4
Mag
2010

Diritto di lavorare

Le polemiche sindacali sull’apertura degli esercizi commerciali il primo maggio sarebbero anche potute essere considerate prevedibili: in fondo, dare la possibilità di lavorare anziché manifestare in piazza nel giorno dell’identità sindacalista equivale ad aprire un varco simbolico alla libertà individuale di contrattazione giuslavoristica, quella libertà individuale che minaccia l’esistenza stessa dei sindacati, o quanto meno la missione che si sono scelti, che è quella di stabilire a priori il bene contrattuale dei lavoratori, facendo credere loro di fare meglio di quanto essi non sappiano fare da sé.
Più difficili da accettare sono alcune affermazioni apparse sulla stampa (per quanto orientata) in cui la semantica sindacale raggiunge un lirismo retorico ancora maggiore: lavorare durante la festa del lavoro diventa persino un «ossimoro», ovvero una negazione ontologica, una contraddizione in termini (Nel mirino anche il primo maggio. I sindacati contrari ai negozi aperti, «l’Unità», 24 aprile 2010); e consentire di lavorare sarebbe una bieca strategia «per dimostrare – con uno sfregio simbolico in più – “che voi massa pezzente non contate niente”» (Vogliono fare la feste al lavoro, «Il manifesto», 1 maggio 2010).
Ma la festa del lavoro non vuole forse essere l’occasione per celebrare quel lavoro libero, che realizzi – grazie anche alle garanzie raggiunte negli anni a tutela dei lavoratori – l’individuo nella sua dimensione materiale e morale? Non vuole forse esaltare il lavoro che nobilita l’uomo proprio perché esercitato in libertà di intenti e autonomia? O è forse la festa del lavoro organizzato e gestito da altri rispetto al lavoratore, così nei minimi dettagli da sacrificare la stessa libertà che dovrebbe esserne il presupposto?
Si dirà che i dipendenti e commessi di negozi altrui sono la parte contrattuale debole, che dovrebbe essere tutelata rispetto ai datori di lavori, specialmente nel caso di grande distribuzione e centri commerciali. Vero. Sul piano pratico, tuttavia, non è questo il modo di proteggere i lavoratori. Sul piano teorico – come ha già detto Carlo Lottieri sulle pagine del Giornale del 29 aprile – siamo di nuovo «di fronte a un problema di libertà, che va interamente lasciato all’autodeterminazione contrattuale di datori di lavoro e dipendenti», attese peraltro le garanzie sul massimo di ore lavorative già esistenti.
A parte la libertà del lavoratore, anche dipendente, di scegliere quando lavorare, potendo essere ben interessato a guadagnare uno straordinario in un primo maggio piovoso, c’è poi la libertà del consumatore, che alla prima va incontro in un rapporto di mutuo vantaggio come solo il libero mercato sa determinare.
Una ricerca del Cermes-Bocconi commissionata da Federdistribuzione e condotta nel maggio 2006 dimostra che, con la certezza dei negozi aperti, gli italiani sposterebbero alla domenica (nel senso di giorno festivo) il giorno dedicato agli acquisti, nella misura del 19% per la spesa alimentare e del 25,9% per quella non alimentare; con il raddoppio del numero attuale medio di aperture domenicali (da 14 a 28) aumenterebbe dell’1,96% il consumo di prodotti alimentari e non alimentari, a cui corrisponde un aumento dello 0,29% del PIL e la creazione di 9000 posti di lavori nella moderna distribuzione e di 13.000 potenziali posizioni nella distribuzione tradizionale.
Nel 2006, sempre secondo la ricerca Cermes-Bocconi il 64,5% degli italiani ha fatto acquisti di domenica (nel senso di giorno festivo) nei supermercati, il 56,8% nei centri commerciali, il 54,7% nei centri cittadini, il 39,8% nei mercati ambulanti e il 37,8% nei negozi sottocasa, acquistando soprattutto calzature, prodotti di elettronica e elettrodomestici, articoli per la casa, prodotti alimentari. L’80% degli italiani chiede tuttavia una minore occasionalità nelle aperture festive.
Lasciare che i negozi siano aperti il primo maggio, dunque, sembra essere in primo luogo una piccola occasione di migliorare la qualità della vita per i consumatori: rispetto al 1988, la quantità di tempo libero degli italiani è aumentata solo di due minuti. Gli orari di lavoro sono rimasti invariati, al variare delle condizioni di lavoro e dell’aumento delle difficoltà di spostamento nelle grandi città, con la conseguenza che, ad esempio, le coppie lavoratrici con figli hanno perso 27 minuti di vita in famiglia rispetto al 1988.
Ma sarebbe anche una piccola occasione per un aumento di produttività del commercio al dettaglio, in quanto consentirebbe opportunità di acquisto altrimenti non colte. Sempre secondo l’indagine Cermes-Bocconi, il 54,8% dei cittadini ritiene che le aperture domenicali (nel senso di festive) sono utili per fare acquisti che altrimenti non si farebbero.
Se la motivazione del vil denaro non piace, si pensi sempre alla più moralmente elevata ragione della libertà: la differenza tra un primo maggio in cui è obbligatorio abbassare le saracinesche e un primo maggio in cui è facoltativo tenerle alzate è tutta qui, una differenza tra coercizione e autonomia.

5 Responses

  1. alf

    Certo, sono infatti la cassiera di supermercato, la commessa della tintoria e quello del negozio di elettronica che decidono se tenere aperto l’esercizio oppure festeggiare in piazza (o in qualsiasi altro posto) il 1° Maggio. Il tuo discorso della “moralmente elevata ragione della libertà” è totalmente a sproposito. A meno che a fianco della libertà del proprietario di tenere aperto l’esercizio non sia concessa analoga libertà al suo dipendente di starsene a casa.

  2. Roberto

    x alf Infatti il dipendente è libero di starsene a casa, a parer mio il lavoro non è un diritto, è un contratto stipulato, se non vuoi rispettarlo (lavorare il giorno festivo) sei liberissimo di farlo. A nessuno piace lavorare i giorni festivi, è una scelta, è un sacrificio, ti fai due conti, se vale la pena lo fai altrimenti ci sarà qualcuno in cerca di lavoro nei giorni festivi e ne sarà ben felice.

  3. Serena Sileoni

    Grazie dei commenti,
    @ alf: a mio avviso, una libertà per datore e lavoratore di contrattare individualmente l’orario di lavoro non compromette i giusti interessi del secondo, poiché l’ordinamento giuslavoristico è sul punto pieno di garanzie per i dipendenti, quanto a orari massimi, turni, etc. Sono pronta a scommettere che molti dipendenti sarebbero disposti a lavorare un giorno festivo con una paga maggiore e avere poi un giorno libero qualsiasi, scambiandosi tra loro i turni, cosa peraltro tanto più facile quanto più le strutture sono grandi (ipermercati, centri commerciali, etc.) Non voglio affatto abbandonare il lavoratore, ma non credo che un obbligo proveniente dalla sede centrale sindacale a NON lavorare sia di aiuto a qualcuno.

  4. michele penzani

    Il problema, che sfugge anche nello studio citato dall’autrice dell’articolo, è la collimazione tra le esigenze-volontà di consumo e l’offerta di tale servizio, che è semplicemente un’ottimizzazione di due organizzazioni di tempo.

    L’apertura delle attività commerciali 365 gg l’anno non sarebbe così difficile da realizzare, senza grandi contrasti delle varie parti in causa, se solo si avesse la professionalità (ed onestà) nel rilevare quali sarebbero le fasce d’orario d’apertura adeguate.

    Non ha senso, come avviene tutt’ora, tenere aperte strutture dalle ore 9,00 alle ore 22,” anche in giorni festivi, quando, dai dati di affluenza a disposizione dei centri, si rilevano deserti in determinate fasce d’orario…In cui gli esercenti hanno comunque delle spese fisse che non ottimizzano i guadagni e che si rivelano, per contro, consumi inutili di energia e che rappresentano solo guadagni solo per chi affitta i locali…E che non offrono, in quegli orari, gli stessi servizi di animazione, sicurezza (anche nei parcheggi) e quant’altro.

    L’estensione di tale orario di lavoro impone, attualmente troppi costi che non hanno nulla di ergonomico…E lo dimostrano solo il n° delle casse che rimangono aperte in certi orari nei supermercati siti nei centri…

    In Svizzera vi sono diversi centri aperti quasi tutto l’anno…Ma andiamo a verificare l’estensione dell’orario. Nel resto dell’Europa, già solo nella patria Francia dei CC, non ne parliamo.

    Un esercente sito anche in centri commerciali.

  5. andrea

    Io sono dell’idea che il primo maggio sia un momento in cui si ha il dovere di celebrare una ricorrenza storicamente sancita.
    Non si può ragionare in termini di produttività e consumi per una singola giornata, mi sembra una forzatura macroeconomica che vuole scavalcare un’impostazione simbolica.
    Però…
    l’adesione al primo maggio deve essere spontanea e volontaria, altrimenti diventa un imprimatur imposto da altri che viola l’autodeterminazione. E’ il solito discorso delle ricorrenze non condivise, come per il 25 aprile (che dovrebbe essere festa di tutti sul modello 14 luglio francese): non tutti hanno le stesse sensibilità, non per questo le si può obbligare.
    Lo stesso discorso valga però a Natale e a Pasqua.

    Mi sia concesso infine di riternere che tutto il discorso di libertà fatto dall’autrice ha validità solo nel caso in cui il dipendente sia veramente in condizione di effettuare liberamente la scelta tra lavorare o stare casa, in assenza di pressioni più o meno velate del datore di lavoro.
    saluti

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