1
Apr
2014

Il benefattore è un santo—di Paolo Di Betta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Paolo Di Betta.

Il benefattore che dona di nascosto è un santo.

Il suo dono è un gesto che non chiede nemmeno un grazie in cambio.

È un gesto puro di rarissima bellezza.

Ma è anche raro nel nostro Paese.

Nel World Giving Index l’Italia era al 104.mo posto nel 2011, al 57.mo posto nel 2012.

Per fortuna nel 2013 l’Italia è in fase di risalita, al 21.mo posto.

Forse il gesto è raro perché non siamo tutti così puri d’animo. Forse qualcuno vorrebbe anche ricevere un grazie. Forse qualcuno vorrebbe gratificare il proprio ego. 

Ma l’ostentazione del donare non fa parte della nostra cultura. Fare beneficenza apertamente è ritenuto un gesto “sgraziato”. Non sta bene.

Questa idea ha radici profondissime, nella Bibbia: «La carità è magnanima, benevola… non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13, 4-7).

La beneficenza è delegata alla Chiesa e allo Stato. O alle fondazioni bancarie o alle imprese (sotto forma di Corporate responsibility). Noi non ci sentiamo chiamati ad essa individualmente, non è una nostra aspirazione. Deleghiamo: che ci pensino loro! La beneficenza quindi rientra nel welfare state, è compito dello Stato. E ciò serve ad aumentare l’area dell’intermediazione politica. Il 5 per mille, l’8 per mille potrebbero essere donati direttamente agli enti, invece di fare il giro contorto che fanno (contribuente-Stato-ente beneficiario): il contribuente potrebbe presentare le ricevute delle donazioni con la dichiarazione e dire: ecco quanto ho donato. Gli enti beneficiari otterrebbero subito i soldi, invece di aspettare anni per ricevere le somme dallo Stato (che poi spesso dice: Non ci sono soldi!). Al cittadino è stata sottratta pure la libertà di donare in santa pace.

In altre culture si privilegiano altre interpretazioni e perfino la beneficenza diventa un modo per ostentare ricchezza. Non si è veramente ricchi se non si fa beneficenza, se non si fa qualcosa per la comunità, se non si regala tempo e danaro. Che schifo! O no? Beh, quei paesi sono in testa nella classifica del World Charity Index.

Alcuni anni fa, nelle riviste USA era non tanto velata l’accusa a Bill Gates di non fare abbastanza beneficenza. Il poveretto (è un modo di dire) veniva stigmatizzato! Eppure già nel 1998 Gates aveva donato, insieme a Steven Ballmer, un intero edificio (completato nel 1999) al Dipartimento di ingegneria elettronica della Università di Harvard, il Maxwell-Dworkin Laboratory (sono i nomi delle mamme). La cosa buffa è che Gates ad Harvard non si è neppure laureato! (Ha ricevuto la laurea ad honorem nel 2007.) Gates stava semplicemente “studiando” la questione, cercava un progetto molto grande che lasciasse il segno, e quando ne fu convinto, fondò la Bill & Melissa Gates Foundation, con un fondo di dotazione di non so quanti miliardi. Ormai si occupa solo della fondazione.

Quanti sono in Italia coloro che, dopo aver usufruito, praticamente gratis, del sistema universitario italiano, hanno sentito di dover “restituire”, di dover donare alla loro Alma Mater?

Negli USA quasi tutte le università hanno nome e cognome, perfino le cattedre più prestigiose. Avete dubbi sull’indipendenza delle Università a seguito delle donazioni? John D. Rockefeller, il più famoso monopolista della storia (quello contro cui fu stilato in pratica lo Sherman Act nel 1890), dichiarò che il suo migliore investimento fu l’aver fondato la University of Chicago (che non porta il suo nome). Sì, proprio quella stessa Università che più di tutti al mondo si occupa di combattere i monopoli. (Misteri del sistema USA…)

Nel suo Il Vangelo della ricchezza (non mi si accusi di blasfemia, è proprio il titolo del libro, Garzanti), Andrew Carnegie (che ovviamente in Italia è noto più come Robber Baron che come quel benefattore che è stato e perché Renzo Arbore ha fatto un concerto nella Carnegie Hall, che il suddetto donò a New York), afferma che ci sono tre modi per distribuire la ricchezza: (1) lasciarla alla famiglia del defunto, (2) lasciarla in eredità, dopo la morte, per qualche fine pubblico, (3) distribuirla nel corso della propria vita.

Secondo Carnegie il primo modo è il più avventato (OK, ma non occorre lasciare in miseria i figli), il secondo non gli sembra sensato: perché attendere la propria morte prima di fare qualcosa di utile per gli altri? Per Carnegie l’unico modo è il terzo: avvicina il ricco e il povero senza il totale ribaltamento della nostra civiltà, come avverrebbe con il comunismo. (Qui, bisogna precisare, Carnegie è un po’ ingenuo, ma il testo è del 1889. Oggi sappiamo che il comunismo realmente avvicina il ricco al povero.) In effetti, gestendo la ricchezza per gli altri, colui che ha creato quella stessa ricchezza la gestirebbe nel modo migliore. La ricchezza verrebbe cioè gestita da coloro che l’hanno prodotta, e costoro hanno già mostrato notevoli capacità di gestione. Queste capacità rare verrebbero quindi impiegate in attività benefiche. Quindi, per Carnegie, chi ha prodotto ricchezza per sé deve ad un certo punto impiegare queste stesse sue ricchezze, e la sua capacità manageriale, da vivo, per fare bene per gli altri.

Recentemente l’Opera San Francesco ha fatto una pubblicità sui quotidiani il cui playoff era: “Siate egoisti, fate del bene!” Può sembrare paradossale, ma c’è del vero in questo slogan pubblicitario. E non va dismesso come pura trovata o provocazione, anzi. Si fa beneficenza per pura auto-gratificazione, per sentirsi bene (“warm glow”). Per esempio, si veda qui.

Oggi molti potrebbero fare più beneficenza se ci fosse maggiore “competizione” nel fare beneficenza. Invece, fare beneficenza apertamente è ritenuto ancora oggi un gesto “sgraziato”. Fare beneficenza per ostentarla? Giammai! Sarebbe da cafoni. Ma è proprio per questo motivo che non si scatena alcun confronto sociale per farne di più. Il risultato è che la competizione si fa fra chi ha lo yacht più grosso. Immaginate invece la seguente scenetta, a casa a cena.

“Cara, hai sentito, Gustavo e Isotta hanno donato etc etc…”

“Oh, caro, e noi? Dobbiamo fare qualcosa anche noi! Non possiamo subire questo smacco! Cosa diranno i nostri amici? Che siamo dei pezzenti?!”

In maniera ipocrita, vogliamo non solo che si faccia beneficenza, ma per di più richiediamo che chi la fa non lo dica in giro. Guai ad ostentarla! Così il fare bene rimane nascosto e non se ne parla. Non emerge dall’oblio. Il risultato è che non si diffonde nella società un sano spirito né di emulazione né di competizione nel fare donazioni.

Non ci basta che qualcuno faccia un gesto nobile, ma anche il motivo deve essere nobile!

Non è chiedere troppo ai ricchi? Oltre che (meno) ricchi (per l’invidia sociale che ci contraddistingue) li vogliamo pure santi?

4 Responses

  1. Mike_M

    La beneficenza è l’alternativa liberale alla “giustizia sociale” dello stato. O l’una, o l’altra. Non si può pretendere di avere la botte piena e la moglie ubriaca, soprattutto quando la pretesa fiscale è a livelli inaccettabili.

  2. giuseppe

    Il gesto è di una Nobiltà infinita e ormai sconosciuta.

    Ma se ti regalano dei contanti e li spendi, c’è il serio rischio che ti vengano a chiedere dove li hai presi.
    Se non puoi dimostrarlo, sei tecnicamente un evasore. Fatevi regalare solo assegni. Anche il dono deve essere tracciabile,… in Italia…

  3. marziano

    Quoto in toto l’articolo ma anche il commento di mile_m.
    Con un prelievo fiscale al 68% dove diavolo li trovi i soldi da donare? é lo stesso problema della sussidiarietà.
    ci mettiamo insieme per rispondere da noi ai nostri bisogni – senza aspettare o pietire dallo stato – sì ma con quali soldi se lo stato mi ha già espropriato?
    in america il totale tax rate è senz’altro inferiore e assume contorni di irrilevanza per i super ricchi, come quelli citati.
    sul resto sono d’accordo anzi la cultura del dono è nella nostra natura e anche nella nostra tradizione cattolica (un po’ diversa dagli amici muratori citati nell’articolo!!)

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