23
Feb
2015

Lo scontro a sinistra sul Jobs Act, una questione marxiana

Il Jobs Act non è affatto perfetto. Ma le obiezioni ragionevoli – cioè quelle “non” ideologiche – riguardano per esempio l’opacità che ancora pesa sulle politiche attive del lavoro e sulla nuova Agenzia Nazionale per intermediare domanda e offerta di occupazione: perché finché non sarà chiaro come sarà e come funzionerà potrebbe rivelarsi un azzardo i 24 e poi 18 mesi del nuovo strumento di sostegno al reddito per i disoccupati involontari (anch’esso esteso per la prima volta, sia pur in forma ridotta, anche ai precari). Senza politiche attive di “svolta” – quelle per cui spendiamo 5 volte meno rispetto alle politiche passive nel bilancio pubblico, quasi solo per stipendiare chi vi è addetto e con risultati pessimi che testimoniano l’incapacità della PA di “capire” il mercato — la maggior flessibilità sui licenziamenti e il nuovo strumento di sostegno al reddito per i disoccupati involontari sono solo metà di quel che serve: NON affrontano infatti la rioccupabilità, che serve dannatamente per innalzare la partecipazione al mercato del lavoro in un paese a tre milioni e mezzo di disoccupati. Altre obiezioni fondamentali investono il limite delle nuove norme, che cambiano il lavoro privato ma non quello pubblico. E sarebbe stato decisamente meglio estendere la riforma a tutti i lavoratori privati di qualunque anzianità, invece di aprire un’asimmetria tra vecchie tutele e nuove che durerà decenni, e creerà inevitabilmente problemi rilevanti alle imprese. E ancora: troppo poco si fa ancora – per i diritti nel welfare– a favore del lavoro autonomo, dimenticato dal bonus 80 euro e graziato, dopo gravi errori  del governo, facendo retromarcia precipitosa sul massacro che era stato deliberato del regime dei minimi e con l’aumento di contribuzione alla Gestione Separata INPS.

Ma non è su questo – tranne che da pochissimi come ADAPT di Michele Tiraboschi – che viene attaccato il Jobs Act. Una beffa per la sinistra e per i gruppi parlamentari Pd. Un’opera di macelleria sociale. Un favore a Confindustria.  Un colossale furto di diritti. Così vengono bollati i primi decreti attuativi del Jobs Act non solo dalle forze dell’opposizione a cominciare dai pentastellati, ma dalla minoranza Pd e dai sindacati (la Cgil, ma pure Uil e Cisl).  La somma di un atto autocratico, e di una completa abiura alle idee fondanti della sinistra. C’è chi pensa per reazione a una legge di iniziativa popolare, chi già parla di referendum. Landini vuole farne motivo di impegno politico diretto. Si è aggiunta al coro anche la presidente della Camera Boldrini, che ha parlato di “un giorno non storico”, perché il parlamento è stato umiliato e in ogni caso il lavoro bisogna crearlo, non si fa riformandone le regole.

Com’è evidente, non sono critiche che si possano facilmente respingere con argomenti fattuali. Perché è l’ideologia a ispirarle. E usiamo questo termine senza alcuna sottovalutazione: l’ideologia è fondamentale in politica. Un liberale aggiunge: purtroppo. Ma si sa, qui non stiamo parlando di un campo che faccia riferimento al liberalismo.

Mettiamola nel modo storicamente più corretto. A ispirare la repulsione non è il Jobs Act in quanto tale, ma l’aver modificato uno dei totem della sinistra e del sindacato nel dopoguerra: l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le tutele al licenziamento. E’ questo il motivo, per cui nessuno mai era riuscito a sfiorare l’argomento senza incorrere in roventi anatemi (per prima la Fornero, che diede la prima energica spinta e dovette parecchio rivederla in parlamento).

Un classico delle citazioni marxiste sul lavoro è tratto dai Manoscritti economico-filosofici del 1844: “ Il lavoro produce sicuramente meraviglie per i ricchi, ma spoglia l’operaio. Produce palazzi, ma antri per l’operaio.. respinge una parte dei lavoratori a occupazioni barbariche, e riduce a macchine l’altra parte”. Centosettant’anni di ideologie antagoniste del lavoro hanno continuato – nell’evoluzione dei tempi, dei modi di produrre, del welfare affermatosi e divenuto poi Stato dilapidatore – a ispirarsi a tale tesi. Sindacato e sinistra lottavano perciò per regole “rigide” a tutela del lavoro e dei lavoratori: servivano a ingabbiare la propensione all’incanaglimento considerata istintivamente connaturata agli imprenditori, all’economia di mercato. Senza rendersi conto di sommare due errori. Il primo è quello “antropologico”, per così dire, sulla disumanità di mercato e imprenditori. Il secondo è reso più grave dalla globalizzazione: in un mondo di capitali liberi, un lavoro “rigidamente vincolato” perde. Diventa obbligato – nei paesi avanzati ad alti costi – a deflazionare. La risposta illusoria della sinistra è: teniamo vincolato il lavoro e vincoliamo anche i capitali. La risposta giusta è: come son o liberi i capitali, deve essere libero anche il lavoro.

Un anno fa, nel suo commento alla riedizione di Destra e Sinistra di Norberto Bobbio, Matteo Renzi scrisse con chiarezza come la pensava. A quell’impostazione ne preferiva un’altra. Va bene considerare ancora fondamentale per la sinistra l’eguaglianza – “ma non l’egualitarismo”, chiosava – ma le categorie per descrivere sinistra e destra per lui erano altre: “innovazione/conservazione, movimento/stagnazione”.

Discutibile quanto volete ma, venendo al lavoro, che cosa deve rappresentare una priorità – in generale, ma innanzitutto per la sinistra – in un paese nelle condizioni dell’Italia? Con tre milioni e mezzo di disoccupati e uno sterminio di inoccupati giovani, difendere le tutele-rigidità di chi un lavoro a tempo indeterminato ce l’ha, o aprire alla flessibilità che consentirà più facilmente un lavoro a chi non ce l’ha, e di miglioralo a chi – i giovani – finora dal dualismo delle tutele sono stati costretti al precariato di massa? E’ questa, la questione fondamentale a sinistra. I dissidenti di sinistra di Renzi e il sindacato ripetono quel che hanno sempre pensato: bisogna estendere a tutti la rigidità delle tutele del tempo indeterminato anche a chi non ce l’ha. Al costo di rendere sempre più onerosi e – alla lunga – illegali ogni altro tipo di contratto. Alla fine le imprese avrebbero dovuto capire: o tutele rigide e tempo indeterminato per tutti, o niente.

Come tutte le impostazioni rigide, non è una posizione che ammetta alternative. E’ fondata sul disconoscimento che, in un Paese ad alto cuneo fiscale e altissime tasse, e in un mondo in cui le imprese devono essere in condizione di riorganizzarsi continuativamente per rispondere ad andamenti della domanda interna e internazionale sempre più erratici, i contratti a tempo servano davvero e non siano figli della malvagità dell’imprenditore.

Per questo disconosce che i licenziamenti economici – quelli che servono alle ristrutturazioni – siano soggetti solo a indennizzi. Per questo ha tentato in parlamento di stoppare che la nuova disciplina valesse anche per il più dei licenziamenti economici, non quelli individuali ma quelli che passano per le contrattazioni e procedure collettive. Per questo s’inalbera al fatto che dei contratti a tempo cesseranno essenzialmente solo i co.co.pro, mentre tutti gli altri resteranno col vincolo dei 36 mesi entro il massimo dei rinnovi legittimi.  Né l’obiezione può placarsi di fronte ai nuovi diritti estesi su materie come il congedo di maternità quello parentale, la sua estensione anche a lavoratori autonomi e precari,  il part time aperto finalmente a chi ha patologie gravi.

Ripeto: il Jobs Act non è perfetto, e manca sinora della svolta per la rioccupabilità. Ma Renzi sapeva benissimo che, toccando in profondità l’articolo 18, accendeva le polveri di uno scontro all’ultimo sangue. Per i suoi oppositori di sinistra fuori e dentro il Pd e per il sindacato, perdere questa battaglia comporta un obbligo a cambiare dalle fondamenta impostazione. O a diventare ancor più nostalgici di un passato che ai loro occhi non passa. Sarà, questo, un pezzo fondamentale della sfida elettorale di Renzi, quando mai andremo alle urne: convincere l’elettorato tradizionale della sinistra a riconoscersi nella sua nuova impostazione, nel mentre adottandola prova a convincere fasce smarrite di elettorato moderato. I liberali, purtroppo, possono solo commentare sugli spalti.

 

 

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3 Responses

  1. Filippo

    Questo articolo mi trova abbastanza d’accordo,è verp che è necessario dare una scossa ad un sistema ingessato da ormai troppo tempo,però secondo me questo jobs act non è la cura di tutti i mali o di alcuni di essi.Sostanzialmente eliminare il contratto di lavoro a tempo indeterminato e sopratutto le pastoie legali finanziare legate alla sua risoluzione quando a decidere di farlo è l’imprenditore posso anche ritenerlo positivo,però mi chiedo allora perchè non estenderlo a tutti i lavoratori sic et simpliciter invece di creare un’ennesima divisione tra chi in passato ha avuto questo contratto e chi da ora in poi nella sostanza non l’avrà più.
    Inoltre mi permetto personalmente di “rosicare” dall’invidia perchè l’enorme carrozzone del settore pubblico va avanti per la sua strada,con tutte le sue leggi regolamenti usi e discipline a tutele anche dei fannulloni impenitenti.Mai toccare un buon serbatoio di voti per chi è al potere (è sempre stato così anche prima di Renzi).
    Secondo me il grande limite di questa riforma è la situazione attuale.In un momento così terribile per l’economia come questo,aziende grandi e piccole che chiudono,credo che ci siano già tutti gli strumenti per assumere qualcuno senza trovarsi legati per la vita,non vedo la necessità di un jobs act se non nella volontà di creare una competizione tra disoccupati,disposti ad accettare ogni compromesso pur di trovare un lavoro.Non datemi del comunista,non lo sono,da lavoratore dipendente ormai da 20 anni sul e nel mercato ho avuto modo di valutare di persona come vanno le cose.
    infine vorrei sapere quando le banche si adegueranno a questo nuovo trend dell’occupazione e cominceranno a concedere mutui a chi è assunto senza un contratto a tempo indeterminato….

  2. adriano

    Invito al gioco di parole.Una questione marziana.Da liberale a modo mio fra le libertà essenziali c’è quella dal bisogno.La società deve decidere se nel regolamento condominiale vuole garantirla o se si sceglie l’alternativa di lasciar morire per fame.Qualora si stabilisca che è meglio non farlo occorre introdurre l’odiato reddito di cittadinanza per chi un reddito non ce l’ha.Inutile entrare nei dettagli ma supponendo di fissarlo a 500 euro per i tre milioni di disoccupati l’impegno finanziario è ridicolo se confrontato con altri.A questo punto il rapporto di lavoro può essere regolato come un normale contratto da codice civile,definendone magari solo le modalità specifiche di risoluzione.Tutto l’ambaradan della legislazione del lavoro diventa inutile come gli esperti ad essa collegati.Se non c’è la disperazione ci si può accontentare momentaneamente della speranza.Naturalmente questi concetti sono inaccettabili per il liberale classico per cui si continuerà a pestare nel mortaio delle chiacchiere inconcludenti.Perchè inconcludenti?Perchè le sue argomentazioni giuste,corrette,oneste,ragionevoli continueranno ad rimanere tali in assenza di soluzioni reali.In altre parole si continuerà a discutere domani quello che si è già discusso ieri come capita oggi.Capisco che occorre occupare il tempo e che questo può diventare denaro ma per fare la spesa serve altro.

  3. gianni

    Una domanda sola: secondo lei, signor Giannino, demansionare un dipendente e ridurne lo stipendio, ne accrescerà la produttività?

    Si era partiti da buone premesse: “difendere il lavoratore e non il posto di lavoro”.
    Ora addirittura la norma che regola (per modo di dire) il demansionamento è addirittura peggiorativa, dal punto di vista del lavoratore, della versione originaria dell’art. 2103 del c.c., approvata come Regio Decreto n. 262 del 16 marzo 1942, dunque in piena era fascista ed emergenza causa guerra, ossia in condizioni economiche, politiche e sociali ben peggiori delle attuali. Il suddetto regio decreto infatti prevedeva la possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, subordinandola tuttavia ad un doppio limite rappresentato dalla “irriducibilità della retribuzione” e dalla necessità di mantenere la “posizione sostanziale”.
    Ora invece il datore di lavoro, adducendo una qualsivoglia “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che “incidono sulla posizione del lavoratore”, può assegnarlo a mansioni “appartenenti al livello di inquadramento inferiore”. Via libera dunque alla possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, con l’accortezza di “travestire” il provvedimento con una delle molteplici e possibili ragioni organizzative aziendali: il lavoratore, dunque, potrà anche precipitare dai vertici ai piedi della scala delle mansioni, non essendo in nessun modo reperibile nel testo della norma il riferimento ad un livelloimmediatamente inferiore, ma solo ad un generico “livello inferiore”. Chiunque abbia vissuto anche solo per pochi anni la realtà di una media o grande azienda italiana, e subito i metodi di gestione del personale, non può che rabbrividire leggendo cose del genere.
    Sarà pur vero che gli imprenditori non sono delinquenti, ma è anche vero che la proprietà di molte aziende non è più del singolo “padrone” o della sua famiglia, ma di azionisti più o meno diffusi, sparsi in tutto il mondo (fondi pensione ecc.) che pretendono dalla direzione aziendale una cosa sola: aumentare i profitti. Dirà che è un loro diritto. Giusto. Ma, come tutti i diritti, diventa un abuso quando lede i diritti di un altro.
    La cosa potrebbe anche andar bene in un mercato del lavoro dinamico e soprattutto meritocratico, non certo in una realtà ingessata come quella italiana, dove la mobilità sociale è bloccata da decenni, dove più che le conoscenze professionali contano quelle “particolari”, dove, come pure lei giustamente ha detto, esistono meccanismi di protezione sociale e di avviamento al reimpiego universali ed efficienti.
    In mancanza di ciò, il Job Act avrà come unico risultato possibile una macelleria sociale senza precedenti nel nostro Paese.

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