10
Gen
2010

Samuel Gregg: Crisi finanziaria. Le lezioni che ancora dobbiamo imparare

Presentiamo ai nostri lettori questo interessante commento di Samuel E. Gregg.

È trascorso ormai più di un anno da quando la crisi finanziaria del 2008 ha seminato il panico nell’economia mondiale. Decine di libri e di articoli sono stati pubblicati per spiegarci cos’è andato storto. Il dito è stato puntato contro i colpevoli più disparati, dai finanzieri di Wall Street e la loro eccessiva propensione ad accumulare rischi e debiti alle pressioni di lobby di attivisti come ACORN affinché i requisiti per la concessione dei mutui venissero allentati, fino a giungere a quegli esponenti politici che, legati a doppio filo a società immobiliari garantite dal governo federale come Freddie Mac e Fannie Mae, non hanno esercitato la dovuta vigilanza.
Schiere di dottorandi continueranno a indagare ancora per molto tempo i risvolti più reconditi della crisi del 2008. Tuttavia, a giudicare dalle reazioni delle autorità, è evidente che le lezioni della crisi sono bellamente ignorate dai decisori politici. Qui di seguito ne illustreremo cinque.
Probabilmente la più importante delle cinque lezioni rimaste ignorate riguarda il pericolo dell’azzardo morale. Il messaggio che le reazioni di numerosi Stati hanno trasmesso al mondo economico è questo: se siete abbastanza grossi (o se avete importanti relazioni con esponenti politici influenti) e vi comportate in modo irresponsabile, potete comunque attendervi che le autorità vi mettano al riparo dalle conseguenze delle vostre azioni. Quale altro messaggio potrebbero mai aver desunto società quali AIG, Citigroup, Royal Bank of Scotland, Lloyds e Bank of America dai vari salvataggi e dalle numerose nazionalizzazioni di fatto?
Una seconda lezione non appresa è che, una volta che si permette alle autorità pubbliche di aumentare il proprio coinvolgimento nell’economia al fine di affrontare una crisi, è estremamente difficile riportare indietro le lancette dell’orologio. Anzi, di solito si verifica il fenomeno opposto.
Chi ricorda, oggi, i salvataggi e i pacchetti di misure di stimolo all’economia che hanno suscitato dibattiti tanto accesi nel 2008? Quei provvedimenti sbiadiscono di fronte agli eccessi in campo fiscale di cui si sono macchiati nel 2009 i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna. Una recessione e i successivi interventi statali creano un’atmosfera in cui misure che fino a ieri sarebbero apparse gli implausibili parti di una fantasia malata (come un progetto di legge di riforma sanitaria di 1900 pagine, che comporterà costi di un migliaio di miliardi di dollari nell’arco di dieci anni, il tutto in un periodo di deficit fiscali senza precedenti) possano essere seriamente proposte. Analogamente, il salvataggio di General Motors e Chrysler da parte dell’Amministrazione Bush si è tramutato nella nazionalizzazione di fatto delle due case automobilistiche da parte dell’Amministrazione Obama.
In terzo luogo, sembra che non vogliamo accettare il fatto che quelle misure che ci erano state descritte come l’unico baluardo che si frappone tra la stabilità e l’apocalisse economica hanno immancabilmente ripercussioni negative impreviste (o, talvolta, fin troppo prevedibili), che creano problemi di non facile soluzione.
Ad esempio, Sheila Bair, presidente della Federal Deposit Insurance Corporation ha recentemente affermato che la decisione del governo federale di acquisire una compartecipazione alle banche a rischio di fallimento è stata, col senno di poi, un errore. Non solo la parziale proprietà pubblica ha complicato il problema dell’azzardo morale, ma ha altresì creato alcuni dilemmi che nascono direttamente dall’intervento pubblico. «Dobbiamo limitare salari e bonus—si è chiesta la Bair—perché i contribuenti sono in parte proprietari di queste banche? Ma così rischiamo di peggiorarne le condizioni, in quanto i salari ridotti potrebbero scoraggiare l’arrivo di nuovi dirigenti, il che è talvolta la cura necessaria».
Quarto, abbiamo il difficile problema della conoscenza. Oggi è generalmente ammesso che la crisi del 2008 è stata causata in buona misura dal fatto che la Federal Reserve ha tenuto basso troppo lungo il livello dei tassi d’interesse. Ciò nonostante continuiamo a illuderci che un gruppo di individui (i sette governatori della Fed) possa gestire l’equilibrio monetario e creditizio di un’economia che nel 2008 produceva beni e servizi per 14.400 miliardi di dollari nel tentativo di raggiungere obiettivi che spesso si elidono a vicenda: prezzi stabili, tasso di occupazione ottimale e tassi d’interesse di lungo periodo moderati.
La quinta lezione consiste nella riluttanza ad accettare in quale misura la crisi finanziaria rifletta il disfacimento del concetto di responsabilità fiduciaria, ossia la responsabilità morale e legale che si acquisisce non appena ci vengono affidate le risorse di un’altra persona.
Molti dirigenti di aziende sono stati giustamente stigmatizzati per i loro fallimenti. Ma che dire allora dei consigli d’amministrazione che hanno presieduto al fallimento di Lehman Brothers, Fannie Mae, Freddie Mac e delle 147 banche che hanno dichiarato fallimento tra il gennaio 2008 e il novembre 2009?
Perché i componenti del consiglio d’amministrazione di queste società non hanno messo in discussione il fatto che i profitti della loro banca derivavano in buona parte dall’alchimia di prodotti finanziari che nessuno sembrava in grado di capire realmente, come la cartolarizzazione di mutui e ipoteche? Perché hanno voluto credere a relazioni che affermavano che quei modelli di investimento potevano fallire solo una volta in un milione di anni? Perché questi consigli d’amministrazione si sono mossi per sostituire i loro fund manager solo quando le loro società si trovavano sull’orlo del fallimento? E perché, infine, si sono voluti convincere che i profitti trimestrali della loro azienda bastassero a dimostrare di avere assolto alle loro responsabilità fiduciarie?
Ovviamente tutti sanno che, per un consiglio d’amministrazione, occuparsi dei dettagli più minuti della gestione della rispettiva società è spesso controproducente. Ma la responsabilità fiduciaria nei confronti degli investitori comporta l’obbligo di fare domande ai dipendenti dell’azienda e a prendere provvedimenti ogniqualvolta le risposte sono incomplete o reticenti. Si tratta dell’obbligo morale di chiunque sia nella posizione di gestire le risorse altrui.
Una società è tanto più forte quanto più dimostra di saper imparare dai propri errori, modificando di conseguenza il proprio comportamento. Purtroppo, nel caso dell’America e della maggior parte dei paesi occidentali, la crisi del 2008 potrebbe essere ricordata come un esempio di quanto poco siamo disposti ad imparare.
Samuel Gregg è Direttore delle Ricerche presso l’Acton Institute. È autore di svariati libri, tra i quali On Ordered Liberty e The Commercial Society. Il suo nuovo libro, “Wilhelm Röpke’s Political Economy”, verrà pubblicato all’inizio dell’anno.

Questo articolo è stato orginariamente pubblicato sul sito dell’Acton Institute, che ringraziamo per la gentile disponibilità alla ripubblicazione.

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