19
Mag
2013

L’ottusità fiscale accelera la corsa del debito

Quanto hanno compreso i capi di governo europei delle questioni relative alla sostenibilità dei debiti pubblici? Temo molto poco, dovendo constatare come un rigore fiscale solo apparente, imposto per rendere più sostenibili gli alti debiti pubblici di alcuni paesi,  finisca in realtà con l’accelerare la crescita del rapporto debito/Pil e dunque per renderli meno sostenibili. Si dovrebbe allora più correttamente parlare di ottusità fiscale, anziché di rigore fiscale.

Quando nel 1992 fu sottoscritto il trattato di Maastricht si utilizzarono due parametri di finanza pubblica:

  1. Il rapporto debito/Pil, che non avrebbe dovuto superare il 60%;
  2. Il rapporto deficit/Pil che non avrebbe dovuto superare il 3%.

Dei due obiettivi quello più importante è indubbiamente il primo, poiché è da esso che si traggono valutazioni circa i rischi sulla sostenibilità del debito: un valore elevato e crescente nel tempo è segnale di pericolo così come un valore rapidamente crescente anche se non elevato in partenza. Tuttavia esso è un obiettivo di breve periodo, non ottenibile in pochi anni se si parte da valori elevati. Per conseguirlo è necessario tenere la nave su una rotta coerente che veniva indicata dal trattato nel rapporto deficit/Pil non superiore al 3%.

Purtroppo la rotta è coerente con la meta e permette di conseguirla solo a determinate condizioni delle sottostanti correnti economiche, la crescita annua del Pil nominale. Infatti il rapporto debito/Pil viene accresciuto ogni anno per l’effetto dell’aumento dello stock di debito che sta al numeratore e viene attenuato per l’effetto dell’incremento del Pil nominale che sta al denominatore. L’incremento annuo del debito è il disavanzo pubblico (assumiamo per semplificare che debito netto=debito lordo e indebitamento=fabbisogno). La variazione annua del rapporto debito/Pil è data dal rapporto deficit/Pil meno il tasso di crescita del Pil nominale moltiplicato per il rapporto tra debito e Pil.

Il parametro deficit/Pil riguarda dunque uno solo dei fattori che determinano la variazione del rapporto debito/Pil. Il secondo fattore, trascurato già nel trattato di Maastricht, è il tasso di  crescita del Pil nominale il quale reca beneficio tanto maggiore al rapporto debito/Pil quanto più alto è tale valore. Per fare un esempio: una crescita nominale del 3% riduce il rapporto debito/pil di 3,5 punti percentuali se esso è al 120% e di 1,75 punti se è al 60%.  La crescita economica è in conseguenza ancora più importante per la sostenibilità dei debiti dei paesi a più alto rapporto debito/Pil.  Purtroppo il trattato di Maastricht metteva già in partenza a disposizione dei governi occhiali sfocati che privilegiavano l’osservazione dei saldi di finanza pubblica a danno della crescita.

Col fiscal compact gli occhiali sfuocati sono stati sostituiti da fondi di bottiglia. Infatti l’obiettivo del disavanzo entro il 3% che riguardava il numeratore è stato sostituito dall’obiettivo del pareggio di bilancio, trascurando che se in condizioni economiche normali i costi ‘recessivi’ del ricondurre il disavanzo al 3% possono essere trascurati in quanto inesistenti o irrilevanti, non altrettanto può dirsi per economie in recessione o reduci da recessioni. Se dunque, dopo non aver fatto spesso rispettare l’obiettivo del 3% a economie in condizioni normali, si impone il pareggio a economie in recessione dovremmo parlare di eutanasia economica o di suicidio economico assistito. Il freno brusco imposto al numeratore del rapporto ha per effetto il cedimento del denominatore, con la conseguenza di un mancato contributo della crescita del Pil nominale al contenimento del rapporto debito/Pil ben maggiore del vantaggio ottenibile col contenimento del disavanzo.

Il rigore che riduce il disavanzo/Pil ma accelera la crescita del debito/Pil, allontanando gli obiettivi di sostenibilità, non si può chiamare rigore. Si deve chiamare ottusità.

Vediamo allora come l’ottusità fiscale, imposta dall’UE ma accettata dai nostri due penultimi governi, ha operato in questi anni in Italia:

  1. Nel 2010, primo anno dopo la recessione, il disavanzo pubblico è stato ancora consistente e pari al 4,5% del Pil; tuttavia una crescita del Pil nominale pari al 2,1% ha contribuito ad attenuare il rapporto debito/Pil per 2,4 punti percentuali determinandone un incremento totale pari a 2,1 punti (4,5 meno 2,4).
  2. Nel 2011 il disavanzo pubblico è stato ridotto al 3,8% del Pil; tuttavia una crescita del Pil nominale pari all’1,7% ha contribuito ad attenuare il rapporto debito/Pil per 2,0 punti percentuali determinandone un incremento totale pari a 1,8 punti (3,8 meno 2,0).
  3. Nel 2012, dopo le maximanovre del secondo semestre 2011, il disavanzo pubblico è stato ulteriormente ridotto al 3,0% del Pil; tuttavia il Pil ha avuto una crescita negativa anche in termini nominali, pari al -0,8%, che ha contribuito ad incrementare il rapporto debito/Pil di un punto percentuale aggiuntivo  per un incremento totale pari a 4,0 punti (3,0 di disavanzo/pil più 1,0 per riduzione Pil nominale). L’effetto è stato in conseguenza un incremento nel rapporto debito/Pil doppio rispetto ai due anni precedenti nei quali invece il disavanzo pubblico era risultato più consistente.
  4. Nel 2013 il disavanzo pubblico è previsto costante (al 2,9% del Pil, da noi arrotondato a 3 punti); invece il Pil avendo già acquisito un calo reale dell’1,5% probabilmente resterà fermo in termini  nominali. L’effetto complessivo dei due fattori sarà in conseguenza un aumento nel rapporto debito/Pil di altri 3 punti, per un totale di 7 punti nel biennio 2012-13 contro 3,9 punti nel biennio precedente.

Si ha in tal modo una misura dell’ottusità fiscale italocomunitaria: la tripla manovra di finanza pubblica del secondo semestre 2011, i cui effetti sono stati stimati in 4,7 punti di Pil al 2013, permette nel biennio un  miglioramento complessivo di soli 0,8-0,9 punti nel rapporto deficit/Pil (contro 1,7 punti nel biennio precedente) e porta ad un incremento complessivo di 7 punti nel rapporto debito/Pil, contro i 3,9 realizzati nel biennio precedente.

Contributi alla crescita annua del rapporto Debito/Pil (punti %)

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9 Responses

  1. Alberto Lusiani

    Il rigore all’italiana deprime la crescita economica perche’ si e’ esplicato con un’aumento delle tasse e dell’oppressione fiscale mantenendo livelli eccessivi di invasione dello Stato nell’economia privata, mantenendo la disfunzionalita’ dello Stato nelle sue funzioni primarie come la giustizia civile, che rimane ai livelli del Kossovo, mantenendo remunerazioni ai politici e ai vertici della dirigenza statale che sono patologicamente elevate secondo il confronto internazionale, mantenendo una spesa pubblica che privilegia dipendenti pubblici e interessi organizzati invece che aiuto a chi e’ veramente svantaggiato.
    Se il rigore fosse stato concentrato sulla riduzione dei compensi eccessivi a politici e dirigenti statali, e alla riduzione della spesa pubblica improduttiva utilizzata per comperare consenso di clientele e interessi organizzati, ci sarebbe stata con ogni probabilita’ migliore crescita economica come si puo’ misurare in molti stati nord-europei con minore oppressione fiscale, minori costi della politica, minore invasivita’ dello Stato nell’economia fiscale, molto migliore giustizia civile, minori deficit statali, maggiore crescita economica.
    Il problema non e’ il rigore, quello e’ necessario per evitare la bancarotta disordinata che incombe (bancarotta cui lo Stato italiano e’ comunque destinato senza drastiche riforme), il problema e’ riformare lo Stato – mantenendo il rigore nei conti – per farlo funzionare meglio e con minori costi. Se invece il rigore viene usato per spremere il settore privato per mantenere uno Stato disfunzionale e costoso allora otteniamo l’impoverimento degli ultimi anni.

  2. Mauro

    Bastava conoscere un po’ di matematica, ecco tutto. Anche i bambini delle elementari conoscono il numeratore e denominatore. Non capisco come abbiano fatto i nostri politici a dimenticare quel denominatore così importante.

  3. jan sawicki

    Di grande interesse. C’è però un salto logico, nel senso di passaggi saltati in quanto verosimilmente dati per impliciti dall’autore, ma che non sono di immediata intuizione e richiederebbero di essere espressi.
    In particolare, questo metodo di individuazione della sostenibilità del debito, che – a differenza di Maastricht e Fiscal compact – ricomprende anche il tasso di crescita nominale del Pil, possiede probabilmente un tasso di realismo potente e rivoluzionario rispetto alla situazione data; ma non tiene conto di un fatto, cioè che il tasso di crescita del Pil, diciamo x, per rendere sostenibile il debito, viene valutato in termini appunto nominali; mentre il calcolo del Pil anno per anno, fondamentale per determinare le variazioni del rapporto debito/Pil, anche da chi utilizza questo schema, a quanto io ne sappia, viene sempre effettuato in termini reali, cioè depurato dell’inflazione. Come si fa a sincronizzare nel tempo l’evoluzione di due grandezze diverse? Certo, se ex post i dati consolidati confermano quanto ex ante si era previsto, cosa rarissima nella scienza economica, non è un’acquisizione da poco.

  4. jan sawicki

    In ogni caso, se questo tipo di analisi dei grandi aggregati macroeconomici e della loro prevedibile evoluzione troverà conferme e si consoliderà nel mondo scientifico, esso avrà conseguenze rivoluzionarie nel senso: a) di rimescolare le scuole di pensiero economiche, presso le quali, soprattutto nella vulgata che viene diffusa, mi pare troppo rigido l’abbinamento ‘rigoristi’-neoliberali o liberisti vs antirigoristi-keynesiani socialdemocratici di varia fattura. Questo abbinamento mi pare sempre più artificioso, poiché sono sempre più convinto che si può ben essere liberali economici e al tempo stesso rivoltarsi contro l’imposizione di un rigore cieco senza per questo predicare esplosioni di spesa pubblica il cui ritorno in termini di reddito è del tutto aleatorio. b) di imporre gradualmente delle modifiche ai parametri che sono imposti ai più alti livelli di normazione, nazionale e in subordine nazionale. Qui si aprirebbe un capitolo a parte, che implica il peso delle decisioni e in particolare degli (auto)vincoli normativi sulle conseguenze economiche che da quelli sono determinate ma che contribuiscono anche a codeterminare, e in particolare il differenziale aggiuntivo di prezzo che le collettività sono chiamate dai mercati finanziari a pagare non in sé per l’incapacità delle decisioni collettive di adattarsi a ciò che impongono i mercati, ma proprio per l’incapacità delle stesse autorità politiche di rispettare i vincoli che si sono autoimposte.

  5. SPARTACO

    Ottimo articolo. Dopo tanta tiritera (ideologica) pro-austerità un passo nella giusta direzione. Occorre però un passo ulteriore; riconoscere che una politica economica interventista -nel mezzo di una recessione- è fondamentale x riavviare il motore della crescita. Keynes non è Belzebù.

  6. Francesco_P

    @SPARTACO

    Il problema del super debito italiano e dei problemi che affliggono tutti i Paesi europei non è la mancanza di politiche espansive, bensì la “spesa pubblica spazzatura” e l’eccesso di burocrazia.

    La dilatazione della spesa pubblica non risolve i nodi di fondo di un’europa in mano a burosauri fuori dal mondo e neppure quello dei “cavillocrati” e degli “stregoni” che imperano in Italia. Invocare più spesa pubblica, più tasse, o entrambe le cose – come fa la sinistra – ha come conseguenza quella di aggravare la situazione. I fautori della burocrazia e della “spesa pubblica spazzatura” trovano giustificazione in Keynes per dilatare il debito, proprio mentre fanno ricorso al cosiddetto “rigore” per giustificare l’aumento delle tasse.

    Comunque, io sono per il rigore; quello vero, vale a dire tagliare drasticamente i burocrati e la spesa pubblica.

  7. Lorenzo

    La spesa pubblica e’ aumentata di pochi decimali nell’ultimo anno, dunque non si capisce bene di quale rigore si parli.

    Peraltro l’Europa al massimo costringe a far quadrare i conti.

    Si possono anche semplicemente limitare i costi, invece che insistere col dover guadagnare/investire di piu’

  8. alberto

    Caro professore, debbo studiare bene il suo articolo per imprimerlo nella mia memoria, al fine di acquisire l’ automatismo nelle definizioni dei parametri in esso contenuti; complimenti, per la chiarezza e per la semplicità con cui ci illustra queste cose. Non vorrei crearle dei problemi, ma noto con piacere, dal suo curriculum, che non ha avuto mai nulla a che fare con l’ Università Bocconi. Mi fa piacere che lei scriva qui e che dia un esempio di aderenza alla realtà dei fatti che c accadono.

  9. Stefano

    ….se il paziente arriva all’ospedale con un infarto in atto la misura della febbre è l’ultimo dei problemi, anche se tenere controllata la temperatura “normalmente” è un indice dello stato di salute della persona.
    … che poi sia 36,7 o 37 o 37,5 il valore soglia oltre il quale iniziare a preoccuparsi dipende da paziente a paziente (e da medico a medico), anzi, è importante il valore assoluto, ma in una situazione patologica è quasi più importante il trend.

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