3
Ago
2015

I Comuni compensino i tagli IMU cedendo immobili e municipalizzate

L’allarme della Corte dei conti sul record di aumenti del fisco locale, come strumento per compensare i tagli dei trasferimenti di finanza pubblica alle Autonomie di anno in anno operati dai governi, non poteva arrivare in un tempo più adatto. Comincia infatti oggi il mese della passione al Ministero dell’Economia, quello in cui dopo aver fatto stato degli andamenti mensili della spesa e delle entrate pubbliche, occorre far quadrare i conti in vista della bozza della legge di stabilità. Dove “quadrare i conti” significa: conciliare le nuove promesse e impegni del governo con gli andamenti tendenziali della finanza pubblica, in modo da assicurare con gli interventi proposti in legge di stabilità da una parte quanto il governo ha già annunciato per gli anni a venire, dall’altra gli obiettivi già contrattati con l’Europa su base pluriennale, di contenimento del deficit e di abbassamento del debito pubblico.

Un compito terribile, per il MEF. Se sommiamo solo alcune delle maggiori poste previste nel 2016, abbiamo 16 miliardi di clausole fiscali da non far scattare, 3 miliardi tra reverse charge bocciata dalla Ue e rimborsi previdenziali dopo la sentenza della Corte Costituzionale, 4 miliardi dei 13 triennali – anticipazione dal Mef ieri del Messaggero – necessari al rinnovo dei contratti del pubblico impiego anche in questo caso dopo sentenza della Corte costituzionale, 5 miliardi previsti per la decontribuzione ai nuovi contratti di lavoro nel 2016, e 19 miliardi necessari per far scendere il deficit dal 3% di PIL all’1,8% contrattato con la Ue per il 2016. Poi 5 miliardi per coprire l’abolizione di IMU-TASI sulla prima casa, l’IMU agricola e quella sui beni strumentali imbullonati delle imprese. Tutto questo senza elencare tante altre poste discendenti da promesse del governo, per esempio 3 miliardi aggiuntivi per la scuola. Poiché come vedete la cifra supera abbondantemente i 50 miliardi verso i 60, è evidente che al MEF sudino freddo.

Per ben che vada, infatti, dovrebbe produrre 10 miliardi la spending review rinviata di un anno e mezzo rispetto alle proposte di Cottarelli. Ma è ormai altrettanto evidente che Renzi non parla più pubblicamente dell’obiettivo a medio termine contrattato con la Ue, di riduzione del deficit all’1,8% del PIl nel 2016, dice solo che il governo rispetterà il tetto del 3%. Ergo quei 19 miliardi di abbassamento del deficit al MEF non sono richiesti, a patto che Bruxellles naturalmente ci autorizzi, cosa tutta da vedere. Ma con evidenza restano sempre troppi, gli impegni annunciati da Renzi, anche prendendo per buono il deficit ancora al 3% l’anno prossimo.

In questo quadro si colloca l’impegno formale annunciato da palazzo Chigi: i 5 miliardi di minori introiti per l’abrogazione dell’IMU su prima casa, agricola eccetera non saranno minori risorse per i Comuni, perché il governo li pareggerà con altrettanti trasferimenti. Finora, è avvenuto il contrario. Roma tagliava, e gli Enti Locali aumentavano le addizionali. E’ il meccanismo che spiega l’aumento della propensione al risparmio degli italiani sia pur in presenza di minori redditi procapite dovuti alla disoccupazione: sapendo che le tasse comunque localmente aumentavano, meglio risparmiare che consumare.

Prendiamo allora per buona l’idea di Renzi. E, per carità di patria, non ipotizziamo che improvvisamente il governo ci riservi l’anno prossimo 30 miliardi di tagli di spesa, perché non ci crederemmo – purtroppo – neanche per un nanosecondo. Avanziamo invece una proposta diversa. C’è un modo, per pareggiare il conto tra dare e avere di Roma e dei Comuni, senza far aumentare le tasse locali su altre tasse in presenza di abbattimenti su imposte loro riservate? A ben vedere, c’è eccome, se il governo vorrà finalmente imboccarlo. Si tratta di usare due leve patrimonaili, a fronte di una che riguarda il conto economico. La prima leva è quella delle municipalizzate. La seconda quella degli immobili comunali (e regionali).

Come era scontato prevedere, la norma posta in legge di stabilità 2015 dall’attuale governo, sui programmi di razionalizzaione e cessione delle società controllate dagli Enti Locali, non ha prodotto nulla. Era ovvio: non c’erano sanzioni previste né norme cogenti, nel comma della finanziaria. Allora nella prossima legge di stabilità il governo preveda invece che i risparmi da cessioni e fusioni delle migliaia di municipalizzate diventino automatici bonus di spesa rispetto al patto di stabilità interno, proporzionati all’entità delle cessioni.

La seconda leva è quella degli immobili pubblici. Attenti a non cadere nell’inganno. La stima di 59 miliardi di valore degli immobili statali effettuata  dall’Agenzia del Demanio è relativa ai soli mattoni dello Stato centrale. Nell’ultima stima pubblicata dal Mef relativa all’intero patrimonio pubblico, risalente alla fine del 2011, il valore complessivo era di 425 miliardi, di cui 227 in mano ai Comuni, 11 alle Regioni, 29 alle Province, 25 alle ASL , più 150 miliardi di ex IACP cioè edilizia pubblica popolare. Ecco, allo stesso modo delle municipalizzate cedute, il governo preveda in legge di stabilità che tutte le cessioni di patrimonio pubbico – per cessione s’intende non la vendita immediata, ma il conferimento a veicoli specializzati privati che avranno a disposizione il tempo adeguato per cederli e metterli a reddito, potendo emettere obbligazioni sulla base dei loro cospicui asset – configurino automatiche e proporzionali dotazioni di spesa, spendibili su base pluriennale.

Su questa base, possiamo garantire che i 5 miliardi a pareggio si trovano, senza un solo euro di spesa aggiuntiva in deficit o di tagli di spesa del governo centrale. Certo, bisogna voler tagliare il perimetro pubblico. Ma municipalizzate e patrimonio immobiliare sono all’80% se non più manomorta, dai dati che abbiamo a disposizione non generano reddito ma solo perdite. Lo farà, il governo Renzi? E i Comuni, accetterebbero lo scambio?

1
Ago
2015

La commedia delle ferie dei magistrati: 30 giorni per il governo, 60 per loro

L’Italia è quel paese dove si fanno le leggi per non farle rispettare, diceva il cardinale di Richelieu. Ma una stessa legge uguale per tutti è una sciocchezza perché il leone non è uguale al bue, diceva William Blake. Ecco, sulla delicata faccenda delle ferie dei magistrati, che a fine 2014 ha avvampato i rapporti tra governo e toghe di Stato, siamo all’esatta conferma di quei due vecchi detti. Il governo ha abbassato da 45 a 30 giorni le ferie ai magistrati, contro il loro parere. Ma i leoni non sono i buoi, ergo per la maggior parte di loro non solo deve continuare a valere la misura dei 45 giorni, così scrivono in documenti ufficiali le varie correnti dell’ANM e più d’uno ha fatto ricorso, ma fin qui siamo nell’interpretazione. Quel che più conta, è che a seguito di una circolare e di una delibera del CSM, assunte a marzo e aprile scorso, già formalmente le disposizioni date agli uffici giudiziari consentivano di fatto di salire comunque da 30 giorni più sei festività soppresse (che per i magistrati devono valere comunque) più altro ancora a 42, se non a 46 giorni. Ma il capolavoro è che ora, con una delibera assunta a strettissima maggioranza dal plenum del CSM giovedì scorso e nell’indifferenza assoluta dei media, il capolavoro è compiuto: di fatto, non solo no ai 30 giorni voluti dal governo, non solo meglio dei 42 o 46 ai quali si era comunque arrivati, signori miei i giorni di ferie ai magistrati possono arrivare anche a 60. E chi si è visto si è visto, con tanti saluti al caro governo che ha scherzato col fuoco.

Facciamo un passo indietro. E’ il 13 gennaio, quando il decreto ministeriale firmato dal ministro di Giustizia Andrea Orlando fissa per il 2015 il periodo feriale per i magistrati dal 27 luglio al 2 settembre. I magistrati si oppongono, e il CSM si attiva subito, ma con due pareri in contrasto. Per la settima commissione la norma governativa è fallata, chi l’ha scritta si è dimenticato – chissà se per ignoranza, o perché era un collaboratore del ministro ma magistrato a propria volta – di abrogare l’articolo di una norma precedente, per cui si desume che il limite nuovo dei 30 giorni di ferie vale solo per i magistrati distaccati e non applicati a funzioni giudiziarie, mentre per tutti questi ultimi vale sempre il vecchio tetto dei 45 giorni. L’ufficio studi del Csm è invece propenso alla piena legittimità per tutti della nuova norma dei 30 giorni per tutti.

Per le correnti associative della magistratura invece non c’è alcun dubbio, la norma è illegittima e va impugnata al TAR: tanto che predispongono i moduli per i loro associati. E a prescindere dalla legittimità il conto del governo è sbagliato comunque, dicono, perché il periodo indicato dal ministero è solo quello della chiusura degli uffici giudiziari e non del numero assoluto di giorni di riposo. Dunque si riferisce ai magistrati di Cassazione, Corti d’Appello, Tribunali e addetti ai Commissariati. Le correnti notano che aggiungendo ai 30 giorni i 6 di festività soppresse e permessi, le 5 domeniche e il giorno di Ferragosto, il periodo di ferie è comunque di almeno di 42 giorni e non di 30 come indicato dal governo né di 38, come sarebbe a voler essere pignoli contando dal 27 luglio al 2 settembre.

Restano aperte però molte questioni scottanti. I 15 giorni di ferie in più delle toghe rispetto agli altri dipendenti pubblici – hanno sempre sostenuto i magistrati – servivano a scrivere sentenze e a predisporre atti. Ma il governo restringendo le ferie non ha disposto il blocco dei termini per il deposito di sentenze o per l’assunzione di atti. Ergo il problema è rimasto aperto. Ed è rimbalzato sui capi di ogni ufficio giudiziario italiano. Per questo a marzo e ad aprile il CSM è intervenuto. Mentre, nel frattempo, ogni ufficio giudiziario si assumeva il rischio di fare diversamente. A Roma per esempio i magistrati avranno a disposizione 30 giorni di ferie, i loro colleghi della Procura generale di Torino, invece, possono contare su 42 giorni perché il capo dell’ufficio, Marcello Maddalena, ha applicato la norma taglia ferie del governo Renzi ma con gli addenda. I tribunali di Palermo, Milano, Roma, Torino e di Genova hanno deciso di tagliare, mentre quello di Vercelli ha assunto la stessa decisione dei 42 giorni adottati dalla Procura generale di Torino.

A marzo e aprile, il CSM si è trovato di fronte al dovere di dare indicazioni agli uffici giudiziari, visto che i piani ferie si approssimavano. E la questione centrale – prendendo atto delle pressioni dall’alto espresse dal vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, affinché il, CSM no sconfessasse apertamente il governo – è diventata quella di contemperare due esigenze. Come conciliare con la mancata sospensione dei termini la necessità che i diminuiti giorni di ferie comunque non si risolvessero in un intralcio alla giustizia, quando il fine del governo era proprio quello di alzarne la produttività. Negli interventi ricordati del CSM, compare l’indicazione ai capi degli uffici giudiziari di non fissare udienze 15 giorni prima e dopo il periodo di ferie. Ed ecco l’escamotage, il cosiddetto “cuscinetto soggettivo”. Poiché il capo di ogni ufficio giudiziario deve prevedere piani ferie con facoltà che fino al 50% delle ferie legittime dei magistrati siano fuori dall’ordinario periodo di chiusura degli uffici disposti dal governo, il ripescaggio operato nei mesi dal CSM è stato prima di un numero limitato di giorni aggiuntivi, destinati comunque alla stesura di atti giudiziari ma fuori da ogni obbligo di presenza, fino a 10 giorni. Ma il 30 luglio, l’altroieri, è giunto il capolavoro finale.

Quaranta magistrati del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – praticamente l’intero organico – avevano chiesto al presidente di essere considerati per 30 giorni in servizio senza essere in ufficio, senza toccare il numero dei 30 giorni di ferie legittime volute dal governo. Il presidente del Tribunale aveva negato la richiesta. La settima commissione del CSM ha dato ragione ai 30 che han fatto ricorso al CSM su 40, e il plenum del CSM con un voto a maggioranza-  in cui decisivo è stato il voto proprio del vicepresidente Legnini – ha acconsentito che, oltre a un congruo periodo di permanenza in servizio per smaltire i provvedimenti introitati e studiare i nuovi, si aggiunga un ulteriore periodo di servizio ma senza obbligo di presenza, per esigenze connesse alla redazione di sentenze o allo studio di atti. Con tale criterio, i giorni di ferie paradossalmente possono arrivare a 60, perché naturalmente 30 sono da considerare in servizio ma da casa o da un villaggio turistico o in crociera, naturalmente chini sulle carte e sugli atti, e sia scomunicato chi immagini il contrario…

Ecco, vi abbiamo riassunto la querelle, certissimi che molti magistrati riterranno impropri i termini che abbiamo usato e fuorvianti i toni e gli estremi dei provvedimenti richiamati. Ci arrendiamo: noi siamo poveri buoi, non leoni come loro. L’unica cosa è che tocca a noi, spiegare ai lettori che è proprio un singolare paese, quello in cui un governo scrive una cosa, i magistrati dicono che non è scritta, ogni ufficio giudiziario si regola come vuole, e alla fine c’è un’unica categoria che lavora da dove vuole senza controlli.

 

30
Lug
2015

La legge penale e le violazioni sindacali: perché le procure di solito stanno a guardare?

La notizia sarebbe di ordinaria amministrazione in un paese civile, ma in Italia no. E’ anzi un’eccezione assoluta. Sull’assemblea sindacale che il 24 luglio scorso ha lasciato agli scavi di Pompei per l’ennesima volta migliaia di turisti chiusi fuori sotto il sole, prima che il soprintendente Osanna si precipitasse da Roma ad aprire i cancelli con le sue chiavi, la notizia è che la Procura di Torre Annunziata ha aperto un fascicolo penale. Si indaga per il reato di interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale. La notizia aggiuntiva, ma questa è solo un’indiscrezione ufficiosa, è che i pm valutano anche l’ipotesi di reati diversi, che configurino il danno erariale a seguito di pratiche illecite estorsive ai danni dello Stato, cioè di noi contribuenti.

E’ rarissimo in Italia che l’iniziativa penale venga valutata e intrapresa su materie come quelle sindacali, e la giurisprudenza cumulata è in ogni caso molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo – classicamente, un sindacalista –  ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni. Tale difformità della pena a fronte di un medesimo reato dà perfettamente l’idea, di quanto le nostre leggi siano corrive agli eccessi sindacali: ma tant’è, siamo in Italia.

A maggior ragione, viva la Procura di Torre Annunziata, che ora deve valutare i fatti, ma che ha compreso al volo – la procedibilità è d’ufficio – che vale la pena accertarsi dell’eventualità di reati penali posti in essere di chi confondesse l’improprio esercizio dei propri diritti con l’indifferenza alla lesione di quelli di coloro, i visitatori degli scavi, che hanno altrettanto diritto a godere del patrimonio pubblico quel giorno loro negato.

La delicatezza della vicenda di Pompei è che essa non ha a che fare con il diritto di sciopero, le cui fattispecie sono regolate dalle legge 146 del 1990, ma con i diritti di libertà sindacale, visto che si trattava di un’assemblea di lavoratori. Materia dunque ancor più scivolosa, perché per esempio lo sciopero bianco dell’ATAC a Roma per 24 giorni è chiaramente in violazione della legge 146 – eppure in quel caso la Procura romana non ha ritenuto di procedere d’ufficio, e anche davanti a un esposto ha svogliatamente aperto un fascicolo senza ipotesi di reato – mentre i diritti sindacali in quanto tali sono pressoché sacri nella nostra giurisprudenza. Ma il fatto è che l’assemblea del 24 a Pompei era stata sì obbligatoriamente autorizzata dal soprintendente –è tenuto a farlo, entro il monte-ore annuale previsto – ma con l’accordo che essa non avrebbe impedito l’apertura regolare degli scavi. Poiché la materia dell’assemblea era relativa al no all’utilizzo da parte del soprintendente del personale dell’ALES, società in house del MIBAC a cui si può regolarmente attingere per garantire l’offerta del servizio, un no opposto in modo che fossero solo i custodi in organico a spartirsi gli straordinari – le assunzioni sono bloccate – ecco allora il verificarsi di due conseguenze. La prima è che a partecipare all’assemblea sono stati indotti molti custodi, e dunque gli scavi sono rimasti chiusi, e di qui la meritoria reazione del soprintendente. La seconda è che la Procura si riserva – finalmente, è il caso di dire – anche di valutare se il fine di tale eventuale improprio esercizio del diritto di assemblea possa configurare non solo l’interruzione di pubblico servizio, ma anche un vero e proprio comportamento estorsivo, volto a rimpinguare il solo portafoglio dei custodi attuali attraverso i turni di lavoro straordinario.

E’ una circostanza del tutto analoga al motivo vero dello sciopero bianco attuato per oltre 3 settimane all’ATAC di Roma. In quel caso a protestare sono sigle sindacai che non hanno firmato il nuovo piano industriale che alza gli orari di servizio di conduttori e macchinisti verso medie simili a quelle di altre città, perché nel frattempo il servizio restava offerto dai conduttori attuali attraverso turni di straordinario che portavano le buste paga mensili fino a 2500 o 3mila euro. Ma a Roma, ripetiamo, la Procura tace. E anzi il neo assessore alla mobilità Esposito ha pensato bene di solidarizzare con un dipendente ATAC colpito da sanzioni, per aver sostenuto che lo sciopero bianco è colpa dell’azienda.

I pm di Torre Annunziata sanno che la loro iniziativa dovrà affrontare molti ostacoli. Bisognerà provare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. Bisognerà provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, anteposto alle norme prescrittive e che fa parte delle circostanze esimenti, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere – in questo caso – in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione.

In ogni caso, lasciatecelo dire: viva la procura diTorre Annunziata. Le leggi non tultelano solo la protesta, ma anche i diritti dei cittadini, dei contribuenti, dei turisti e dei visitatori. E tutelano anche il diritto-dovere del soprintendente Osanna, che autorizza un’assemblea non certo per infliggere un danno a coloro il cui biglietto pagato egli rispetta come il denaro di ogni contribuente. Vedremo come andrà la vicenda giudiziaria, ma c’è un’Italia che batte le mani ai magistrati che – ogni tanto – indagano anche sui comportamenti sindacali abnormi, e che si aspetta da loro nient’altro che facciano rispettare le leggi.

30
Lug
2015

Stessa spiaggia, stesso mare… stesso concessionario?

C’è una regola universale nella storia della legislazione: le misure controverse, quei piccoli dettagli che assicurano rendite e prebende a questo o a quel gruppo di pressione, vengono approvate nottetempo, oppure d’estate. Ecco che allora, con perfetta coerenza, mentre l’Italia sbadiglia sotto l’ombrellone, tra un bagno e un ghiacciolo, poco più in là il gestore dello stabilimento ride sotto i baffi.

Come riporta Public Policy, un emendamento approvato in commissione Bilancio al Senato ha appena prorogato “le utilizzazioni delle aree di demanio marittimo per finalità diverse da quelle di cantieristica navale, pesca e acquacoltura, in essere al 31 dicembre 2013″. Una formula – come spesso accade – piuttosto oscura, ma che nasconde tra le sue pieghe un tema discusso fino alla noia, e che però resta più vivo che mai: quello delle concessioni balneari.

È una storia, dicevamo, che ha radici lontane. Il codice civile stabilisce che le spiagge appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico. Di conseguenza, per essere utilizzate a fini economici, gli stabilimenti devono essere assegnati tramite concessione demaniale. Cioè – mi perdoneranno i puristi – non possono essere acquistate da privati, ma solamente “prese in affitto”. Peccato che in Italia, per decenni, si sia andati avanti a rinnovare automaticamente le concessioni ai gestori, garantendo loro una rendita di posizione praticamente immutabile e così discriminando tutti coloro che avessero voluto competere con gli incumbent per la gestione dello stabilimento.

Una privatizzazione di fatto che non ha favorito i consumatori né lo Stato, ma viceversa ha soltanto accordato palesi rendite di posizione ai concessionari, impermeabili a qualunque procedura concorsuale competitiva che potesse far aumentare le entrate per lo Stato e migliorare i servizi per i cittadini, tramite migliorie e investimenti. Tale pratica non è solo antieconomica di per sé, ma è anche costata all’Italia una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea per contrarietà a quanto stabilito dalla cosiddetta Direttiva Bolkestein. Anche la Corte costituzionale, peraltro, ha dichiarato in più occasioni illegittime le norme regionali che prevedevano il diritto di proroga in favore del soggetto già possessore della concessione, in quanto contrastanti con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di diritto di stabilimento e di tutela della concorrenza.

La data di scadenza delle concessioni balneari era stata stabilita al 31 dicembre 2015. A quanto pare però, come ha riassunto perfettamente già nel 2012 Serena Sileoni, in un paper per l’Istituto Bruno Leoni, anche per quest’anno gli italiani non cambieranno, godendosi stessa spiaggia, stesso mare… E stesso concessionario.

Twitter: @glmannheimer

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Questo articolo è stato pubblicato originariamente su www.ilgiornale.it.

28
Lug
2015

Equo Canone: una vecchia legge contro la più banale logica del libero scambio—di Giovanni Caccavello

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Caccavello.

Il 27 Luglio 1978, l’allora «IV Governo Andreotti» approvava la Legge sull’Equo Canone (Legge 27/7/1978 N°392) al fine di disciplinare – tra gli altri – i contratti di locazione ad uso non abitativo.
Con l’introduzione di questa legge, il Governo regolamentava il rapporto tra il locatore ed il conduttore, bloccando la libera contrattazione tra le parti.

Oggi, a 37 anni di distanza dall’introduzione, dopo la crisi dell’edilizia degli anni ’80, un trend di stallo pluri-decennale nel settore delle locazioni private, una forte riduzione degli investimenti in costruzioni, un notevole incremento dei prezzi degli affitti e numerosi richiami alla liberalizzazione del settore delle locazioni ad uso commerciale, i contratti degli immobili urbani adibiti ad uso diverso rispetto a quello abitativo continuano ad essere regolamentati dalla «Legge sull’Equo Canone» e l’attuale Governo Renzi (in linea con il «modus operandi» assunto dagli esecutivi precedenti), ha semplicemente rimandato, per l’ennesima volta, l’abrogazione di questo bizzarro, vecchio e limitante ordinamento. Read More

28
Lug
2015

Uno Sherman Act per la scuola pubblica

Lo Sherman Act, da cui deriva la legislazione antitrust di tutto il mondo, fu adottato allo scopo di impedire la formazione di monopoli, da cui sarebbe potuto derivare un aumento dei prezzi, dannoso per i consumatori. Una definizione e dei criteri certi e verificabili per stabilire cosa distingua un monopolio da un business model efficiente (al netto di illeciti diversi), tuttavia, non esiste, nel diritto della concorrenza né altrove.

Primo e leggendario bersaglio dello Sherman Act fu la Standard Oil, che sul finire degli anni ’80 controllava buona parte della nascente industria petrolifera americana grazie, appunto, al sistema dei trust. E che per questa ragione, qualche anno più tardi, fu smembrata in 34 società distinte per garantire maggiore concorrenzialità al settore. Nel momento di maggior “potere di mercato” della Standard Oil, il prezzo del petrolio raffinato raggiunse il livello più basso della storia dell’industria petrolifera (e salì dopo la sentenza di smembramento). Difficile dire, quindi, quale fosse il danno subito dai consumatori dal suo monopolio. Ma non è questo il punto. Il punto è che, in teoria, le democrazie liberali ripudiano i monopoli soprattutto perché potrebbero falsare il mercato, generando servizi inefficienti e prezzi elevati.

Nei giochi, non c’è nulla di più odioso di chi stabilisce le regole e poi non le rispetta. Così nelle democrazie; eppure di monopoli che falsano il mercato, generando servizi inefficienti e prezzi elevati, nel settore pubblico ce n’è in abbondanza. Un caso emblematico è quello della scuola: certo, la riforma di Renzi sta muovendo un primo passo, correlando (almeno in linea di principio) la valutazione dei dirigenti scolastici a quella dei docenti e dei risultati degli istituti. Ma si può e si dovrà fare molto di più. Più di 50 miliardi delle nostre tasse vanno a finanziare ogni anno un sistema scolastico largamente inefficiente: lo suggerisce l’intuito, lo confermano i risultati. Probabilmente nella scuola bisognerebbe davvero investire di più (l’Italia è agli ultimi posti in Europa per spesa relativa alla formazione rispetto al Pil); sicuramente bisognerebbe investire decisamente meglio.

Chi sostiene lo status quo, oggi, è chi crede che l’alternativa sia la “privatizzazione” dell’istruzione. Ma è un’osservazione facilmente replicabile: sono passati ormai 60 anni da quando Milton Friedman ideava il sistema dei buoni-scuola, grazie al quale il finanziamento dell’istruzione passerebbe per le mani delle famiglie, invece che andare direttamente agli istituti. Mantenendo così l’impianto all’interno della sfera pubblica, ma al contempo premiando la scelta dei singoli e incentivando le scuole a migliorare la propria offerta.

Si potrebbe prendere spunto, in questo senso, dalle free schools americane e anglosassoni, come proposto di recente dall’Istituto Bruno Leoni. Il rischio insito nei monopoli, del resto, è che i prezzi pagati dai consumatori siano eccessivi rispetto al “vero” valore del bene o del servizio prodotto. Ma permettendo alle famiglie di selezionare gli istituti in cui mandare i propri figli, e stabilendo alcuni parametri di efficienza minima al di sotto dei quali gli istituti possano fallire, il giusto “prezzo” potrebbero deciderlo tutti, non più il solo Ministero dell’Istruzione. La democrazia rappresentativa è uno strumento utile, ma non deve contrastare col più elementare dei rasoi di Occam.

A ciò dovrebbe accompagnarsi una flessibilità radicalmente superiore nella scelta dell’offerta formativa da parte dei singoli istituti. Si può discutere sull’esistenza di un nucleo di nozioni e valori che lo Stato sia obbligato ad assicurare, ma al di fuori di questo perimetro dovrebbe essere concessa agli istituti la possibilità di stabilire autonomamente non solo il proprio personale, ma anche orari, modalità e soprattutto contenuti dell’offerta didattica. Lasciamo che domanda e offerta s’incontrino, anche sui programmi. Qualcuno smetterà di studiare Manzoni? Peggio per lui: se farlo è così importante, ne subirà le conseguenze e costringerà suo figlio a farlo. E le scuole che non lo insegneranno, o lo insegneranno male, falliranno.

Si dirà: ma le scuole non sono aziende. Falso. Come ha spiegato ottimamente Francesco Daveri, non solo la scuola è un’azienda (seppure non a scopo di lucro), ma l’output che produce è uno dei servizi più preziosi (e potenzialmente redditizi) che lo Stato offre ai suoi consociati. Per questo, a maggior ragione, i “consumatori” vanno protetti. Sul come si può discutere. Il modello dei buoni-scuola può essere un punto di partenza, ma se ne possono trovare certamente molti altri. Ciò che conta è trovare strategie che premino l’efficienza – non invece i gruppi di pressione… –  e rendano l’offerta concorrenziale.

Può darsi che la Standard Oil fosse un monopolio, qualunque cosa ciò significhi, ma era certamente un’impresa efficiente. La nostra istruzione no: ecco perché ci vorrebbe uno Sherman Act della scuola pubblica. E da qui la mia domanda, neanche troppo provocatoria: perché l’Agcm non dice la sua? Anche se non lo percepiamo, il Leviatano è un monopolista ben più potente e dannoso di qualunque Rockefeller.

Twitter: @glmannheimer

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Questo articolo è stato pubblicato originariamente su www.ilgiornale.it.

27
Lug
2015

Sciopero nei servizi pubblici: serve il sì del 51% dei lavoratori

L’Italia non era maglia nera europea negli scioperi, finché ha fornito dati comparabili. In questo silenzio dal 2009, pesa il fatto che nel frattempo abbiamo invece strappato il record degli scioperi nei servizi pubblici. Se consultate le tabelle regolarmente aggiornate ed elaborate dall’ETUI, l’European Trade Union Institute che essendo espressione della confederazione europea dei sindacati non è sospettabile di essere fonte “padronale”, troverete che negli anni 2000-2008 Francia, Spagna e Danimarca battevano l’Italia, con oltre 100 giorni di sciopero l’anno per mille dipendenti pubblici e privati rispetto a una media europea di 53, e l’Italia che da quota 300 del 2002 era scesa verso la media europea. Dal 2009, l’Italia svanisce nei dati comparati. Sappiamo che nel 2008-2013 la media europea è scesa fino a 32 giorni per mille dipendenti l’anno, e che la Francia è ancora in testa con il doppio di giornate perse rispetto alla media nel 2013. Ma il dato italiano non è comparabile ufficialmente, perché dal 2009 l’Italia non fornisce più i dati nella versione standard europea, e lo stesso istituto europeo sindacale se ne rammarica. Quel che però sappiamo, mettendo insieme le relazioni ufficiali nazionali delle diverse istituzioni che si occupano di scioperi nei servizi pubblici essenziali, è che in questo campo abbiamo un triste record. Nel 2014 sono state proclamati nei diversi servizi pubblici essenziali 2.084 scioperi. Con 17 scioperi generali nazionali, contro i 7 del 2013. Sono stati 331 gli scioperi proclamati nel solo trasporto pubblico locale, 182 nel trasporto aereo, 143 in quello ferroviario.

Che cosa fare? La risposta è nota, si tratta di farlo. Aggiornare radicalmente su un paio di punti essenziali la legge 146 del 1990, che continua a costituire la cornice legislativa di fondo in materia di garanzia del diritto di sciopero stesso, contemperandola con procedure di raffreddamento, mediazione, e dall’altra parte diritti dei cittadini. Come più volte abbiamo scritto, la legge rinvia in realtà a decine di atti autoregolatori per specifico settore e a intese aziendali in materia, come sempre avviene nel nostro ordinamento, in cui la politica ha deciso di non dare mai attuazione all’articolo 39 della Costituzione con una legge quadro su diritti e doveri dei sindacati. Come ormai è evidente, però, dalla quotidiana realtà dell’esperienza di grandi città italiane a cominciare da Roma, non è dalla sussidiarietà, cioè dal libero accordo tra sindacati e parti, che può venire la risposta normativa di garanzia sui due punti che vanno cambiati.

Prima però vediamo quali analogie e anomalie ci sono nel diritto di sciopero tra Italia e altri paesi. In Italia lo sciopero è un diritto attribuito direttamente ai lavoratori, non ai sindacati. Non è così altrove, in Germania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, dove è un diritto dei sindacati. Dalla differenza, discendono obblighi e procedure diverse: più facili a stabilirsi quando si tratta di un corpus di diritti-doveri delle organizzazioni, assai più scivolose come nel caso italiano, quando bisogna riferirsi alla collettività di lavoratori però intesi come individui.

Anche questo spiega la difformità dei divieti in Europa, in materia di sciopero. L’Italia per esempio consente lo sciopero “politico” – di qui gli scioperi generali e di categoria contro il governo – ma in realtà i paesi a consentirlo sono pochissimi, solo gli scandinavi (meno la Svezia però) e l’Irlanda. Il picchettaggio – solo verbale, cioè senza violenza – non è comunque consentito in Austria, Spagna, Svezia, Paesi baltici, Olanda e Polonia. Lo sciopero di solidarietà verso altri lavoratori o categorie è consentito in Italia, ma non in Olanda, Regno Unito, Lussemburgo e Lettonia. In teoria, è norma generale – tranne che in Francia, questo spiega la sua elevata quota di scioperi – il cosiddetto “principio di pace”, per il quale non si sciopera durante la vigenza di un contratto sottoscritto. Dovrebbe valere anche in Italia ma in realtà non vale per nulla, perché da noi gli scioperi li proclamano a raffica le organizzazioni sindacali – grandi in alcuni casi come la FIOM nel settore meccanico, o autonome piccole e piccolissime nei servizi pubblici locali – che le intese non le sottoscrivono. E il problema diventa allora quello delle sanzioni. In teoria, in nessun Paese Ue è consentito sostituire gli scioperanti – se lo sciopero è legale – con lavoratori i somministrazione: in realtà in Uk e Finlandia e in altri paesi dove non c’è risconoscimento costituzionale esplicito del diritto di sciopero è successo, con grandi contese legali. Molto diversa è la regolazione del preavviso: in Europa si va dalle sole 24 ore ai 14 giorni prima dell’inizio dell’azione.

In Germania, la libertà di diritto di sciopero è basata sulla giurisprudenza, non sulla Grundgesetz, l’equivalente della nostra Costituzione. Ma poiché lo sciopero è un diritto sindacale, può essere indetto solio dai sindacati che hanno il requisito numerico per poter sottoscrivere il contratto relativo. Si è appena modificata la norma nazionale che, per esempio nel trasporto ferroviario, limita il diritto a sottoscrivere il contratto a sindacati che abbiano la maggioranza assoluta degli iscritti. La protesta di un sindacato minoritario che non ha tali numeri ha portato al blocco del trasporto ferroviario nazionale per giorni e giorni. In Italia non sarebbe possibile, perché le norme di autoregolazione nei protocolli sottoscritti dai sindacati del trasporto ferroviario escludono esplicitamente sciopero protratti generali di quel tipo. Da noi deve essere garantita un’offerta minima di servizio per fasce, che cambia dal trasporto ferroviario nazionale a locale. Ecco perché i giornali tedeschi mentre Deutsche Bahn era ferma invidiavano l’Italia. Ma in Germania i sindacati sono anche responsabili direttamente in caso di scioperi che fossero giudicati illegali, e in quel caso devono pagare i danni: molto più salati dei 320 mila euro irrogati l’anno scorso in totale alla nostra asfittica Autorità Garante del diritto di sciopero…

In Francia il diritto di sciopero nel pubblico impiego è garantito da una legge ad hoc del 1963, mentre quello nel settore privato si basa su casistica giurisprudenziale. Ciò spiega la bassissima sindacalizzazione del settore privato Oltralpe, e quella invece altissima nel settore pubblico. Il “favore” francese verso i dipendenti pubblici non ha posto in legge garanzie ai cittadini e a chi usufruisce dei servizi pubblici- come accade nel caso italiano sia pur in fonti normative di livello inferiore come i codici di autoregolamentazione e le intsese aziendali. Il governo francese ha “facoltà” di opporre dei limiti agli scioperi pubblici ma caso per caso con propri decreti: e naturalmente quando le piazze si riempiono per i governi diventa difficile farlo, e questo spiega gli scioperi pubblici a oltranza oltralpe al sostegno delle sinistre che, in Italia, almeno in quelle forme non sarebbero possibili.

Qual è allora il problema Italiano? Dal punto di vista dei requisiti minimi dei servizi da offrire in caso di sciopero legale, in realtà nei sevizi pubblici siamo più tutelati in Italia che in Germania e Francia. Da noi il problema, riguarda i criteri attraverso i quali si fissa la rappresentanza dei sindacati nel settore pubblico, e le procedure attraverso le quali indire gli scioperi.

Quanto alla rappresentanza, nel settore privato Confindustria insieme a Cgil, Cisl e Uil, hanno firmato a gennaio 2014, dopo 3 anni di confronto, un protocollo interconfederale che fissa con precisione le soglie sopra le quali ci si siede ai tavoli contrattuali nazionali e aziendali, si firmano accordi che a quel punto sono validi ed esigibili erga omnes, e si ha diritto a godere dei diritti sindacali. E’ un meccanismo di cui siamo all’inizio della fase attuativa, perché spetta all’INPS procedere alla verifica della rappresentanza sindacale, controllando sia gli iscritti dichiarati sia i voti raccolti nelle rappresentanze unitarie aziendali, votate dai lavoratori. Si prevede che gli accordi siano validi a seconda che siano approvati dalle rappresentante aziendali dove sono solo i delegati sindacali, e dove a quel punto basta la maggioranza delle sigle più rappresentative, o se invece approvati dalle RSU serve anche la maggioranza dei voti dei lavoratori. E’ al settore pubblico che va esteso questo meccanismo, raffinandolo per le specifiche di settore.

Quanto alle procedure per proclamare lo sciopero, va introdotto un criterio che oggi vige in 17 paesi su 28 europei: cioè il voto dei lavoratori. Certo, non c’è in Francia né Spagna, ma c’è in Danimarca, Germania, Olanda, Portogallo, Regno Unito, in tutti i paesi est europei e baltici. Solo fissando il criterio – nei servizi pubblici – di un voto preventivo favorevole del 51% dei lavoratori, e non dei delegati che rappresentano la maggioranza sindacale – verremo a capo di situazioni impazzite come quella dell’ATAC a Roma, dove a bloccare la Capitale sono le 9 sigle su 13  che non firmano a differenza dei confederali il nuovo piano industriale, per poi fare propaganda scioperante a spese dei cittadini e dell’economia nazionale ( in questo, hanno ragione i sindacati confederali che protestano contro Renzi che non puntualizza la responsabilità del sindacalismo autonomo). E per chi non rispetta le regole, sanzioni in solido pesantissime. Il governo Renzi promette da inizio anno di muoversi in tale direzione. Vedere per credere, nel frattempo italiani e turisti continuano a subire danni intollerabili.

27
Lug
2015

Braccianti sfruttati e rivoluzione verde—di Massimo Del Papa

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimo Del Papa.

“Oportet ut scandala eveniant”, per dire, alla latina, meglio che le cose si sappiano per quanto sgradevoli, almeno possiamo vederle per quelle che sono e tentare un rimedio. Non c’è dubbio che la situazione dei braccianti abusivi, vale a dire sfruttati, in Puglia come in qualsiasi altra campagna di qualsiasi latitudine, sia scandalosa, e non c’è dubbio che i servizi giornalistici siano necessari a gridare la condizione di schiavitù, di impossibile sopportazione alla quale i più poveri tra i poveri vengono costretti, fino a stroncarsi sotto al sole. Però anche la indignazione deve tenere conto di una coerenza, e, in particolare, della provenienza: se a denunciare la brutalità del sistema sono i nostalgici dello stato di natura, i fan(atici) di Vandana Shiva che equipara la ricerca sugli OGM alla licenza di stupro, i danarosi snob che vorrebbero reintrodurre la coltivazione “naturale”, niente trattori, solo bestie e uomini da stroncare sotto al sole (come faceva vedere un servizio agiografico, ma demenziale, del Tg2 Rai), allora non ci siamo. Tutti questi rettopensanti nutrono la fandonia della natura naturale, di nostalgie collettiviste, in odio al capitalismo, alla ricerca, all’industria e, in definitiva, alla scienza: bene, le condizioni che tutti questi rimpiangono è precisamente quella degli immigrati schiavizzati in Puglia e ovunque. Read More

24
Lug
2015

ILVA: la lotta tra poteri di Stato sinora ha bruciato 20 miliardi

I 47 rinvii a giudizio per la vicenda ILVA, cominciata nel luglio 2012, non sono solo il primo passo formale di un maxi-processo ormai atteso. Sono in realtà una sconfitta per lo Stato. Perché l’ILVA ormai da tempo è un’azienda tornata di Stato, espropriata ai suoi proprietari senza indennizzo ben prima di un rinvio a giudizio. E siccome l’azienda è di Stato, e i magistrati sono un organo dello Stato, allora il risultato di tre anni in cui lo Stato ha deciso di trattare l‘ILVA come un banco di prova della deindustrializzazione per via giudiziaria è solo una sconfitta dello Stato.

Di questi tempi, dall’ILVA a Fincantieri ad altri casi, i magistrati ripetono che non spetta a loro occuparsi delle conseguenze economiche dei loro atti. Fiat iustitia, pereat mundus. Con l’ILVA espropriata e atterrata, poiché da cinque altoforni il rischio oggi è che ne resti a malapena in attività uno, il mondo finito è quello di un campione della siderurgia europea. Oltre tre milioni di tonnellate di acciaio l’anno in meno – il frutto della tenace azione dei magistrati, contro ogni tentativo di ogni governo di continuare nella produzione, distinguendo indagini da paralisi produttiva – significano non solo la fine del campione europeo, quando era gestito dai Riva. Significa un aumento netto del 32% nel primo semestre 2015 delle importazioni d’acciaio dai paesi extra europei cioè dai giganti asiatici, e del 50% da quando la vicenda giudiziaria è cominciata. Nel solo comparto dei laminati piani, ormai importiamo dall’Asia al ritmo di 4 milioni di tonnellate l’anno, prima degli interventi dei magistrati la quota era del 75% inferiore. Chiunque abbia a che fare con la siderurgia sa che per la manifattura italiana ed europea comprare dall’ILVA è diventata una scommessa, perché dipende dai giudici se tra tre settimane garantirà 6 mila tonnellate di ghisa al giorno o 8mila, visto che i magistrati hanno in corso un altro sequestro al penultimo altoforno attivo.

Molti, oggi, daranno spazio al rinvio a giudizio di Vendola. La destra gongolerà, i titoli saranno su di lui. Nel dibattimento si accerteranno le sue responsabilità. Ma i titoli cubitali dovrebbero essere riservati al danno economico nazionale: per almeno 1,5 punti di PIL – sissignore, oltre 20 miliardi di euro- che sin qui l’economia italiana mette a segno tra diminuzione della produzione e dell’export, aggravio della bilancia commerciale, meno occupati, meno tasse incassate, miliardi di valore bruciato negli impianti ( che da 3 anni, a gestione commissariale, non sono più in grado di produrre un bilancio degno di questo nome, l’ultimo è quello approvato dai Riva..), e perdita ieri oggi e domani dei clienti in Italia ed Europa.

Un disastro assoluto. Che non ha precedenti in Europa. Dove pure, per esempio in Germania e Polonia, esistono eccome impianti simili all’ILVA, nelle vicinanze dei centri abitati. Ma da nessuna parte sono stati sequestrati e bloccati dalla magistratura. Come in nessun altro paese i giudici hanno bloccato conti delle imprese e patrimoni dei soci, materie prime e prodotti finiti, aree di stoccaggio e parchi minerari. Né si sono sognati di decretare lo stop della lavorazione a ciclo continuo.

Possiamo credere che siamo improvvisamente diventati lo Stato europeo e nell’area OCSE più ferreamente intransigente in materia di rispetto dei vincoli ambientali. O piuttosto è uno Stato incapace di far rispettare in precedenza ragionevoli vincoli ambientali, che diventa poi feroce persecutore non di reati compiuti da manager, soci e regolatori pubblici– ottima cosa – ma dell’idea stessa che possa esistere un impianto tanto importante, che è cosa del tutto diversa? Uno Stato incapace prima, e punitivo ed espropriatore poi, disse due anni fa Gianfelice Rocca al suo esordio come presidente di Assolombarda: aveva ragione. Ed è andata ancor peggio.

La politica ci ha provato, diamogliene atto, a limitare i danni. A distinguere tra giuste prerogative della magistratura nel perseguire ipotesi di reato, e necessità della continuità produttiva del sito. Era il 26 luglio 2012, quando Emilio e Nicola Riva e 6 dirigenti dell’ILVA di Taranto furono arrestati. A ottobre, il governo Monti rilasciò una nuova e più accurata Autorizzazione Integrata Ambientale, perché le emissioni e le polveri a Taranto fossero messe in regola con opportuni investimenti. Era novembre, quanto i magistrati tarantini disposero altri arresti. A dicembre il governo Monti intervenne con un decreto ad hoc, la legge 231 del 2012 che venne chiamata “salva-Ilva”, perché nasceva proprio dalla necessità di non interrompere la continuità dell’acciaeria di Taranto, per effetto dei sequestri degli impianti disposti dai magistrati. Ma i magistrati la considerarono incostituzionale. E la Corte costituzionale invece la confermò, nell’aprile 2013. A maggio, contro il parere della Procura, il Riesame dissequestrò i semilavorati e le materie prime dell’acciaeria, garantendole l’operatività, sia pure ridotta a meno della metà. Una settimana dopo, la Procura sequestra ad Adriano ed Emilio Riva 1,2 miliardi. Due giorni dopo, i magistrati dispongono il sequestro di ben 8,1 miliardi di euro, intervenendo su tutto il perimetro delle società controllate in Italia dalla holding, non sull’acciaeria di Taranto.

E nel frattempo il governo Letta interviene il 4 giugno 2013 con un altro decreto. Ma è costretto ad arrendersi. Si stabiliscono, come vuole la magistratura, norme di commissariamento per tutte le eventuali imprese sopra i 200 dipendenti la cui attività produttiva comporti pericoli per ambiente e salute. Il commissariamento pubblico può così sostituirsi agli organi di amministrazione, con contestuale sospensione dell’assemblea dei soci. E assumere su di sé, tramite un commissario, tutti i poteri e le funzioni per un massimo di ben 3 anni, senza rispondere di eventuali diseconomie. Col governo Renzi, la politica tenta di nuovo interventi per garantire la continuità della produzione. Ma i magistrati Impugnano di nuovo alla Corte costituzionale, reiterando malgrado il decreto la chiusura del penultimo altoforno rimasto in funzione.

Perde la faccia lo Stato, perdono i lavoratori, perde l’Italia, perdiamo tutti. Ci si dimentica che l’ILVA a Tarato è stata decisa e realizzata così com’è dallo Stato, non dai privati subentrati quando lo Stato perdeva nell’acciaio pubblico cifre pazzesche. La FINSIDER, che realizzò l’attuale ILVA di Taranto, bruciò in perdite oltre 20mila miliardi di lire nei soli 15 anni pre-privatizzazione. Ma nei 15 anni di proprietà privata, a fronte dei decenni di quella pubblica, gli investimenti in protezione ambientale furono una quota importante degli investimenti totali, e furono superiori agli utili riservati ai soci: queste sono cifre ufficiali, che si leggono nei bilanci privati, mentre i commissari pubblici di bilanci non ne producono.

Si dirà: meglio uno Sato vendicatore di salute e ambiente piuttosto che imbelle. Con tutto il rispetto: è una sciocchezza. Lavoro e ambiente sono due beni fondamentali e costituzionali, quindi necessariamente bilanciati tra loro; bilanciati anche nel diritto fallimentare, là dove si tratta di mantenere la continuità aziendale. Dopo che per oltre mezzo secolo si sono protratti consumo di ambiente e produzione di lavoro, i problemi che sorgono sono collettivi, riguardano l’intera comunità, e vanno risolti con il coinvolgimento di tutti, autorità locali, poteri centrali e proprietà . Espropriata e ripubblicizzata, dell’ILVA doveva occuparsene il parlamento, per la sua eccezionale importanza sull’economia nazionale. Averla ridotta al solo maxi processo dopo averla messa in ginocchio, aver eliminato dal panorama mondiale il secondo gruppo siderurgico in Europa e l’undicesimo planetario – tale era il gruppo Riva – è solo la prova di un paese inconsapevole di come, nella lotta tra suoi poteri pubblici, accelera il suo declino.