11
Feb
2010

Il caso Glaxo e il buco sulla ricerca

L’attenzione di tutti o quasi si è concentrata sulla fine degli incentivi all’auto e la chiusura di Termini Imerese disposta dalla Fiat. In capo a pochi giorni, invece, l’attenzione sul caso Glaxo SmithKline è quasi del tutto scemata, relegata alle cronache venete. Perché è a Verona, che la multinazionale farmaceutica britannica ha annunciato la chiusura dei suoi laboratori di ricerca per principi attivi finalizzati a trattare depressione, dolore, disordini del sonno e dipendenza da fumo e stupefacenti. Si tratta di ben 550 tecnici laureati e spesso plurispecializzati. Ed è un caso che si somma all’annunciata chiusura della Pfizer a Nervino, della Merck a Pomezia, della Wyeth a Catania. Sommando gli addetti, siamo ben oltre quelli di Termini Imerese. Ma in tutti questi casi la questione è di ordine diverso. Come per il centro tecnologico Motorola ridimensionato a Torino l’anno scorso, non stiamo parlando di linee di montaggio o di alluminio come nel caso dell’Alcoa in Sardegna, cioè di lavorazioni primarie. Si tratta di centri di eccellenza, di laboratori in cui quelle aziende avevano concentrato biologi, biotecnologi, neuroscienziati, ingegneri molecolari e chemiofarmacologi.
Notoriamente, siamo il grande Paese dell’Unione europea che negli anni è divenuto meno attrattivo verso gli IDE, gli investimenti diretti esteri che identificano la scelta di grandi imprese estere di insediare centri produttivi nel nostro Paese. È un fenomeno che non dipende dai costi comparati della manodopera – quelli “picchiano” su produzioni di basso valore aggiunto – quanto invece dalle esternalità negative generali che il nostro Paese purtroppo paga rispetto ai suoi competitors: tasse più alte, troppi vincoli burocratici, trasporti e logistica inefficienti.  Ma, al contempo, anche in presenza di tanti difetti la cui soluzione ha tempi lunghi, chiusure come quelle di Glaxo dovrebbero indurre a una semplice ma rapida riflessione. Esperienze come quelle dell’Irlanda – che a metà anni Novanta attirò nel proprio Paese oltre 200 multinazionali nella sola ricerca, non sto parlando delle banche, comprese quelle italiane, che vi facevano outsorcing per pagare meno tasse – dimostrano che per attirare la ricerca internazionale non serve risolvere tutti i maggiori svantaggi competitivi di un Paese.
Serve una politica industriale dedicata. Lo dico con tutta la diffidenza che questo termine ha per noi liberisti. Ed è questo, ciò che al nostro Paese ancora manca. A patto di capirsi: NON si tratta di far stabilire allo Stato dove e cosa si ricerca, ovviamente.
Se ci fermiamo al solo campo farmaceutico, siamo l’unico Paese avanzato al mondo che ha riservato all’industria del settore una tagliola annuale obbligata. Ogni anno, per contributo automatico al ripiano del deficit sanitario, le aziende farmaceutiche che hanno sede in Italia sono costrette in percentuale fissa a tagliare i propri margini. Immaginate che cosa ne possano pensare, nei quartier generali di multinazionali americane, britanniche o tedesche, di doversi sobbarcare una quota parte obbligata delle scelte sbagliate dei dirigenti nominati dalla politica italiana ai vertici delle ASL.
Oppure pensate alle risorse – sempre più magre, l’anno scorso meno di 400 milioni di euro per tutta l’industria italiana – destinate in credito d’imposta proprio al sostegno della ricerca. Non c’è Paese al mondo, nel quale si sia deciso che il meccanismo di assegnazione dipenda dalla casualità di un click sul computer, per l’ordine di presentazione e di accettazione delle domande. Col bel risultato che un giudice a Pescara ha appena stabilito che le oltre duemila imprese italiane che hanno fatto ricorso – almeno 4 volte tante hanno rinunciato – ora hanno pieno diritto a costituirsi contro lo Stato. Come in tutte le vicende che finiscono in tribunale, sarà campa cavallo che l’erba cresce. Immaginatevi a Londra, che cosa pensino del fatto che per ordine casuale del computer un agriturismo ha magari vinto gli incentivi per un nuovo impianto ecocompatibile di foraggio ai cavalli, mentre ai nuovi farmaci della Glaxo è negato.
Infine, nella peggior tradizione italiana, viviamo nell’assoluto caos, per quanto riguarda le responsabilità politiche nella ricerca. A Tremonti spetta stabilire di anno in anno ammontare e strumenti di assegnazione. A Scajola la parte di incentivi legati ai settori industriali che erano stati considerati strategici nel provvedimento Industria 2015, cui cui in realtà sono partiti per mancanza di risorse solo tre bandi, su made in Italy, mobilità ed efficienza energetica. Infine, c’è la competenza del ministro Gelmini, da cui dipende l’intero comparto della ricerca pubblica e universitaria, meno di un miliardo di euro ma con decine e decine di istituti, dei quali si paga tranne in rari casi al massimo pianta organica e stipendi. E c’è anche la Difesa, per quanto riguarda il comparto aerospaziale o delle tecnologie ITC di sicurezza. Quattro responsabili politici diversi, inevitabilmente in contrasto tra priorità e assegnazioni.
Malgrado tutto, quel magro 1% o poco più che secondo le statistiche nazionali destiniamo alla ricerca, e che ci condanna al fondo delle classifiche internazionali, non esprime l’intera verità. Grazie al cielo, moltissime piccole aziende italiane fanno innovazione senza essere “catturate” dalle statistiche, come ha comprovato un Tema di discussione di Bankitalia dell’anno scorso, ad opera di Francesca Lotti. Dal 2001 in avanti, testimonia la ricerca, ben il 33% delle piccole imprese italiane hanno fatto innovazione,  il 55% di quelle medie tra i 10 e i 249 dipendenti, il 72% di quelle “grandi”.
Ma per convincere, catturare e fidelizzare la grande ricerca avanzata straniera, occorre mettere a frutto la lezione dei Paesi che hanno saputo farlo. Un solo viceministro delle Attività produttive incaricato di monitorare l’intera evoluzione internazionale dei settori. Di centralizzare e e coordinare tutti gli incentivi, a pubblici e privati, secondo priorità di settori considerati strategici ma che soprattutto siano automatici. Di mantenere incessantemente contatti con tutti i centri direttivi all’estero delle maggiori multinazionali, e di seguirli per mano quando i mercati cambiano rapidamente e drasticamente, come avviene nelle grandi crisi. Finché al governo non ci sarà un solo Mr Fermi, tanto per usare il nome di uno scienziato italiano che ha cambiato la storia del mondo, dei vari casi Glaxo si deve mestamente occupare il ministro Sacconi. Ma non è mestiere suo, perché non si tratta di ammortizzatori sociali. E poi ci stupiamo, se la Fiat trasferisce in Chrysler la ricerca prossima più avanzata sui motori ibridi?

7 Responses

  1. Gigi

    Complimenti (purtroppo) per l’articolo. E’ fatto benissimo e mette il dito nella vera piaga italiana (aperta da almeno 20 anni).
    Il problema è che all’orizzonte non vedo cambiamenti ma solo incompetenti al posto sbagliato per nomina politica e con orizzonte temporale di massimo una legislatura (nei casi più lungimiranti).
    Sono completamente d’accordo sulla mancanza di un piano industriale nazionale: se lo stato non tesse una strategia nazionale quadro, non può svilupparsi al suo interno nessun business duraturo. E’ un po la storia italiana che ha portato, salvo alcune brillanti eccezioni, ad avere molti affaristi e pochi imprenditori.
    Sono pessimista…..

  2. mario fuoricasa

    Gent. Giannino

    Condivido l’impianto del post e le ragioni sostenute in generale. Questi sono problemi reali.

    L’Italia, se non si cambia, è destinata a diventare un deserto popolato da pubblici impiegati.
    Chissà come se la riderebbe Schumpeter. “Ve l’avevo detto!!”

    In margine alle povere case farmaceutiche c’e’ da considerare che comunque nel tempo si sono ben adattate.
    Ci sono vari modi per sopravvivere. Uno e’ quello di tenere inflazionati i listini dei prodotti, non ne ho mai visto uno diminuire, si sa che altrimenti non si riuscirebbe a stare in piedi facendo pagare allo stato meno della metà del doppio.
    Infatti al dettaglio nel “libero” mercato delle farmacie gli stessi prodotti vengono venduti si allo stesso prezzo facciale, ma viene spesso consegnata una ulteriore pari quantità come omaggio magari con comodo pagamento a 365 giorni.
    Lo dico fatture alla mano!

    Per quanto riguarda il click day siamo arrivati all’incompetenza più plateale. Si vede che ai membri degli staff giuridici presso il MEF s’è tramutato il cervello in pappa.
    Ben ha fatto il giudice a riconoscere il diritto dei ricorrenti.
    Il click come metodologia è illegittimo e questo già basterebbe.
    Ma ricordo che il click è pesantemente influenzato dalle latenze di comunicazione e di switching per cui un click a Trento o a Roma nel medesimo istante fa una grande differenza (questione di fisica).
    “Involontariamente” si è creata una oggettiva disparità tra aventi lo stesso diritto a concorrere.

    mario fuoricasa

  3. Solo per complimentarmi per questa analisi davvero precisa e realistica della situazione della ricerca industriale in Italia. E complimenti anche per avere enfatizzato alcuni problemi: dalla frammentazione delle competenze tra i ministeri al problema della ricerca nel comparto Difesa.

  4. Che la ricerca nel nostro paese non sia assolutamente considerata, se non come ritornello da citare sulla necessità della innovazione, è un dato sotto gli occhi di tutti.
    La struttura industriale del paese è stata smantellata con la delocalizzazione produttiva, con la motivazione che il costo del lavoro da noi è eccessivo e quindi conviene produrre a costi inferiori mantenendo la parte nobile: la progettazione in Italia.
    Adesso ci accorgiamo che la rinuncia aprodurre non basta più ma che anche la ricerca può essere delocalizzata. Se viene a mancare lo stimolo innovatore della grande impresa che fa partecipare la PMI a parte dei suoi grandi progetti si ferma anche quel poco di circolazione di idee e di mezzi che esisteva.
    Le piccole imprese non hanno bisogno di soldi a pioggia per fare innovazione ma di un contesto che le consenta di avere maggiori certezze sul ritorno degli investimenti e di meccanismi di collegamento tra chi ha le idee e chi le trasforma in merce o servizi.
    Corollario è una fiducia nel futuro che in generale si è persa.
    Ma la decisione di Glaxo di chiudere i laboratori di ricerca, non solo in Italia, scopre una delle altre ipocrisie cioè il belletto di impresa a responsabilità sociale di cui si è fatta vanto.
    Se andate a visitare il sito di Glaxo http://www.gsk.it trovate queste affermazioni:
    “Tutto questo fa di GSK un’azienda consapevole del proprio ruolo nello sviluppo economico e sociale della comunità in cui opera e cui appartiene. Per questo, oltre a svolgere responsabilmente le proprie attività caratteristiche d’impresa, GSK partecipa allo sviluppo sociale della comunità attraverso collaborazioni e progetti con istituzioni e terzo settore.”
    Potete trovare copia del codice etico in cui si afferma che:
    “Suscitare la cooperazione tra gli stakeholder significa tenere conto delle legittime
    aspettative di ciascuno in vista di un fine: la cooperazione sarà tanto più efficiente
    quanto più ciascun interlocutore si sentirà trattato in modo equo e vedrà il suo
    impegno orientato ad uno scopo valido.
    Per questo GSK vuole essere conosciuta e riconosciuta come un’impresa equa, che
    bilancia le aspirazioni di ciascuno al fine di garantire l’interesse reciproco ed il sostegno
    di tutti al perseguimento della missione.
    Il codice etico stabilisce i principi in base ai quali deve realizzarsi il corretto equilibrio
    tra le aspettative degli stakeholder.”
    Tra gli Stakeholders ci sono proprietà, collaboratori e collettività, quindi quelle comunità che dipendono dalla presenza dell’impresa.
    Potete leggere per intero questo interessante documento qui:
    http://www.gsk.it/attach/content/172/COD_ETICO_it.pdf
    La CSR è sempre stata una attività ammirevole ma sovente costituisce un mantello ipocrita con cui si veste una realtà molto meno presentabile.
    Cosa significa chiudere i laboratori di ricerca perché non vuoi più investire nelle neuroscienze? la decisione può anche essere giusta ma devi fare un progetto di riconversione, devi decidere che cosa ne vuoi fare delle capacità, del bilancio di conoscenze che è stato creato nelle persone che ti hanno fatto crescere in questi anni.
    Una impresa minimamente responsabile non può lasciare sul territorio i resti della sua azione siano essi scarti di lavorazione o persone aspettando che intervenga la collettività a sistemare le cose. Anche questa è CSR.

  5. Credo che, se Glaxo lascia l’Italia ed altri se ne stanno alla larga da noi, sia anche una questione di “ecosistemi”. Infatti, i centri di ricerca delle multinazionali tendono a passare da un ecosistema ad un altro divenuto più conveniente. In breve, un ecosistema è un luogo fisico dove la creazione d’impresa, quindi di posti di lavoro e benessere, si alimenta da sè. Questo ha al massimo una dimensione di carattere regionale.

    Affinchè la prima miccia si accenda occorrono diversi ingredienti, tra gli altri:
    -una multinazionale, appunto, che insedii un proprio centro di ricerca in loco
    -un’università nei pressi che si rispetti e che abbia libertà di stringere alleanze con la multinazionale stessa
    -ricercatori e professori della stessa università che abbiano la libertà e la convenienza di creare aziende attorno alle loro attività di ricerca
    -un luogo piacevole da vivere, in modo che ricercatori (e relative mogli) abbiano un motivo in più per trasferirsi
    -una rete che metta in collegamento l’ecosistema con gli altri in giro per il mondo.
    A questo punto, è probabile che la multinazionale trovi uteriori opportunità di fare affari stando in quel luogo, che quindi ritiene non dover abbandonare. Ed altre potrebbero arrivare.

    Ovviamente, nessuno ha la ricetta magica affinchè ciò possa sempre e comunque avvenire. Avrebbe già vinto diversi Nobel. Però, questo è quello di cui si discute negli USA, come replicare altrove i modelli della californiana Silicon Valley o della Route 128 di Boston e Cambridge.
    E’ vero anche che, pure in Europa, c’è chi si mette attorno ad un tavolo e cerca di suggerire politiche di respiro europeo che vadano nella stessa direzione.

    Ho avuto la possibilità di partecipare dal vivo ad un workshop su questi temi al MIT di Boston e di leggere il documento relativo alle politiche suggerite per l’Europa. Con modestia, rimando al mio sito per chi volesse approfondire.

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