28
Mag
2010

Evans sulla teoria austriaca

Negli ultimi anni l’interesse verso le teorie della Scuola austriaca è aumentato per via dell’evidente fallimento delle teorie neoclassiche e neokeynesiane nel dire qualcosa di rilevante sugli eventi degli ultimi anni (o decenni). Il recente articolo di Evans, autore che già conoscevo per via di un interessante articolo su QJAE (“Austrian Business Cycle Theory in Light of Rational Expectations”) contribuisce a chiarire molti di questi problemi interpretativi.
Ha pienamente ragione Evans nel dire che:

  1. La teoria austriaca da sola non è una spiegazione completa di tutte le fasi del ciclo in ogni loro dettaglio.
  2. La contrazione del credito (e dell’offerta di moneta) durante la recessione è un fenomeno doloroso.
  3. La politica economica una volta iniziato un boom insostenibile non può evitare le conseguenze dolorose della recessione, ma deve ripristinare al più presto il normale funzionamento dei mercati.
  4. Krugman non sembra essere in grado (o fa finta di non esserlo) di distinguere tra un cambiamento strutturale dovuto all’aumento della domanda di lavoro in certi mercati e uno dovuto alla diminuzione della domanda di lavoro negli stessi mercati.
  5. La struttura della produzione è la chiave per capire la teoria austriaca, mentre ragionamenti aggregati ne prevengono la comprensione.
  6. La principale distinzione tra monetaristi e austriaci è che i primi vedono i boom “insostenibili” (per i secondi) come qualcosa di auspicabile o perlomeno innocuo.

Non posso che aggiungere quattro considerazioni:

Non è del tutto vero che la teoria austriaca non sia una teoria della recessione (anche se questo è detto spesso dagli austriaci stessi, ad esempio in “Time and money” di Garrison). La recessione è spiegata dagli austriaci come distruzione del credito e ristrutturazione della produzione (“Capital and production” di Strigl analizza la questione in un certo dettaglio). Se ci sono ulteriori fattori che complicano le cose, come la rigidità dei salari, questo fenomeno non è considerato (ma non è certo incompatibile) nell’originale visione austriaca della crisi. Questi fattori aggiuntivi (come affermato da C. Phillips, Rothbard e Mises e più recentemente da Cole e Ohanian, due “monetaristi”) sono necessari a capire fenomeni come la Grande Depressione, che infatti non si sarebbe mai avuta senza Hoover e Roosevelt.

Per gli economisti “mainstream” la teoria è un qualcosa che spiega direttamente i fatti: fa previsioni, o perlomeno “spiega” le serie storiche. Gli austriaci hanno invece una concezione diversa della teoria: questa è considerata un insieme di strumenti concettuali, che in quanto tali sono necessari a interpretare la realtà storica, ma non spiegheranno mai tutti i dettagli, né sono in grado di esaminare tutte le cause all’opera o determinarne la rilevanza. Detta in termini semplici: la teoria non spiega la storia, è solo necessaria per comprenderla, ma spiegare è un’arte a parte che non si può ridurre alla teoria. Per questo è irrealistico – come sostiene giustamente Evans – pensare ad una teoria che spieghi tutto.

Secondo me non c’è modo per evitare la contrazione del credito e della moneta durante una crisi economica e finanziaria: se le banche hanno troppa leva, devono ridurla, se hanno investito troppo, devono liquidare. Che questo abbia conseguenze negative nel breve termine è evidente: che si possa evitare è più che dubbio. Friedman e Schwarz dissero una cosa simile riguardo il boom degli anni ’20 in “Monetary History of the US”: la Fed durante i Roaring ’20s aumentò l’esposizione delle banche ai rischi di liquidità, riducendo la loro resistenza agli shock, cosa che ingigantì la contrazione successiva alla crisi del ’29. Il boom crea la fragilità strutturale che diviene poi evidente nel bust (una spiegazione si può trovare proprio nel paper di Evans precedentemente citato).

La contrazione del credito e della moneta è dolorosa, ma è un fenomeno di breve termine: il panico dura pochi mesi, e, una volta stabilizzati gli aggregati su un livello più basso, l’economia è pronta per la ripresa. Ma cosa succede se si impedisce ai salari nominali (e in misura molto minore a quelli reali) di scendere? Che il recupero diventa impossibile: se il costo del lavoro prende non il 60% ma il 90% del fatturato, il 10% residuo non è sufficiente per conservare il capitale, le aziende devono chiudere, la disoccupazione diventa eterna e la produzione rimane sotto le possibilità economiche reali. Non abbiamo bisogno di Keynes per capire la recessione, dunque: abbiamo bisogno di una teoria delle rigidità di lungo termine che in caso storico preciso, la Grande Depressione, si sono rivelate insuperabili. E questa teoria la forniscono Cole, Ohanian, Rothbard e C. Phillips… e ovviamente non è la teoria standard del ciclo austriaco che non si occupa di rigidità dei prezzi.

2 Responses

  1. Pietro M.

    Io mi prendo quello su Milton Friedman, tra poco arriverà il mio post.

    Personalmente ritengo Krugman non molto migliore di Lisenko, lo zar sovietico della biologia che voleva piegare, sotto Stalin, le scienze biologiche alle fandonie del marxismo-leninismo, ma questo non implica che Krugman abbia torto. Su Friedman ha ovviamente torto… a tra poco.

Leave a Reply