6
Ott
2010

I tre errori europei sulle banche

Abbondano gli scettici, sulla necessità del giro di vite in corso sulla vigilanza europea in materia di finanza pubblica e crescita, il doppio pilastro che dal 2011 sostituisce il vecchio rispetto – elastico e perciò non credibile – del precedente “stupido” patto di Maastricht. Eppure, l’Irlanda dovrebbe ricordare a noi tutti che siamo ancora bel lontani da una exit strategy ccredibile. Dopo la nuova iniezione di miliardi pubblici resasi necessaria per evitare che l’Anglo Irish Bank finisse gambe all’aria, Dublino è diventata leader del deficit pubblico per anno tra i Paesi avanzati, con una percentuale sul Pil che supera il 32%. Segue il Regno Unito sopra l’11%. Gli Stati Uniti che faticano a mantenersi entro il 10,5%. La Spagna oltre il 9% ,malgrado l’austerity che costa al governo socialista il minimo dei consensi. E poi nell’ordine Grecia, Francia, Giappone e Portogallo, tutti ben oltre la media dell’euroarea che sta al 7%. E poi – virtuose come si vede se conta la graduatoria del deficit annuale, e conta qualcosa santiddio – Germania e Italia, di poco entrambe sopra il 6%. Purtroppo, il caso irlandese si aggrava per la singolarità del processo di salvataggio e ricapitalizzazione bancaria seguito dall’euroarea, ispirato a due logiche abbastanza singolari, pur appartenendo tutti alla medesima area monetaria: “ciascuno a casa sua”, e “una foglia di carciofo alla volta”. Con un terzo errore, che ne consegue.

La prima logica ha visto i diversi sistemi bancari nazionali e i rispettivi governi procedere come se il funding bancario fosse ristretto all’interno del rispettivo mercato nazionale, cosa che naturalmente è falsa visto che avviene sul mercato globale e secondo i tassi overnight dei mercati per le esigenze a breve e con le finestre di liquidità speciali della Bce per quelle a medio-lungo. Continua a prevalere il criterio delle diverse responsabilità a seconda della prevalente cittadinanza dei depositanti, ma è un errore anche questo. Perché ciò ha significato che vi sono stati governi e regolatori nazionali che tra 2008 e 2009 hanno fatto un vero “punto a capo” per le banche che andavano nazionalizzate o ricapitalizzate d’emergenza, come è avvenuto con qualche approssimazione in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi.

Altri hanno fatto come la Germania, a tutt’oggi la più lenta nell’arginare i pessimi attivi bancari delle sue Landesbanken pubbliche, per via della cattiva coscienza politica che il marcio delle banche regionali inevitabilmente esprime. L’Irlanda ha seguito questa cattiva strada, col risultato che dal solo mese di marzo scorso – quando la stima della banca centrale nazionale era che il sistema bancario aveva bisogno di ricapitalizzazioni per ulteriori 28,4 miliardi di cui oltre 18 a carico dell’Anglo Irish nazionalizzata nel gennaio 2009 – prima ad agosto la linea di denaro pubblico alla banca era salita di 10 miliardi aggiuntivi, e poi il 30 settembre è cresciuta di altri 6,4 miliardi. Nel frattempo, raddoppiava a 10,4 miliardi di euro rispetto alle previsioni di marzo anche il costo della ricapitalizzazione pubblica dell’Irish Nationwide Building Society, la scassata Freddie Mac irlandese prova evidente della bolla immobiliare.

E così, nel giro di due soli anni, la tigre celtica ha visto passare il suo debito pubblico da meno del 60 al 98.6% del suo Pil. Per quanto si dia retta al programma di rigore fiscale annunciato dal governo, difficilmente il debito pubblico potrà stabilizzarsi prima di raggiungere quota 115%. Ed è anche per questo che il ministro irlandese delle Finanze, Brian Lenihan, ha continuato negli ultimi giorni a escludere perdite per i creditori senior delle banche, ma non esclude più una ristrutturazione quanto meno degli interessi a danno dei debitori subordinati.

Con una strategia diversificata nazionalmente del bank loss e con una procedura di scoperta a tempo della sua gravità, il terzo errore è che Paesi come l’Irlanda si indeboliscano ulteriormente per una fuga non solo di capitali, ma anche di depositi bancari (la garanzia straordinaria di copertura per correntisti e debitori insieme annunciata nel 2008 dal governo di Dublino scade attualmente a fine anno).

In queste condizioni in cui oggettivamente la separatezza delle vie nazionali a banche solide continua come si vede a ingenerare instabilità per l’intera euroarea, si potrebbe ritenere che proprio il caso irlandese provi che la risposta non può essere quella del rigore di finanza pubblica. In proposito, la comunità accademica mondiale resta più che mai divisa. Da una parte ci sono economisti come Alberto Alesina e Silvia Ardagna di Harvard, che hanno recentemente aggiornato un loro studio sui maggiori episodi di consolidamento fiscale nei Paesi Ocse (Large Changhes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending,  NBER working paper n. 15438, revised jan 2010)concludendo che nella maggioranza dei casi il taglio delle spese e delle tasse anche nella fasi restrittive del ciclo consolida la fiducia e rilancia la crescita assai più della rilassatezza di una finanza pubblica keynesianamente concepita a sostegno della domanda. Dall’altra, se si legge il capitolo 3 del World Economic Outlook del Fondo Monetario appena uscito in vita dell’assemblea annuale che si terrà tra pochi giorni (Will it Hurt?Macroeconomic Effects of Fiscal Consolidation), si legge esattamente l’opposto, e cioè che quando l’economia si contrae tagliare la spesa è più deleterio che aumentare le tasse.

Chi qui scrive, sta nel partito Alesina-Ardagna. E vi spiega perché. La differenza di fondo tra le due prospettive, la prima ispirata a meno tasse e la seconda a più spesa pubblica, non sta tanto nell’essere pro o contro il feticcio del vecchio Keynes, che riposi in pace, ma nel tasso d’interesse. Aumentare la spesa pubblica in deficit da parte della politica spinge le banche centrali oggi a tenere i tassi bassissimi e ad acquisire sui mercati carta pubblica per deprimere artificialmente gli yields decennali. Con tagli alla spesa e alle tasse, la politica delle banche centrali sarebbe di segno opposto e i tassi risalirebbero. Per tante banche ancora malate – e tenute in piedi solo dall’oceanica liquidità iperscontata loro garantita dalle banche centrali, come ha giustamente osservato pochi giorni fa Mario Draghi, che dunque si colloca coraggiosamente in minoranza rispetto all’indirizzo prevalente – tassi in risalita sarebbero un brutto guaio. Per noi mercatisti offertisti chicagoers, ciò consentirebbe di ripartire prima e meglio, distinguendo finalmente anche tra le banche grano dal loglio. Ma politici e banchieri preferiscono tassi bassi: per questo il debito pubblico cresce. L’errore dei banchieri centrali è non separare le loro responsabilità da questo rischioso andazzo.

You may also like

Punto e a capo n. 50
Taglio del cuneo fiscale: utile, ma non risolutivo
Caro bollette costi energia
Caro bollette e pulsioni anti-mercato. L’Italia spende troppo, le ferite si allargano
Il ciclo boom-bust e le lacune dei Paesi dell’area LATAM

4 Responses

  1. Matteo

    Il mio commento non c’entra una mazza con l’articolo… volevo solo lasciarti un saluto e dirti che ascolto sempre con attenzione la trasmissione da te curata su radio24 😉

    Saluti,
    Matteo

  2. azimut72

    Ma le Banche Centrali a chi rispondono?

    Inoltre una considerazione, direi, geopolitica.
    Il suo discorso non fa una grinza.
    Nel separare il grano dal loglio dobbiamo però ammettere (utilizzando criteri di mercato) che ci sono almeno 2 nazioni europee che dovrebbero fare default.
    Però, se lo facessero, affosserebbero il sistema bancario di alcune nazioni virtuose.
    Quando la Germania fa (in linea di massima giustamente) le pulci al debito pubblico italiano, non crede che ci sia dietro anche una politica di potenza per togliere di mezzo l’ultimo vero ostacolo, il calabrone? (dato che gli altri tra bolle immobiliari, spese keynesiane, dati truccati, deficit impazziti, politiche populiste…sono già in brache di tela).
    Non crede che la Germania, alla fin fine, non stia di fatto anche lei difendendo le sue poco trasparenti e indebitatissime banche loglio?

    E infine, un’ultima domanda che si ricollega alla mia precedente considerazione.
    Quanto è criminale una classe politica che invece di prendere atto del fallimento affossa il futuro della sua gente pur di difendere “il sistema bancario?

  3. pietro

    Meno tasse e meno spesa, l’uovo di colombo, peccato che per pagare meno tasse dovremmo pagarle tutti specialmente quelli che i soldi non sanno più dove metterli.
    Meno spese peccato che la politica italiana specialmente al sud ha funzionato è funziona ancora da tangentificio e da postificio,tanto per fare un esempio “se la sicilia può dare il buon esempio” STABILIZZATI nel mese di settembre 2010, 4911 precari alla regione siciliana totale dipendenti 29000 MENO SPESE BOH!!!!!!!!!!!!!!!!!!

  4. Mario Cancellieri

    Professor Giannino, dal suo ragionamento macroeconomico mi sembra di arguire che lei stia auspicando un aumento prossimo dei tassi di interesse che attualmente in quasi tutte le macroregioni mondiali sono a livelli molto bassi, l’aumento dei tassi di interesse potrebbe stimolare il risparmio, favorire l’accumulazione di capitale, accrescere gli investimenti e, continuando queste virtuose concatenazioni economiche, aumentare la produttività del sistema economico.La sua analisi non mi è chiara in un punto, lei afferma che per tante banche ancora malate tassi in risalita sarebbero un grosso guaio e io le chiedo perchè mai dovrebbero essere un grosso guaio? Per quale motivo l’aumento dei tassi di interesse dovrebbe piegare ulteriormente il settore bancario non potrebbe, al contrario, essere una leva utile per accrescerne profitti e reddittività ?

Leave a Reply