8
Mar
2013

Disparità non è sempre sinonimo di discriminazione

Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)

L’uso delle parole e l’attribuzione alle stesse di significati univoci serve a conferire senso a quanto intendono rappresentare. Ciò è tanto più necessario quando si parla dei diritti della persona e delle violazioni che a danno dei medesimi possono essere operate: perché se si vuole incidere effettivamente sulla realtà, operando le trasformazioni necessarie a un sempre più elevato grado di civiltà, occorre che la realtà stessa venga correttamente esposta. Specificamente, in materia di parità di trattamento tra i generi, non sempre il concetto di “disparità” è sinonimo di “discriminazione”.

 

Queste riflessioni seguono alla “Giornata europea per la parità retributiva”, celebrata lo scorso 28 febbraio, istituita dalla Commissione europea e giunta alla sua terza edizione. La data per il 2013 non è casuale: si tratta del 59° giorno dell’anno perché, secondo le ultime rilevazioni della Commissione, 59 sono i giorni che una donna dovrebbe lavorare in più per guadagnare quanto un uomo. In occasione di questo evento, da più parti è stata ribadita la necessità che venga colmato il c.d. gender pay gap, il divario retributivo di genere, vale a dire la differenza di remunerazione tra donne e uomini calcolata sulla base del differenziale medio nel salario orario lordo di lavoratrici e lavoratori:  del 16,2% nella UE, del 5,3% in Italia, secondo le cifre diffuse dalla Commissione europea. Negli ultimi anni il divario si è ridotto, ma – come precisato da Viviane Reding – il lieve livellamento è imputabile alla circostanza che, a causa della crisi, gli uomini guadagnano di meno e non invece al miglioramento delle condizioni retributive per le donne. Anche per questo motivo, in sede UE sono stati elaborati progetti e documenti al fine di valutare l’applicazione pratica delle disposizioni in materia di parità di retribuzione e sensibilizzare le imprese ai vantaggi economici che possono derivare dall’uguaglianza di trattamento tra i sessi.

 

Nei commenti che hanno accompagnato la giornata celebrativa non sono stati posti in rilievo i fattori dei quali le asimmetrie retributive tra i generi costituiscono il risultato né si è operata alcuna distinzione tra quelli oggettivi e quelli derivanti da comportamenti iniqui: al contrario, evidenziandosi il concetto di “disuguaglianza” nei salari, si è teso prevalentemente a connotare quest’ultima come conseguenza di una discriminazione diretta o indiretta della quale le donne sarebbero oggetto e che costituirebbe il principale ostacolo a un’effettiva parità.

 

Detta impostazione, volta a evidenziare la posizione di svantaggio femminile a causa del genere di appartenenza, appare oltremodo forzata laddove si abbia riguardo – oltre all’esiguità e alla tendenziale riduzione delle differenze salariali tra i sessi – alle numerose misure, normative e non, volte a promuovere nel tempo, sia in ambito europeo che nazionale, la parità di genere nonché agli strumenti di tutela di quest’ultima anche in sede giurisdizionale.

 

Per quanto in particolare attiene all’ordinamento nazionale, a partire dal riconoscimento costituzionale (art. 37) della parità di trattamento dei generi sotto il profilo lavorativo, con specifico riferimento all’aspetto retributivo, la legislazione ha perseguito obiettivi dapprima di uguaglianza[1], quindi di promozione delle pari opportunità: dalla tutela della lavoratrice madre, al divieto di qualunque discriminazione fondata sul sesso nell’accesso al lavoro e nell’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e delle progressioni di carriera; al riconoscimento alla lavoratrice della stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore; alla previsione delle c.d. quote rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate e nelle giunte degli enti locali.

 

Quanto sopra premesso, difficilmente può sostenersi che il divario retributivo sia riconducibile in toto a una discriminazione operata a danno del genere femminile, salvo affermare che vengano costantemente e impunemente da più parti violati diritti costituzionalmente garantiti. Considerato, pertanto, che vi è una complessità di fattori che concorrono a determinare differenze salariali, sono state effettuate nel tempo ricerche volte a evidenziare, interpretare e quantificare i motivi sottostanti al persistente divario.

 

Tra queste, da ultimo si segnala uno studio effettuato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, presentato nel corso della Conferenza europea “Le diverse dimensioni della discriminazione”, svoltasi a Trani il 9 giugno 2012. Lo studio, dal titolo “Il gap salariale nella transizione tra scuola e lavoro”, basato sull’osservazione delle carriere di circa trentamila laureati di Milano, diplomatisi tra il 1985 e il 2005 in 13 licei classici e scientifici della città, evidenzia come, nonostante i migliori risultati conseguiti dalle donne nel corso delle scuole superiori, le stesse si orientino verso facoltà che preludono a impieghi meno retribuiti rispetto a quelli cui conducono gli studi universitari intrapresi dai colleghi maschi. Ciò a dimostrazione della circostanza che il gap salariale di genere, quantificato dal rapporto in esame nel 37 per cento circa, dipende tra gli altri fattori da scelte effettuate liberamente, prima ancora che da eventuali disparità di trattamento nel mondo del lavoro.

 

In particolare, facoltà quali ingegneria, economia, matematica (medicina a parte, dove le quote femminili e maschili si eguagliano), legate a professioni più redditizie, sono state scelte dal 65 per cento dei ragazzi del campione e solo dal 20 per cento delle ragazze. Mentre per percorsi universitari quali scienze dell’educazione, scienze umanistiche, architettura, sfocianti in attività meno remunerative, hanno invece optato il 35 per cento delle femmine e il 10 per cento dei maschi.

 

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Nonostante il divario retributivo che, come si è visto, è imputabile (per circa il 30 per cento, stando allo studio di che trattasi) anche alle scelte effettuate dalle donne al momento di iscriversi all’Università, il sesso non sembra pesare in termini di occupazione perché la differenza di genere fra occupati non va oltre il 7 per cento.

 

Sui motivi in base ai quali le donne si orientino verso facoltà che non consentono loro di conseguire  la competenza necessaria a svolgere determinate professioni e, quindi, risultati retributivi equiparabili a quelli maschili, nonostante capacità scolastiche migliori rispetto a quelle degli uomini, il rapporto fa alcune ipotesi  legate a caratteristiche individuali, quali la minore competitività e la maggiore propensione al sociale da parte delle donne. Tali ipotesi trovano, peraltro, riscontro in quanto rilevato dalla psicologa canadese Susan Pinker nel libro “Il paradosso dei sessi” (Einaudi, 2009). Il successo scolastico femminile non porterebbe ad analoghi risultati in ambito professionale, contribuendo così a mantenere elevato il gender gap, poiché anche in Paesi che offrono alle donne maggiore stabilità finanziaria e protezioni sociali, quali  Norvegia, Svizzera, Stati Uniti, Canada, e Regno Unito, le donne manifestano comunque maggiore inclinazione verso ambiti umanistici e sociali. Invece, in Paesi dove l’economia è più arretrata come Thailandia, Russia, Filippine, il numero delle donne impiegate in campi scientifici è almeno del 30-35 per cento contro il 5 per cento di Canada, Giappone e Germania.

 

In conclusione, tornando ai risultati dello studio italiano e al di là delle scelte effettuate già in sede di iscrizione all’Università, sulle differenze retributive di genere pesano di certo anche fattori quali il ruolo culturalmente rivestito dalle donne in ambito familiare e la carenza di infrastrutture e welfare che consentano loro di conciliare tale ruolo con la propria attività professionale. E’ in quest’ambito, pertanto, che la legislazione dovrà essere orientata, affinché le donne  possano consapevolmente decidere in quali ambiti svolgere il proprio lavoro. Perché non è con l’imposizione normativa di quote al femminile che potranno essere superati gap culturali, ma è solo con la rimozione degli ostacoli che si frappongono a un’effettiva libertà di scelta che le donne potranno esprimere e, quindi, vedersi riconosciuto il proprio merito. Perché è il merito l’unico vero criterio idoneo a produrre un’effettiva parità di genere, valorizzando ogni individualità: maschile o femminile che sia.

 

 

 


 

[1] Le tappe fondamentali possono essere così puntualizzate: 1950, con la legge sul congedo per maternità; 1962, con il divieto di licenziamento a causa di matrimonio; 1963, con la possibilità per le donne di accedere alla carriera in magistratura; 1975, con il nuovo diritto di famiglia; 1977, con l’introduzione del principio di  parità di trattamento in ambito lavorativo. Inoltre, il legislatore nazionale non solo ha recepito le direttive anti-discriminatorie di genere con appostiti provvedimenti, ma ha anche raggruppato il materiale legislativo esistente nel D.Lgs. 198 del 2006 o Codice delle pari opportunità fra uomo e donna, modificato dal D.Lgs. 5 del 2010.

6 Responses

  1. Paolo S.

    Resto di stucco. Se non ho capito male, da questo articolo si deduce che il raffronto viene fatto genericamente su quanto guadagna una donna laureata di xx anni e un pari laureato della stessa età, senza preoccuparsi di sapere “in cosa” sono laureati (ingegneria o conservazione dei beni culturali?), “dove” svolgono il loro lavoro (alla Snam nel deserto libico o in una biblioteca di Poggibonsi?), ma, soprattutto, “con che ruolo” (Capo-cantiere di 500 operai o vice-archivista?). A me risulta che un dottore in economia, responsabile delle risorse umane per un’azienda di 200 dipendenti, che sia uomo o donna, in Italia, ottiene la stessa retribuzione. Che poi, in fase di assunzione, la donna sia svantaggiata rispetto all’uomo è cosa risaputa e se vogliamo, deplorevole. Grazie a Vitalba per aver messo un granello nell’inattaccabile ingranaggio donna->discriminazione->disparità->quote rosa obbligatorie.

  2. Giordano

    Sono un medico. In ospedale le colleghe donne sono la maggioranza, con punte, in alcuni reparti, di 4 a 1 verso i loro avvantaggiati colleghi. Le colleghe fanno, piu’che giustamente, 2/3 figli cadauna e fra gravidanze a rischio (tutte), maternita’, allattamenti (anche se allatta il biberon), part-time e tre anni del bambino “spariscono” in media due/tre anni a gravidanza. Per un totale di sei-nove anni di servizio non svolto, ma pagato. Si, pagato, non retribuito, pagato. Da chi? Dagli altri. Da quelli che non sono li, in reparto, e da quelli che vi sono, i quali, invece non figliano. Se un reparto con 12 cardiologi, dei quali 4 femminucce, ipoteticamente tutte dai 30 ai 36 anni, sitrova le potenziali mamme incinte, gli altri impazziscono. O chiudono. E poi mi parlano di discriminazione… Dove lo trovi un lavoro dove su 40 anni di servizio te ne “abbuonano” il 25% sostituendolo con “altro” , nobile, alto, utile, indispensabile, sacro, ma pur sempre altro? E lasciamo stare anche il”modo” per ottenere il lavoro, che si aprirebbe un cahier de doleances infinito…. Quote rosa? Magari azzurre, ma non rosa….

  3. Jack Monnezza

    Esito ad addentrarmi in un argomento si’ spinoso e facilmente espormi ad accuse di tutti i tipi, ma proviamo a tuffarci…

    Concordo abbastanza con la tesi dell’autrice. ( Come già scritto se l’autrice frequentasse un corso di prosa italiana giornalistica i suoi articoli ne gioverebbero immensamente.) Tesi che, se ho capito bene, le diseguaglianze retributive non sono solo frutto di discriminazione, ma soprattutto di scelte e preferenze diverse.

    Concordo anche tantissimo con @Giordano che sostiene che in Paesi come il nostro il welfare a sostegno della famiglia/maternità e’ imbedded in questi numeri. Conosco poco la Sanità ospedaliera, fortunatamente, ma posso testimoniare che nella Pubblica Istruzione il fenomeno e’ simile e forse peggio. Ho figli che hanno fatto in gran parte scuole pubbliche e le interruzioni e assenze e assenteismo dovute a maternità e accudimento dei figli raggiungono livelli enormi e, da quanto ne so, sono in gran parte remunerate a stipendio pieno. Per non parlare, oltre ai costi, anche dell’effetto sulla qualità. Rimango sempre attonito quando le insegnanti cercano di convincermi che 6 ore tutte di fila, dalle 8 alle 13:30-14 e il sabato a scuola sono pedagogicamente ineccepibili. Evidentemente ci credono tutti idioti che non capiamo che, caschi il mondo, loro devono essere a casa nel pomeriggio alla faccia della qualità pedagogica.

    Cosa fare? Difficile a dirsi.

    Ritengo il welfare per maternità/famiglia irrinunciabile, specialmente visti i tassi di crescita della popolazione italiana. Sarebbe forse meglio però’, invece che welfare mascherato come posto pubblico, ci fosse del welfare diretto come dei notevolissimi sgravi fiscali alle famiglie/maternità e dei sussidi maternità/famiglie erga omnes alla Grillo invece di solo per chi lavora nel Pubblico o solo per i poverissimi o per chi imbroglia sull’ISEE.

    Poi si potrebbe eliminare anche questi congressi di cui parla l’autrice, che immagino paghiamo alla fine noi contribuenti, che presentano statistiche abbastanza idiote e non credo abbiano mai creato un posto in più per le donne.

  4. adriano

    Infatti anch’io a volte mi sono chiesto come poteva esistere differenza di retribuzione a parità di mansioni in situazioni come il pubblico impiego.Se le differenze dipendono dal tipo di professione mi sembra che si parli di niente.Se si pensa di trovare un sistema per eliminare quelle naturali di genere,pure.

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