11
Gen
2010

Regime uncertainty

Di recente sono usciti un articolo sul WSJ e un post su O&M che parlano di regime uncertainty. L’articolo del WSJ, di Becker e Murphy, come il post di Pirrong che cita una prima formulazione della teoria da parte di Schumpeter, applicano una teoria che può essere approfondita leggendo questo articolo di Robert Higgs sulla Grande Depressione.
Io non sono minimamente sorpreso dalla crisi, sapevo che sarebbe avvenuta (non quando) e sapevo che linee avrebbe preso, più o meno (tranne per il fatto che solo di recente mi sono fatto un’idea di cosa ci sia nei mercati finanziari). Non mi stupisco della durata né della profondità della recessione, non mi stupisco dell’elevata disoccupazione né della crisi bancaria né dell’incertezza delle previsioni su ciò che avverrà nel breve-medio termine.
Non me ne stupisco perché vedevo il mondo con gli occhi della cosiddetta “teoria austriaca del ciclo economico”, che, se non fosse stata sviluppata negli anni ’30, si direbbe essere una teoria ad hoc fatta per spiegare la crisi odierna, essendo un “fit” pressoché perfetto delle recenti dinamiche dei mercati reali.
La teoria austriaca dice che la crisi è il riaggiustamento reale ad una insostenibilità reale della struttura produttiva. L’attuale crisi è anche un riaggiustamento reale all’insostenibilità reale della struttura finanziaria, idea che negli austriaci è sempre stata tenuta in formalina, ma che è una naturale estensione della teoria standard degli anni ’30. Tra tutte le teorie del ciclo economico, quella austriaca è l’unica che concepisce la possibilità dell’inconsistenza strutturale del sistema economico, creata in genere (non necessariamente ma quasi sempre) dall’abuso della politica monetaria, e ne deriva le conseguenze economiche.
Non ne risulta però che tutti e soli gli strumenti concettuali austriaci bastino a spiegare ogni crisi: nella Grande Depressione il regime uncertainty di Higgs e Schumpeter e la rigidità dei salari indotta da Hoover e Roosevelt, come anche il protezionismo e la cartellizzazione dell’economia, i programmi di spesa pubblica ed espansione del credito per scavare buche e riempirle (specialità giapponese, negli ultimi due decenni, roba da Mai Dire Banzai) giocarono un ruolo fondamentale nel rendere la crisi profonda e lunga.
Gli articoli linkati precedentemente cercano di spiegare l’attuale crisi allo stesso modo. Io non escludo e, anzi, sono convinto, che si tratti di un’ottima spiegazione, però è una spiegazione complementare a quella di riassetto strutturale tipica degli austriaci.
Solo su una cosa non condivido lo scritto di Becker e Murphy: il far pensare che l’ampiezza del rebound del 1983 sia prova che oggi si sia sbagliato qualcosa per via del regime uncertainty. In realtà, la crisi del 1983 e anni precedenti fu una crisi di ristrutturazione, in cui l’economia passò da una dinamica insostenibile ad una sostenibile. Dov’è questa ristrutturazione oggi? L’economia sembra esser forzata a non ristrutturarsi, per evitare una crisi acuta, col risultato che nel lungo termine l’inefficienza e l’irresponsabilità continueranno a giocare un ruolo chiave nelle dinamiche macroeconomiche.
Il paragone giusto è con la ripresa del 2001: anche quella fu jobless e lenta, come l’attuale. Eppure non c’era certo regime uncertainty: non avevamo il nuovo Roosevelt, Obama, a trasformare gli USA in una socialdemocrazia scandinava. Come mai allora la ripresa fu lenta anche nel 2001? La gravità dell’attuale crisi è che i problemi strutturali del 2007 erano maggiori di quelli del 2000. La lentezza della ripresa nel 2001 fu dovuta al fatto che i problemi strutturali del 2000 erano più gravi di quelli del 1990. Tutto qui: la crisi può essere resa peggiore dal regime uncertainty, ma la causa primaria è l’insostenibilità strutturale. Abbiamo bisogno di Mises, e non di Schumpeter, per capire questo.
Il regime uncertainty spiega un problema, ma non tutto il problema. Spiega che una politica miope e statalista renderà le cose ancora peggiori, ma anche se non ci fosse il regime uncertainty la crisi sarebbe grave, e non è certo colpa di Obama se l’attuale crisi è così profonda: la colpa è di chi ha messo Greenspan a capo della Fed nel 1987, semmai, e cioè Reagan, e di chi ce lo ha lasciato, e cioè Bush I, Clinton e Bush II. Venti anni di follia sono troppi per avere un solo colpevole, del resto.

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14 Responses

  1. Utilizzo questo commento al post per porre un quesito al Blog: ieri il Sole 24 ore ha dedicato una mezza pagina alla sconfitta della scuola di Chicago ed io pensavo, fin dalla mattina, di trovare almeno una confutazione a quanto scritto…Nulla da dire contro la presunta vittoria di keynes?

  2. Pietro Monsurrò

    Direi di distinguere la politica dall’economia, cioè l’esercizio del potere sull’economia (politica economica) dallo studio dei fenomeni economici (economia politica).

    Politicamente vincono sempre i peggiori, quindi non mi stupisco che vincerà Keynes. La politica non funziona granché e le scelte collettive sono inefficienti, quindi di fronte a dei sintomi, in genere si danno una diagnosi errata e una terapia ancora peggiore.

    Il problema del trionfo politico è che a volte diventa anche un trionfo teorico, come quando negli anni ’30 si diede retta a quell’asino di Keynes anziché a Mises e Hayek.

    Nei miei passati articoli ho scritto e lungamente argomentato tre cose:

    1. L’attuale crisi è stata causata dalle politiche keynesiane, è quindi una crisi della discrezionalità e dello short-termismo.
    2. La principale alternativa ai keynesiani, cioè il monetarismo o il neoclassicismo (che in genere tratto assieme, ma sono diversi), non fornisce strumenti diagnostici adeguati per capire i problemi.
    3. L’alternativa ad entrambi è la Scuola austriaca, che non difende politiche economiche dannose come i keynesiani, e sa spiegare problemi che i monetaristi non sono in grado nemmeno di concettualizzare.

    Diciamo che stiamo nel lungo termine di un neoliberalismo di stampo Chicago anziché Vienna, con le sue debolezze e contraddizioni, che ha lasciato la libertà intellettualmente indifesa. La vittoria di Reagan negli anni ’80 è stata una vittoria di Pirro, fondata su basi instabili e contraddittorie.

    Ovviamente questa è la mia interpretazione. Io non ho nulla a che fare con Chicago, essendo di impostazione teorica viennese, e l’unica cosa che posso dire in difesa delle teorie “liberiste” di stampo non austriaco è che almeno i monetaristi non avrebbero prodotto questo disastro. Il blog si chiama Chicago-Blog perché evidentemente sono una minoranza e non rappresento nessuno, ma queste sono le mie idee, e di articoli in cui dico queste cose ce ne sono diversi su questo sito. 🙂

  3. Pietro Monsurrò

    Sono inutilmente prolisso. L’essenza della mia idea è:

    Dio salvi la politica economica dai keynesiani.
    Dio salvi l’economia teorica dai keynesiani e dai monetaristi (e dai neoclassici).
    Dio è Mises.

    😀

  4. Non capisco tutta questa voglia di addossare colpe a Reagan.
    Nel quadro della situazione economica e geopolitica di allora Reagan ha fatto quanto di meglio si potesse fare. E non c’era ancora la rivoluzione tecnologica che ha permesso di fare cose in Finanza impensabili ai tempi di Reagan (…forse le pensava solo qualche generale al pentagono e qualche “secchione” della Silicon Valley)
    Siccome la Storia non si fa con i se e con i ma, non sappiamo (ripeto, NON SAPPIAMO) come si sarebbe comportato Reagan se fosse stato al potere per altri 28 anni.
    Anzi, se usiamo una prospettiva storica, per uno statista avere una vision di 20 anni e più dopo le sue dimissioni è un ottimo risultato. Perfino Churchill fu fatto fuori a guerra finita!!!
    Sotto queste ipotesi, ritengo più corretto dare la colpa a Clinton e Bush figlio…

  5. Pietro Monsurrò

    Io addosso colpe indifferentemente a destra e a sinistra a seconda di quello che fanno. E Reagan fece due cose cattive: mettere Greenspan alla Fed, un demagogo che ha provocato l’attuale disastro, e raddoppiare il debito pubblico. Questo non per criticare tutto il resto, che a me piace: è semplicemente un dato di fatto.

    La mancanza di serietà fiscale e monetaria a partire dagli anni ’80 ha le sue radici nell’Amministrazione Reagan, non in Obama o Clinton o Kennedy. Che poi gli altri abbiano perseverato negli stessi errori, più o meno, è un altro dato di fatto.

    Se gli USA avessero sempre mantenuto un deficit non indecente e una politica monetaria seria alla Volcker, Obama forse sarebbe stato impensabile, esattamente come senza la fondazione della Fed, senza Wilson, senza i Roaring ’20s creati da Benjamin Strong, e senza Hoover, non ci sarebbe stato Roosevlt a trasformare gli USA in una socialdemocrazia.

  6. Non è una questione di destra e sinistra che sono concetti ottocenteschi e ideologici ormai senza senso.
    Il tema è che la Storia non si fa con i se (abbondanti nella tua risposta). Di fatto Reagan ha lasciato nel 1988, se non erro 28 anni fa (più di una generazione).
    Con altrettanta cognizione di causa potrei dire:”siccome Reagan era un pragmatico, guardando i dati empirici, si sarebbe accorto che Greenspan stava facendo un lavoro non corretto e lo avrebbe mandato a casa nel 1994″. E’ un’affermazione altrettanto incontestabile che la tua.
    Di fatto, al di là dei circoli di teoria economica e, ovviamente, gli economisti di fede contraria, sfido chiunque a dire che Reagan avrebbe dovuto accorgersi che Greenspan era un demagogo. Ricordo che Reagan altre priorità. Doveva uscire dal disastro Carter e doveva affrontare una situazione geopolitica completamente (dico COMPLETAMENTE) differente (si pensi solo a cosa era la Cina negli anni ’80 e cosa è oggi).
    Ribadisco la mia posizione. Dare colpe a Reagan è una cosa senza senso.
    Termino qui. Grazie.
    azimut72

  7. Davide

    Trovo anch’io, da amante della scuola austriaca, che criticare Reagan per l’opera di Greenspan sia assolutamente fuori luogo.
    Nello specifico, a me piace molto questo grafico (spero si veda giusto):
    http://research.stlouisfed.org/fred2/graph/?chart_type=line&s%5B1%5D%5Bid%5D=M3&s%5B1%5D%5Btransformation%5D=pc1
    Quello che vedo io è che per tutti gli anni ’80 l’opera di Volcker si è tradotta in minore crescita della massa monetaria, una sorta di “disintossicazione” dall’inflazione anni ’70 per arrivare ad un sistema economico poggiato su basi sostenibili, e su questo credo che siamo d’accordo.
    Però vedo anche che dalla comparsa di Greenspan nel 1987 questo trend non è assolutamente cambiato fino al 1993-94 (si notino i tassi di crescita di M3 prossimi allo 0).
    In altre parole trovo che, fino alla comparsa di Clinton, Greenspan (le cui corrette idee “giovanili” non sono peraltro un mistero) abbia proceduto sulla via di disintossicazione impostata dal suo predecessore.
    Sul perchè a quel punto Greenspan abbia cambiato radicalmente rotta, possiamo discuterne finchè volete, ma non vedo che senso abbia dare a Reagan la colpa del fatto che Greenspan abbia fatto il “bravo” per 6 anni per poi cambiare in toto, rinnegando anche sè stesso.
    Non solo dopo che Reagan non era più presidente, ma anche dopo che Bush sr non era più in carica.
    Se devo cercare un responsabile per quel mutamento, mi viene spontaneo trovarlo in chi era al comando (indirettamente anche sulla Fed) in quegli anni, e cioè in Clinton.
    Cosa avrebbe dovuto fare Reagan, immaginarsi che Greenspan sei anni dopo sarebbe stato pronto a rinnegare tutto, a fare un’inversione di 180 gradi, in probabile ossequio al nuovo presidente democratico?
    E anche se lo avesse fatto, forse Clinton non avrebbe nominato un governatore “adatto” all’implementazione di queste politiche?
    Sul debito pubblico se ne può discutere.
    PS: anch’io do le responsabilità a dx ed a sx indistintamente. Bush jr, da questo punto di vista, è stato infatti un vero e proprio disastro.
    Ma dare a Reagan colpe di un voltafaccia avvenuto svariati anni dopo non mi pare proprio il caso.

  8. Pietro M.

    In effetti il mio precedente commento era un po’ stupido.

    Quindi riformulo la chiosa dell’articolo: inutile prendersela con Obama oggi, che fa politiche idiote ma ha solo ereditato il problema e non l’ha creato (anche se rischia comunque di esacerbarlo, magari proprio per via del regime uncertainty). Se si vuole cercare la responsabilità, bisogna risalire al 1987, cioè all’inizio della grande era dei bailout manu monetari iniziata da Greenspan.

    Stiamo di fronte ad una shared responsibility che dura quindi da 23 anni, e che ha pian piano portato, di intervento anticiclico in intervento anticiclico, agli attuali squilibri.

    Reagan di certo non poteva sapere che Greenspan era un idiota, però rimango della mia opinione riguardo l’assurdità di creare deficit e debiti pubblici a quei ritmi.

    Ora passo alla storia della datazione del boom.

    Nel 1987 ci fu il primo “bailout” della nuova era, un intervento per aiutare i mercati finanziari. Poi ci fu la recessione del 1990. Risalgono al 1997 le prime accuse di creare una Greenspan Put, cioè di drogare i mercati azionari tramite politiche anticicliche asimmetriche, e i primi modelli formali si ebbero nel 2000-2002.

    A giudicare da M3, i mercati si sono accorti della Greenspan put nel 1993, quando cominciarono ad esplodere gli aggregati monetari superiori. M2 parte nel 1995.

    M1, però, parte a manetta già nel 1989.

    MZM è un caso misto, con boom sia nel 1989 che nel 1996.

    M0 mostra chiaramente l’intervento del del 1990, e un frenzy iniziato nel 1995.

    I dati sul tasso di interesse nominale (da buttare i dati 1983 per via dell’inflazione) mostrano chiaramente l’intervento del 1990 (e del 2000 e del 2007).

    Globalmente direi che gli indici sono mixed, anche se storicamente l’intervento del 1987 è stato il primo di una lunga serie, e quello del 1990 il primo rilevante, i mercati si sono abituati alla pacchia relativamente lentamente.

    Sono in effetti un po’ stupito dall’andamento di M3, mi aspettavo fosse più in linea con M1, in crescita sin dal 1987. Chissà quali grafici stavo guardando. Purtroppo tra banche (M1) e finanza (M2,3,ZM) ci sono dei rapporti vairabili ed è difficile analizzare la politica del credito con questi aggregati.

    Sono molti gli aggregati che partono nel 1988 circa, ma non tutti. Non so perché alcuni non sono partiti, però sarebbe interessante approfondire.

  9. Davide

    Certamente sarebbe una cosa molto interessante approfondire.
    Io mi sono fatto l’idea che per capire cosa sta succedendo è più utile guardare aggregati “ampi” (come M3), anche se questo sembrerebbe, a prima vista, in contrasto con la dottrina austriaca. Ma è solo una mia opinione d’istinto.
    Butto sul piatto altri due “dati”:
    -gli indici azionari Usa mostrano un netto cambio di pendenza nel ’95 (grafici facilmente visibili su yahoo finance)
    -l’immobiliare, sornione nella prima metà degli anni ’90, decolla a spanne dal ’97:
    http://img253.imageshack.us/img253/4562/nytshillergraphsept07db0.jpg
    E’ anche per questo che mi sono fatto l’idea di un cambiamento netto intorno a metà anni ’90: sono diverse le cose che collimano.
    A questo punto mi sembra ragionevole pensare che prima sale M3, dopo poco salgono i mercati azionari, e con un po’ di ritardo sale l’immobiliare (ritardo che mi sembra ragionevole).
    Si potrebbe ovviamente ipotizzare che a sua volta M3 salga in conseguenza di altro, ad esempio M1: guardando M1, però, noto variazioni piuttosto irregolari, non vedo cambiamenti veramente strutturali, nè tassi di crescita drammaticamente alti mantenuti a lungo. Il che mi fa pensare che M1 venga manovrato non in quanto importante di per sè stesso, ma solo come “leva” per manovrare gli aggregati più ampi, che sembrano essere quelli che contano veramente a livello di sistema.
    Dopotutto, se pensiamo che Volcker sia stato “bravo” nel disintossicare dall’inflazione, vediamo tracce di ciò nell’andamento di M3, e non di altro. Lo stesso M1, ad esempio, ha un andamento spesso molto altalenante, con un picco bello alto proprio poco prima che arrivi Greenspan.
    NB: queste sono solo mie opinioni per amore di discussione e per cercare di capire meglio, senza pretesa di essere “verità”.

  10. Personalmente ritengo che l’ingresso della Cina nel WTO possa essere visto come un cambio di regime, se non altro perché implica diverse possibilità di specializzazione internazionale del lavoro e quindi una variazione nella frontiera produttiva, chiaramente ampliandola.
    In tal senso si può trovare un fattore “mitigante” delle difficoltà di inizio millennio; e considerando che tale “perturbazione” di regime funziona un po’ come “one shot” che dopo qualche anno può considerarsi riassorbito, si può anche ipotizzare che l’attuale situazione di recessione derivi dagli squilibri reali che montano da una ventina di anni e che non si sono più potuti “nascondere” attraverso salti di regime.

    E’ un po’ l’osservazione che faccio spesso anche a Pietro del fatto che non si è in una situazione di stagnazione dei prezzi o deflazione, bensì si è da sempre in inflazione dei prezzi perché il cambio di regime avrebbe dovuto comportare dei ribassi, e non solo una crescita bassa dei prezzi. In sostanza, per capire la “deviazione” occorre chiarirci prima su quale dovrebbe essere il “sentiero principale”.

  11. Ringrazio Pietro per la spiegazione. La cosa che mi infastidiva era il sentir parlare di liberisti solo per dichiarare il loro fallimento teorico.

  12. Pietro M.

    @Davide
    Aggiungo quattro dettagli che complicano ulteriormente l’analisi.

    1. Si dice operativa una definizione che può essere confrontata direttamente coi dati. Secondo gli austriaci M1 (alcuni dicono M0, altri TMS, che hanno inventato al Mises Institute) è la prova operativa che lo squilibrio intertemporale ha inizio. In realtà questo non deriva dalla teoria, ma è solo un’approssimazione: non esistono definizioni operative di squilibrio strutturale, solo dei fenomeni che sembrano portarci, in genere la crescita degli aggregati monetari.

    2. M1 e M2 (et similia) sono aggregati. Gli aggregati nascondono le dinamiche interne (anche M1, che nasconde movimenti tra circolante e depositi), che invece possono dare informazioni sull’uso della moneta e quindi sugli effetti di iniezione analizzati dagli austriaci. Siccome il credito può essere creato sia dalle banche che da istituzioni non bancarie, tutti gli aggregati dicono qualcosa (e tutti i sottoaggregati pure), ma dicono cose diverse. Quindi è possibile avere un boom generato dalle banche, che muoverebbe M1 e poi M2 et similia, ma anche un boom finanziario, che parte direttamente da M2. Idem per la crisi, che può essere finanziaria o bancaria. Ad esempio, la crisi del 1907 non colpì per niente le banche, ma dei nonbank financial institutions note come trust companies. L’analisi è resa complicata da questo fenomeno.

    3. Finora ho considerato aggregati. Ma perché non considerarne la capacità di generare flussi di pagamento? Non quindi gli stock, ma i flow, o, in termini aggregati, non M ma MV, dovrebbe essere la variabile rilevante. Faccio un esempio: se un’innovazione finanziaria consente di risparmiare un miliardo di dollari per determinate operazioni finanziarie, e se questo miliardo di dollari va a finire in altri investimenti, io posso avere malinvestment, perché ho “investito” due volte la stessa grandezza reale. Questo significa che si può avere malinvestment perché aumentano i flussi di mezzo di pagamento nei mercati finanziari, senza che aumenti il volume dei mezzo di pagamento. Questo rende l’operatività della definizione ancora più problematica.

    Chiariti i problemi di usare Mx come indicatore, quindi, una diagnosi di malinvestment in genere può essere compresa in determini di dMx (la variazione), ma se gli Mx vanno in direzioni diverse, o cambia l’efficienza del sistema dei pagamenti con l’innovazione finanziaria, non è detto che ciò accada.

  13. Pietro M.

    Io trovai mesi fa interessante questo articolo di Garrison:

    http://www.auburn.edu/~garriro/c5fedres.htm

    Dove tratta della politica monetaria negli anni ’80.

    Però non ricordo esattamente di cosa parlava, probabilmente l’articolo mi piaceva perché è praticamente l’unico in letteratura (oltre ad alcune note di de Soto e ad un paper di Mueller) dove il moral hazard gioca un ruolo esplicito.

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