24
Giu
2009

Distribuzione gas, vince lo status quo – di Picchio e Sileo

Riceviamo da Gionata Picchio e Antonio Sileo e volentieri pubblichiamo.

La distribuzione del gas naturale è un settore da 4,7 miliardi di euro l’anno di fatturato e 14.400 addetti avviato verso una liberalizzazione che, a dieci anni dal Dlgs 164/2000 (il noto Decreto Letta), stenta ancora a decollare. A rallentarla, un complicato intrico normativo – l’ennesimo correttivo è oggi alla Camera, stretto tra emendamenti incrociati – oltre a una certa resistenza dei soggetti coinvolti.
Ma prima di ogni altra cosa, a frenare il processo è un irrisolto conflitto tra Centro e Periferia, di cui rischiano di pagare il conto i cittadini-consumatori.

Il Decreto Letta ha recepito la prima direttiva Ue sul mercato gas e ha introdotto, in un’attività svolta in regime di monopolio naturale, la cosiddetta concorrenza “per il mercato”, con l’affidamento del servizio tramite gara. Ai Comuni la legge dà il compito di affidare la gestione, con la possibilità di riscuotere un canone.
Dopo nove anni l’obiettivo è stato raggiunto solo in piccola parte: delle 5.000 concessioni, che inizialmente avrebbero dovuto cominciare a scadere a fine 2007, neanche 300 sono effettivamente andate a gara.
Poche, si fa notare a volte. Specie oggi che il settore è scosso da importanti riassetti. E per ogni rete che cambia di mano, da Enel Rete Gas-F2i a EOn fino ad Acea, quella delle concessioni resta un’equazione a più incognite.
Cosa è successo? Che negli anni le scadenze del cosiddetto transitorio previste dal 164/2000 sono state posticipate da più interventi normativi. Un gattopardesco riformismo che ha avuto come principale effetto di complicare il quadro e congelare lo status quo.
Solo a fine 2007, il collegato alla Finanziaria è parso fare un po’ di chiarezza: il transitorio scadrà a fine 2010, diceva l’art. 46bis. Nel frattempo, il Ministero dello Sviluppo Economico definirà le regole di un bando di gara “tipo” e nuovi perimetri (ambiti) per l’affidamento del servizio, che aggregheranno più reti.
Tutto chiarito dunque? Non proprio. In un anno e mezzo, infatti, arrivano altre due correzioni.
La prima trova posto nella “manovra d’estate” del 2008: l’articolo 23bis sul riordino dei servizi locali cancella il rinvio al 2010 del transitorio e toglie al Governo la definizione degli ambiti, per darla a Regioni e Conferenza Unificata.
La cosa fa piacere ai Comuni, che non gradiscono i grandi ambiti sovramunicipali e mal sopportano limiti al loro diritto di bandire le gare – e incassarne i diritti. Non piace invece alle imprese che chiedono un bando tipo con un tetto ai canoni.
Anche questo scenario però ha vita breve: sul 23bis pende un giudizio della Consulta e il Ddl Sviluppo, ora in seconda lettura alla Camera, ha imbarcato al Senato un passaggio che resuscita il 46bis.
Non sono esclusi colpi di scena: due contro-emendamenti di Pdl (del sindaco di Brescia Paroli) e Lega (on. Fava) hanno fatto capolino in X Commissione, venendo poi bocciati. Il testo della Lega è stato ripresentato anche in aula.
A ben guardare, però, nessuna di queste “virate” ha mai avuto davvero il potere di rimettere la riforma sul binario. Perché nessuna di esse dà risposta a un nodo di fondo: il conflitto, irrisolto dai tempi del 164/00, tra lo Stato promotore della riforma e gli Enti Locali, a cui la riforma piace finché non ne tocca le prerogative.
L’Italia è abituata agli scontri Centro-Periferia, ma nel caso della distribuzione gas lo stallo dura ormai da troppo. E a farne le spese rischiano di essere i cittadini. Le loro tasche o, a seconda degli scenari, la loro sicurezza.
Se cadrà il rinvio del transitorio, infatti, i municipi potranno bandire subito molte gare. E senza un tetto, i canoni richiesti finiranno in qualche caso (è già successo) per erodere troppo i ricavi delle imprese. Minacciando gli investimenti in manutenzione e sicurezza.
Ma neppure il 46bis, se sarà confermato, mette al riparo da sorprese: l’individuazione di ambiti di gara “grandi” dovrà fare i conti con la titolarità all’affidamento, che per legge è pur sempre dei Comuni. Il rischio contenzioso è alto.
Che si debbano esautorare i Comuni, allora? Qualcuno si spinge a suggerirlo, ma è un’ipotesi impervia. Non solo sul piano politico, tanto più dopo il successo elettorale della Lega; ma anche perché rischia di diventare un boomerang per i cittadini.
Col taglio dell’Ici e le incertezze su federalismo fiscale e patto di stabilità, i sindaci potrebbero sempre cercare altrove le risorse perdute col canone: e dalle multe all’acqua, dalla spazzatura al trasporto, la scelta non manca.
Insomma, se si vuole davvero che la riforma riparta e il sistema distribuzione vada verso una maggiore concorrenza, il nodo Centro-Periferia non può essere eluso. O una nuove serie di rinvii sarà il meno che possa capitare.

2 Responses

  1. Paolo Chiaradia

    L’analisi è completamente condivisibile ma, purtroppo, nel settore della distribuzione del gas, dopo il decreto “Letta”, manca una ridefinizione organica della materia che non è più procastinabile e che metta al centro l’interesse del cittadino e/o dell’impresa. E’ impensabile che, in un periodo di “vacche magre”, i comuni provvedano a fare cassa con il canone del gas: sarebbe un sorta di tassazione indiretta. Ben diversa è, invece, la questione della ripartizione tra ente concedente e gestore di quanto riconosciuto dalla tariffa di distribuzione regola dall’Aeeg, in base alla proprietà degli impianti.

  2. Antonio Di Martino

    L’articolo centra perfettamente il cuore del problema: la “ritrosia” degli enti locali a rinunciare al controllo di un settore, come quello della distribuzione del gas (ma il discorso riguarda, più in generale, la materia dei servizi pubblici), capace di assicurare guadagni in termini sia economici, sia di peso politico.
    Viene da chiedersi, allora: ma la vogliamo davvero la liberalizzazione? In attesa di rispote e decisioni, una (quanto?) lunga vita al regime transitorio…

Leave a Reply