci senza parole. Siamo pronti a metterci tutta la necessaria cenere sul capo e anche sulla lingua, se per buona sorte accadesse davvero. Ma dovessimo scommetterci sopra, allora no, non lo faremmo.

 

3
Ago
2015

Renzi presenti in UE il nostro Sud come Grecia ed ex DDR. Ecco cosa si potrebbe ottenere

Il premier Renzi dal Giappone ha picchiato duro: “al Sud basta piagnistei, bisogna rimboccarsi le maniche”. Ha ragione, ma basta capire in cosa consista, tirarsi su le maniche. Da molti anni, i governi ripetono che il Sud non ha bisogno di politiche ad hoc. I risultati si sono visti. Per capire che fare, approfittiamo allora delle proposte del presidente della regione Puglia, Michele Emiliano. Nell’intervista al Mattino di ieri, Emiliano ha chiarito meglio la sua prima reazione ai dati SVIMEZ sulla desertificazione economica del Sud. Era prorotto in un “scateniamo l’inferno” che va bene per ottenere titoli, ma istituzionalmente o non significa nulla o è del tutto censurabile. Ieri è entrato nel merito, e le sue riflessioni sono non solo più pacate, ma da prendere in considerazione. Su quattro punti, tre sono realizzabili con una forte iniezione di volontà politica “nuova”, e senza rivoluzioni. Il quarto, invece, ha bisogno di una svolta vera e propria nella politica nazionale. I primi tre infatti non postulano una dura trattiva con l’Unione Europea, l’ultimo è inconseguibile senza l’ok di Bruxelles. Ma, a ben vedere, è realizzabile anch’esso: a patto di compierlo e presentarlo come una grande scelta ventennale. Ciò che la politica sinora non ha pensato affatto di fare.

I primi tre punti dipendono solo dalla politica. Il primo: un coordinamento permanente istituzionale e “dal basso”, senza aspettare Roma, di tutti i presidenti delle regioni del Sud. Personalmente sarei per abolirle, le regioni attuali con le loro mortifere burocrazie, come ha giustamente detto Nicola Rossi, sostituendole con macroregioni inibite alla gestione diretta di alcunché. Ma siccome le regioni ci sono e restano, è ovvio che sarebbero più forti, le regioni meridionali, se avessero voglia e forza di scegliere insieme le proprie  priorità– a patto che siano poche – indipendentemente. Cioè “prima” di subire volta per volta le decisioni governative e il confronto in conferenza Stato-Regioni. Non deve essere un coordinamento “neo borbonico”, dice Emiliano: sottoscriviamo, pensare al vecchio assistenzialismo è demenziale. Ma una volontà comune serve eccome. Se c’è. Allo stato, non c’è neanche nel Pd.

Il secondo punto riguarda una nuova strategia contro le mafie e la vastissima illegalità. Sacrosanto. Nel manifesto per un nuovo Mezzogiorno presentato il 9 marzo scorso a Napoli a castel dell’Ovo, firmato da una ventina di economisti, professionisti e intellettuali di diversi filoni cultutrali tra cui Paolo Savona, Massimo Lo Cicero e Florindo Rubbettino, c’è già scritto tutto. Non solo più sforzi degli organi dello Stato esistenti e pugno duro contro la microcriminalità: per una svolta culturale, servono “navi della conoscenza” della legalità diffuse in rete nelle aree in cui le cosche hanno forza e consenso, sulla scorta delle esperienze realizzate nei paesi sudamericani. Senza vergognarsi di dover trarre ispirazione dalle favelas brasiliane.

Il terzo punto entra nell’economia e nelle risorse per il Sud. L’Agenzia per la coesione territoriale, che doveva essere catalizzatore efficientista su alcune priorità vere per il Sud grazie ai fondi Ue, in realtà langue ancora. A tre anni dalla decisione di introdurla, a due dalla legge istitutiva e dopo 13 Dpcm, mutati nel frattempo quattro volte i responsabili politici governativi dei fondi europei – 2 ministri e 2 sottosegretari a palazzo Chigi – i primi 120 assunti per concorso arriveranno all’Agenzia se va bene l’anno prossimo. E molti particolari decisivi non sono chiari, tra cui il suo ruolo diretto nelle trattative con la Ue, quello di sostituzione diretta nei progetti delle Regioni inadempienti. Di fatto, nell’ultima ricognizione europea sull’utilizzo dei fondi strutturali e di coesione Ue da parte dell’Italia, a inizio giugno mancava ancora la spesa del 23,6% dei 46,6 miliardi di euro assegnati all’Italia nel 2007-2013. Restavano da spendere entro dicembre di quest’anno – termine oltre il quale i soldi tornano a Bruxelles – ben 12,3 miliardi di cui 10 nel Sud. Attenzione: 11,8 miiardi vennero “riprogrammati” dal ministro Barca ai tempi del governo Monti, vista la difficoltà delle Regioni meridionali di spenderli, volgendoli a scopi sociali: per anziani, asili nido e così via: se ne sono spesi solo 2 miliardi.

Questi numeri confermano due cose. Serve davvero il coordinamento dei presidenti delle regioni meridionali, e l’attuale Agenzia per la coesione non ce la fa. Negli anni 2014-2012 l’Italia godrà di 32,3 miliardi di fondi europei, di cui 22,3 concentrati nelle 4 regioni del Sud a più basso reddito, Campania Puglia Calabria e Sicilia, e 1,1 nelle regioni “in transizione”, Basilicata Sardegna Abruzzo e Molise. Sommiamo le cifre: 10 miliardi ancora disponibili entro dicembre più 22 nei prossimi sette anni sono due punti di PIL italiano tondi tondi, a cui si aggiunge un altro punto di PIL per il cofinanziamento nazionale. Tre punti di PIL di risorse da investire bene su alcuni pochi snodi concentrati – infrastrutture non a pioggia, hub della conoscenza e non università a pioggia, turismo e manifattura ad alto valore aggiunto nelle filiere già presenti sul territorio. Tutto ciò NON HA ASSOLUTAMENTE BISOGNO DI UN NEO MINISTERO per il Sud, che aggiungerebbe solo inutilmente l’ennesimo livello politico tra regioni e Agenzia. Serve invece un’Agenzia molto potenziata per capacità tecnica di analizzare, affiancare – e se necessario, sostituire – i progetti secondo criteri di efficiente costo-beneficio.

Veniamo infine al punto più delicato, quello che richiede una rivoluzione. Emiliano chiede di sapere come e perché non si possa applicare al Sud una decisa fiscalità di vantaggio. Se ne parla da 15 anni, e ancora nel 2010 Tremonti annunciava che la sua poi abortita banca del mezzogiorno, come qualunque altra banca che concentrasse al sud i suoi impieghi, si sarebbe vista applicata una tassazione limitata sl solo 5%. Naturalmente erano chiacchiere, non si è mai visto nulla.

Cerchiamo allora di rispondere a Emiliano. E’ possibile, ottenere dalla Ue una tassazione diversificata, sui redditi delle imprese e delle persone come sui patrimoni meridionali? La risposta è sì. Solo che, per farlo, bisogna essere pronti e capaci di innestare questa richiesta in un quadro complessivo e coerente di maxi scelte, che siano compatibili con quanto prescrivono i Trattati.

Gli articoli del Trattato in questione sono quelli dall’87 all’89, in materia di aiuti di Stato, al fine di non alterare le condizioni di concorrenza esistenti nel mercato della comunità. In linea generale, gli aiuti sono vietati. Tranne che per eccezioni esplicite, da autorizzare da parte della Commissione. Le deroghe sono previste dalla stessa norma. Se le andiamo a leggere, troviamo che oltre ai casi di calamità naturale, è esplicitamente – guarda caso – contemplato il caso degli aiuti concessi alla ex Germania Est, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione. Ma è anche scritto che sono compatibili col Trattato gli aiuti “ destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione”. Ecco, di questo si tratta, visto che il Sud italiano dall’inizio dell’euro è cresciuto meno della Grecia, e ha un reddito procapite che va dalla metà a un terzo del Nord.

Si tratta di intraprendere in Ue un’azione italiana che rivendichi per il Sud Italia una disciplina speciale a tempo in linea con quella adottata per i dipartimenti francesi d’oltremare, le Azzorre, Madeira e le isole Canarie. Nelle Azzorre, il regime fiscale speciale ha previsto una riduzione del 20% per le imposte sui redditi e del 30% per l’imposta sulle società, rispetto al Portogallo. Vi sono state impugnative e controversie in sede di Corte Europea, ma come si vede di precedenti ce ne sono eccome, e i Trattati le consentono.

Il punto è che l’Italia dovrebbe scommetterci sopra al punto di avanzare una vera e propria strategia nazionale radicalmente diversa da quelle sin qui viste. Per esempio, contestualmente composta di tre aspetti. Primo (proposta avanzata da Paolo Savona): bisognerebbe essere disposti a convogliare rigidamente una quota fissa degli acquisti operati da parte della BCE nell’ambito del Quantitative Easing, a favore di investimenti Bei nel Mezzoggiorno invece che del Tesoro italiano. Dei 60 mld mensili di acquisti mensili BCE, all’Italia spettano un 12,3%, pari a 7,4 mld euro mensili, per un totale di 140 mld da marzo 2015 a settembre 2016. Poiché il Pil procapite del Mezzogiorno è il 46% di quello del resto d’Italia, potrebbe aspirare a ottenere un “diritto di tiraggio” minimo di 76 mld in 19 mesi che, con un buon parco progetti e un ruolo proattivo della Banca d’Italia e del governo, si aggiungerebbero ai fondi di coesione e strutturali Ue. Se la sente il governo, di dire che preferisce acquisti di titoli BEI finalizzati a finanziare progetti al Sud Italia, piuttosto che titoli del Tesoro italiano?

Secondo: analoga percentuale fissa dovrebbe essere destinata al Sud, sul totale dei programmi finanziati dal piano Juncker ( per chi ci crede, naturalmente…). Roma ha presentato un elenco da 87,1 miliardi di euro con centinaia di progetti nei settori dei trasporti, dell’energia, delle telecomunicazioni e dell’istruzione. E’ pronta, l’Italia, a chiedere che la scelta da parte del FEIS e della BEI sia da destinarne al Sud i due terzi? Quando molti legittimamente diranno – lo farei anch’io – che i tagli fiscali e gli investimenti servono innanzitutto al Nord, che cresce e traina di più l’intero paese?

Terzo: oltre ai due pilastri europei, il governo potrebbe-dovrebbe avanzare in sede comunitaria anche il suo piano triennale di tagli alle imposte per 45 miliardi, a quel punto con un’accelerazione dei tempi e un ulteriore abbattimento delle aliquote per il Sud. Ma solo motivando coi controfiocchi gli effetti di diminuzione dell’output gap nazionale e meridionale, l’Europa potrebbe – con enorme fatica, e se davvero renmzi fosse persuasivo non finanziando in deficit i suoi tagli di tasse – dare il consenso a quest’ultimo punto, come ai primi due.

Se la sente l’Italia, di dire in Europa che o siamo condizionalmente autorizzati a questo – come il Trattato consente – oppure la bomba del Sud italiano è molto peggio per tutti, e non solo per noi italiani, di quella della Grecia? Finora, un governo così non c’è mai stato. Vediamo. Ma, al di fuori di scelte così radicali, non è coi mezzucci che si risolve il disastro meridionale. E tanto meno con le guerricciole interne al Pd, e tra premier e sindaci e presidenti di regione di diverse confessioni della sinistra.

 

3
Ago
2015

I Comuni compensino i tagli IMU cedendo immobili e municipalizzate

L’allarme della Corte dei conti sul record di aumenti del fisco locale, come strumento per compensare i tagli dei trasferimenti di finanza pubblica alle Autonomie di anno in anno operati dai governi, non poteva arrivare in un tempo più adatto. Comincia infatti oggi il mese della passione al Ministero dell’Economia, quello in cui dopo aver fatto stato degli andamenti mensili della spesa e delle entrate pubbliche, occorre far quadrare i conti in vista della bozza della legge di stabilità. Dove “quadrare i conti” significa: conciliare le nuove promesse e impegni del governo con gli andamenti tendenziali della finanza pubblica, in modo da assicurare con gli interventi proposti in legge di stabilità da una parte quanto il governo ha già annunciato per gli anni a venire, dall’altra gli obiettivi già contrattati con l’Europa su base pluriennale, di contenimento del deficit e di abbassamento del debito pubblico.

Un compito terribile, per il MEF. Se sommiamo solo alcune delle maggiori poste previste nel 2016, abbiamo 16 miliardi di clausole fiscali da non far scattare, 3 miliardi tra reverse charge bocciata dalla Ue e rimborsi previdenziali dopo la sentenza della Corte Costituzionale, 4 miliardi dei 13 triennali – anticipazione dal Mef ieri del Messaggero – necessari al rinnovo dei contratti del pubblico impiego anche in questo caso dopo sentenza della Corte costituzionale, 5 miliardi previsti per la decontribuzione ai nuovi contratti di lavoro nel 2016, e 19 miliardi necessari per far scendere il deficit dal 3% di PIL all’1,8% contrattato con la Ue per il 2016. Poi 5 miliardi per coprire l’abolizione di IMU-TASI sulla prima casa, l’IMU agricola e quella sui beni strumentali imbullonati delle imprese. Tutto questo senza elencare tante altre poste discendenti da promesse del governo, per esempio 3 miliardi aggiuntivi per la scuola. Poiché come vedete la cifra supera abbondantemente i 50 miliardi verso i 60, è evidente che al MEF sudino freddo.

Per ben che vada, infatti, dovrebbe produrre 10 miliardi la spending review rinviata di un anno e mezzo rispetto alle proposte di Cottarelli. Ma è ormai altrettanto evidente che Renzi non parla più pubblicamente dell’obiettivo a medio termine contrattato con la Ue, di riduzione del deficit all’1,8% del PIl nel 2016, dice solo che il governo rispetterà il tetto del 3%. Ergo quei 19 miliardi di abbassamento del deficit al MEF non sono richiesti, a patto che Bruxellles naturalmente ci autorizzi, cosa tutta da vedere. Ma con evidenza restano sempre troppi, gli impegni annunciati da Renzi, anche prendendo per buono il deficit ancora al 3% l’anno prossimo.

In questo quadro si colloca l’impegno formale annunciato da palazzo Chigi: i 5 miliardi di minori introiti per l’abrogazione dell’IMU su prima casa, agricola eccetera non saranno minori risorse per i Comuni, perché il governo li pareggerà con altrettanti trasferimenti. Finora, è avvenuto il contrario. Roma tagliava, e gli Enti Locali aumentavano le addizionali. E’ il meccanismo che spiega l’aumento della propensione al risparmio degli italiani sia pur in presenza di minori redditi procapite dovuti alla disoccupazione: sapendo che le tasse comunque localmente aumentavano, meglio risparmiare che consumare.

Prendiamo allora per buona l’idea di Renzi. E, per carità di patria, non ipotizziamo che improvvisamente il governo ci riservi l’anno prossimo 30 miliardi di tagli di spesa, perché non ci crederemmo – purtroppo – neanche per un nanosecondo. Avanziamo invece una proposta diversa. C’è un modo, per pareggiare il conto tra dare e avere di Roma e dei Comuni, senza far aumentare le tasse locali su altre tasse in presenza di abbattimenti su imposte loro riservate? A ben vedere, c’è eccome, se il governo vorrà finalmente imboccarlo. Si tratta di usare due leve patrimonaili, a fronte di una che riguarda il conto economico. La prima leva è quella delle municipalizzate. La seconda quella degli immobili comunali (e regionali).

Come era scontato prevedere, la norma posta in legge di stabilità 2015 dall’attuale governo, sui programmi di razionalizzaione e cessione delle società controllate dagli Enti Locali, non ha prodotto nulla. Era ovvio: non c’erano sanzioni previste né norme cogenti, nel comma della finanziaria. Allora nella prossima legge di stabilità il governo preveda invece che i risparmi da cessioni e fusioni delle migliaia di municipalizzate diventino automatici bonus di spesa rispetto al patto di stabilità interno, proporzionati all’entità delle cessioni.

La seconda leva è quella degli immobili pubblici. Attenti a non cadere nell’inganno. La stima di 59 miliardi di valore degli immobili statali effettuata  dall’Agenzia del Demanio è relativa ai soli mattoni dello Stato centrale. Nell’ultima stima pubblicata dal Mef relativa all’intero patrimonio pubblico, risalente alla fine del 2011, il valore complessivo era di 425 miliardi, di cui 227 in mano ai Comuni, 11 alle Regioni, 29 alle Province, 25 alle ASL , più 150 miliardi di ex IACP cioè edilizia pubblica popolare. Ecco, allo stesso modo delle municipalizzate cedute, il governo preveda in legge di stabilità che tutte le cessioni di patrimonio pubbico – per cessione s’intende non la vendita immediata, ma il conferimento a veicoli specializzati privati che avranno a disposizione il tempo adeguato per cederli e metterli a reddito, potendo emettere obbligazioni sulla base dei loro cospicui asset – configurino automatiche e proporzionali dotazioni di spesa, spendibili su base pluriennale.

Su questa base, possiamo garantire che i 5 miliardi a pareggio si trovano, senza un solo euro di spesa aggiuntiva in deficit o di tagli di spesa del governo centrale. Certo, bisogna voler tagliare il perimetro pubblico. Ma municipalizzate e patrimonio immobiliare sono all’80% se non più manomorta, dai dati che abbiamo a disposizione non generano reddito ma solo perdite. Lo farà, il governo Renzi? E i Comuni, accetterebbero lo scambio?

1
Ago
2015

La commedia delle ferie dei magistrati: 30 giorni per il governo, 60 per loro

L’Italia è quel paese dove si fanno le leggi per non farle rispettare, diceva il cardinale di Richelieu. Ma una stessa legge uguale per tutti è una sciocchezza perché il leone non è uguale al bue, diceva William Blake. Ecco, sulla delicata faccenda delle ferie dei magistrati, che a fine 2014 ha avvampato i rapporti tra governo e toghe di Stato, siamo all’esatta conferma di quei due vecchi detti. Il governo ha abbassato da 45 a 30 giorni le ferie ai magistrati, contro il loro parere. Ma i leoni non sono i buoi, ergo per la maggior parte di loro non solo deve continuare a valere la misura dei 45 giorni, così scrivono in documenti ufficiali le varie correnti dell’ANM e più d’uno ha fatto ricorso, ma fin qui siamo nell’interpretazione. Quel che più conta, è che a seguito di una circolare e di una delibera del CSM, assunte a marzo e aprile scorso, già formalmente le disposizioni date agli uffici giudiziari consentivano di fatto di salire comunque da 30 giorni più sei festività soppresse (che per i magistrati devono valere comunque) più altro ancora a 42, se non a 46 giorni. Ma il capolavoro è che ora, con una delibera assunta a strettissima maggioranza dal plenum del CSM giovedì scorso e nell’indifferenza assoluta dei media, il capolavoro è compiuto: di fatto, non solo no ai 30 giorni voluti dal governo, non solo meglio dei 42 o 46 ai quali si era comunque arrivati, signori miei i giorni di ferie ai magistrati possono arrivare anche a 60. E chi si è visto si è visto, con tanti saluti al caro governo che ha scherzato col fuoco.

Facciamo un passo indietro. E’ il 13 gennaio, quando il decreto ministeriale firmato dal ministro di Giustizia Andrea Orlando fissa per il 2015 il periodo feriale per i magistrati dal 27 luglio al 2 settembre. I magistrati si oppongono, e il CSM si attiva subito, ma con due pareri in contrasto. Per la settima commissione la norma governativa è fallata, chi l’ha scritta si è dimenticato – chissà se per ignoranza, o perché era un collaboratore del ministro ma magistrato a propria volta – di abrogare l’articolo di una norma precedente, per cui si desume che il limite nuovo dei 30 giorni di ferie vale solo per i magistrati distaccati e non applicati a funzioni giudiziarie, mentre per tutti questi ultimi vale sempre il vecchio tetto dei 45 giorni. L’ufficio studi del Csm è invece propenso alla piena legittimità per tutti della nuova norma dei 30 giorni per tutti.

Per le correnti associative della magistratura invece non c’è alcun dubbio, la norma è illegittima e va impugnata al TAR: tanto che predispongono i moduli per i loro associati. E a prescindere dalla legittimità il conto del governo è sbagliato comunque, dicono, perché il periodo indicato dal ministero è solo quello della chiusura degli uffici giudiziari e non del numero assoluto di giorni di riposo. Dunque si riferisce ai magistrati di Cassazione, Corti d’Appello, Tribunali e addetti ai Commissariati. Le correnti notano che aggiungendo ai 30 giorni i 6 di festività soppresse e permessi, le 5 domeniche e il giorno di Ferragosto, il periodo di ferie è comunque di almeno di 42 giorni e non di 30 come indicato dal governo né di 38, come sarebbe a voler essere pignoli contando dal 27 luglio al 2 settembre.

Restano aperte però molte questioni scottanti. I 15 giorni di ferie in più delle toghe rispetto agli altri dipendenti pubblici – hanno sempre sostenuto i magistrati – servivano a scrivere sentenze e a predisporre atti. Ma il governo restringendo le ferie non ha disposto il blocco dei termini per il deposito di sentenze o per l’assunzione di atti. Ergo il problema è rimasto aperto. Ed è rimbalzato sui capi di ogni ufficio giudiziario italiano. Per questo a marzo e ad aprile il CSM è intervenuto. Mentre, nel frattempo, ogni ufficio giudiziario si assumeva il rischio di fare diversamente. A Roma per esempio i magistrati avranno a disposizione 30 giorni di ferie, i loro colleghi della Procura generale di Torino, invece, possono contare su 42 giorni perché il capo dell’ufficio, Marcello Maddalena, ha applicato la norma taglia ferie del governo Renzi ma con gli addenda. I tribunali di Palermo, Milano, Roma, Torino e di Genova hanno deciso di tagliare, mentre quello di Vercelli ha assunto la stessa decisione dei 42 giorni adottati dalla Procura generale di Torino.

A marzo e aprile, il CSM si è trovato di fronte al dovere di dare indicazioni agli uffici giudiziari, visto che i piani ferie si approssimavano. E la questione centrale – prendendo atto delle pressioni dall’alto espresse dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, affinché il, CSM no sconfessasse apertamente il governo – è diventata quella di contemperare due esigenze. Come conciliare con la mancata sospensione dei termini la necessità che i diminuiti giorni di ferie comunque non si risolvessero in un intralcio alla giustizia, quando il fine del governo era proprio quello di alzarne la produttività. Negli interventi ricordati del CSM, compare l’indicazione ai capi degli uffici giudiziari di non fissare udienze 15 giorni prima e dopo il periodo di ferie. Ed ecco l’escamotage, il cosiddetto “cuscinetto soggettivo”. Poiché il capo di ogni ufficio giudiziario deve prevedere piani ferie con facoltà che fino al 50% delle ferie legittime dei magistrati siano fuori dall’ordinario periodo di chiusura degli uffici disposti dal governo, il ripescaggio operato nei mesi dal CSM è stato prima di un numero limitato di giorni aggiuntivi, destinati comunque alla stesura di atti giudiziari ma fuori da ogni obbligo di presenza, fino a 10 giorni. Ma il 30 luglio, l’altroieri, è giunto il capolavoro finale.

Quaranta magistrati del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – praticamente l’intero organico – avevano chiesto al presidente di essere considerati per 30 giorni in servizio senza essere in ufficio, senza toccare il numero dei 30 giorni di ferie legittime volute dal governo. Il presidente del Tribunale aveva negato la richiesta. La settima commissione del CSM ha dato ragione ai 30 che han fatto ricorso al CSM su 40, e il plenum del CSM con un voto a maggioranza-  in cui decisivo è stato il voto proprio del vicepresidente Legnini – ha acconsentito che, oltre a un congruo periodo di permanenza in servizio per smaltire i provvedimenti introitati e studiare i nuovi, si aggiunga un ulteriore periodo di servizio ma senza obbligo di presenza, per esigenze connesse alla redazione di sentenze o allo studio di atti. Con tale criterio, i giorni di ferie paradossalmente possono arrivare a 60, perché naturalmente 30 sono da considerare in servizio ma da casa o da un villaggio turistico o in crociera, naturalmente chini sulle carte e sugli atti, e sia scomunicato chi immagini il contrario…

Ecco, vi abbiamo riassunto la querelle, certissimi che molti magistrati riterranno impropri i termini che abbiamo usato e fuorvianti i toni e gli estremi dei provvedimenti richiamati. Ci arrendiamo: noi siamo poveri buoi, non leoni come loro. L’unica cosa è che tocca a noi, spiegare ai lettori che è proprio un singolare paese, quello in cui un governo scrive una cosa, i magistrati dicono che non è scritta, ogni ufficio giudiziario si regola come vuole, e alla fine c’è un’unica categoria che lavora da dove vuole senza controlli.

 

30
Lug
2015

La legge penale e le violazioni sindacali: perché le procure di solito stanno a guardare?

La notizia sarebbe di ordinaria amministrazione in un paese civile, ma in Italia no. E’ anzi un’eccezione assoluta. Sull’assemblea sindacale che il 24 luglio scorso ha lasciato agli scavi di Pompei per l’ennesima volta migliaia di turisti chiusi fuori sotto il sole, prima che il soprintendente Osanna si precipitasse da Roma ad aprire i cancelli con le sue chiavi, la notizia è che la Procura di Torre Annunziata ha aperto un fascicolo penale. Si indaga per il reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale. La notizia aggiuntiva, ma questa è solo un’indiscrezione ufficiosa, è che i pm valutano anche l’ipotesi di reati diversi, che configurino il danno erariale a seguito di pratiche illecite estorsive ai danni dello Stato, cioè di noi contribuenti.

E’ rarissimo in Italia che l’iniziativa penale venga valutata e intrapresa su materie come quelle sindacali, e la giurisprudenza cumulata è in ogni caso molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo – classicamente, un sindacalista –  ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni. Tale difformità della pena a fronte di un medesimo reato dà perfettamente l’idea, di quanto le nostre leggi siano corrive agli eccessi sindacali: ma tant’è, siamo in Italia.

A maggior ragione, viva la Procura di Torre Annunziata, che ora deve valutare i fatti, ma che ha compreso al volo – la procedibilità è d’ufficio – che vale la pena accertarsi dell’eventualità di reati penali posti in essere di chi confondesse l’improprio esercizio dei propri diritti con l’indifferenza alla lesione di quelli di coloro, i visitatori degli scavi, che hanno altrettanto diritto a godere del patrimonio pubblico quel giorno loro negato.

La delicatezza della vicenda di Pompei è che essa non ha a che fare con il diritto di sciopero, le cui fattispecie sono regolate dalle legge 146 del 1990, ma con i diritti di libertà sindacale, visto che si trattava di un’assemblea di lavoratori. Materia dunque ancor più scivolosa, perché per esempio lo sciopero bianco dell’ATAC a Roma per 24 giorni è chiaramente in violazione della legge 146 – eppure in quel caso la Procura romana non ha ritenuto di procedere d’ufficio, e anche davanti a un esposto ha svogliatamente aperto un fascicolo senza ipotesi di reato – mentre i diritti sindacali in quanto tali sono pressoché sacri nella nostra giurisprudenza. Ma il fatto è che l’assemblea del 24 a Pompei era stata sì obbligatoriamente autorizzata dal soprintendente –è tenuto a farlo, entro il monte-ore annuale previsto – ma con l’accordo che essa non avrebbe impedito l’apertura regolare degli scavi. Poiché la materia dell’assemblea era relativa al no all’utilizzo da parte del soprintendente del personale dell’ALES, società in house del MIBAC a cui si può regolarmente attingere per garantire l’offerta del servizio, un no opposto in modo che fossero solo i custodi in organico a spartirsi gli straordinari – le assunzioni sono bloccate – ecco allora il verificarsi di due conseguenze. La prima è che a partecipare all’assemblea sono stati indotti molti custodi, e dunque gli scavi sono rimasti chiusi, e di qui la meritoria reazione del soprintendente. La seconda è che la Procura si riserva – finalmente, è il caso di dire – anche di valutare se il fine di tale eventuale improprio esercizio del diritto di assemblea possa configurare non solo l’interruzione di pubblico servizio, ma anche un vero e proprio comportamento estorsivo, volto a rimpinguare il solo portafoglio dei custodi attuali attraverso i turni di lavoro straordinario.

E’ una circostanza del tutto analoga al motivo vero dello sciopero bianco attuato per oltre 3 settimane all’ATAC di Roma. In quel caso a protestare sono sigle sindacai che non hanno firmato il nuovo piano industriale che alza gli orari di servizio di conduttori e macchinisti verso medie simili a quelle di altre città, perché nel frattempo il servizio restava offerto dai conduttori attuali attraverso turni di straordinario che portavano le buste paga mensili fino a 2500 o 3mila euro. Ma a Roma, ripetiamo, la Procura tace. E anzi il neo assessore alla mobilità Esposito ha pensato bene di solidarizzare con un dipendente ATAC colpito da sanzioni, per aver sostenuto che lo sciopero bianco è colpa dell’azienda.

I pm di Torre Annunziata sanno che la loro iniziativa dovrà affrontare molti ostacoli. Bisognerà provare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. Bisognerà provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, anteposto alle norme prescrittive e che fa parte delle circostanze esimenti, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere – in questo caso – in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione.

In ogni caso, lasciatecelo dire: viva la procura diTorre Annunziata. Le leggi non tultelano solo la protesta, ma anche i diritti dei cittadini, dei contribuenti, dei turisti e dei visitatori. E tutelano anche il diritto-dovere del soprintendente Osanna, che autorizza un’assemblea non certo per infliggere un danno a coloro il cui biglietto pagato egli rispetta come il denaro di ogni contribuente. Vedremo come andrà la vicenda giudiziaria, ma c’è un’Italia che batte le mani ai magistrati che – ogni tanto – indagano anche sui comportamenti sindacali abnormi, e che si aspetta da loro nient’altro che facciano rispettare le leggi.

30
Lug
2015

Stessa spiaggia, stesso mare… stesso concessionario?

C’è una regola universale nella storia della legislazione: le misure controverse, quei piccoli dettagli che assicurano rendite e prebende a questo o a quel gruppo di pressione, vengono approvate nottetempo, oppure d’estate. Ecco che allora, con perfetta coerenza, mentre l’Italia sbadiglia sotto l’ombrellone, tra un bagno e un ghiacciolo, poco più in là il gestore dello stabilimento ride sotto i baffi.

Come riporta Public Policy, un emendamento approvato in commissione Bilancio al Senato ha appena prorogato “le utilizzazioni delle aree di demanio marittimo per finalità diverse da quelle di cantieristica navale, pesca e acquacoltura, in essere al 31 dicembre 2013″. Una formula – come spesso accade – piuttosto oscura, ma che nasconde tra le sue pieghe un tema discusso fino alla noia, e che però resta più vivo che mai: quello delle concessioni balneari.

È una storia, dicevamo, che ha radici lontane. Il codice civile stabilisce che le spiagge appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico. Di conseguenza, per essere utilizzate a fini economici, gli stabilimenti devono essere assegnati tramite concessione demaniale. Cioè – mi perdoneranno i puristi – non possono essere acquistate da privati, ma solamente “prese in affitto”. Peccato che in Italia, per decenni, si sia andati avanti a rinnovare automaticamente le concessioni ai gestori, garantendo loro una rendita di posizione praticamente immutabile e così discriminando tutti coloro che avessero voluto competere con gli incumbent per la gestione dello stabilimento.

Una privatizzazione di fatto che non ha favorito i consumatori né lo Stato, ma viceversa ha soltanto accordato palesi rendite di posizione ai concessionari, impermeabili a qualunque procedura concorsuale competitiva che potesse far aumentare le entrate per lo Stato e migliorare i servizi per i cittadini, tramite migliorie e investimenti. Tale pratica non è solo antieconomica di per sé, ma è anche costata all’Italia una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea per contrarietà a quanto stabilito dalla cosiddetta Direttiva Bolkestein. Anche la Corte costituzionale, peraltro, ha dichiarato in più occasioni illegittime le norme regionali che prevedevano il diritto di proroga in favore del soggetto già possessore della concessione, in quanto contrastanti con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza.

La data di scadenza delle concessioni balneari era stata stabilita al 31 dicembre 2015. A quanto pare però, come ha riassunto perfettamente già nel 2012 Serena Sileoni, in un paper per l’Istituto Bruno Leoni, anche per quest’anno gli italiani non cambieranno, godendosi stessa spiaggia, stesso mare… E stesso concessionario.

Twitter: @glmannheimer

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Questo articolo è stato pubblicato originariamente su www.ilgiornale.it.

28
Lug
2015

Equo Canone: una vecchia legge contro la più banale logica del libero scambio—di Giovanni Caccavello

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Caccavello.

Il 27 Luglio 1978, l’allora «IV Governo Andreotti» approvava la Legge sull’Equo Canone (Legge 27/7/1978 N°392) al fine di disciplinare – tra gli altri – i contratti di locazione ad uso non abitativo.
Con l’introduzione di questa legge, il Governo regolamentava il rapporto tra il locatore ed il conduttore, bloccando la libera contrattazione tra le parti.

Oggi, a 37 anni di distanza dall’introduzione, dopo la crisi dell’edilizia degli anni ’80, un trend di stallo pluri-decennale nel settore delle locazioni private, una forte riduzione degli investimenti in costruzioni, un notevole incremento dei prezzi degli affitti e numerosi richiami alla liberalizzazione del settore delle locazioni ad uso commerciale, i contratti degli immobili urbani adibiti ad uso diverso rispetto a quello abitativo continuano ad essere regolamentati dalla «Legge sull’Equo Canone» e l’attuale Governo Renzi (in linea con il «modus operandi» assunto dagli esecutivi precedenti), ha semplicemente rimandato, per l’ennesima volta, l’abrogazione di questo bizzarro, vecchio e limitante ordinamento. Read More