23
Feb
2011

Beni culturali: cercasi “ricetta Italia”

L’Istituto Bruno Leoni, in collaborazione con Confcultura, ha organizzato l’incontro su “Quale governance per i beni culturali?”, a cui ha fatto da premessa il briefing paper: “Pompei. Il ruolo degli incentivi per una buona gestione del patrimonio culturale”, presentato dagli autori Filippo Cavazzoni (IBL) e Martha Friel (IULM).

Pompei è solo uno degli esempi del cattivo funzionamento della pubblica amministrazione, di una governance difettosa e dell’eccessivo ricorso al commissariamento in materia di beni culturali.

Patrizia Asproni, Presidente di Confcultura, ha illustrato le difficoltà di costruire un ponte fra le istituzioni pubbliche e il settore privato, soprattutto se quest’ultimo viene dai più demonizzato.

Capita di dover mediare tra visioni opposte di gestione, talvolta vicine a quella di Mario Resca, che in un’intervista di Vittorio Zincone ha dichiarato di voler fare dell’Italia una Disneyland culturale (http://www.vittoriozincone.it/2011/01/13/mario-resca-sette-gennaio-2011/ ), talvolta affini a quelle del giornalista inglese Stephen Moss, emblema di una visione per certi versi snobistica della fruizione culturale (http://www.guardian.co.uk/science/2010/nov/08/privatise-pompeii-italian-ruins).

Per una via italiana alla valorizzazione, secondo Alberto Garlandini (Presidente della divisione italiana dell’International Council of Museums), bisogna considerare che buona parte del patrimonio è costituito da realtà medio-piccole, conservate e valorizzate perlopiù da soggetti pubblici, spesso lontane dai principali circuiti turistici e dall’interesse degli organi di informazione,.

Dati alla mano, Cristina Ambrosini (Ministero per i beni e le attività culturali) ha riflettuto sulla situazione della Lombardia. In questa regione risiedono 25  “luoghi della cultura” statali (20 ad apertura stabile, di cui 13 a gestione diretta Mibac e 7 gestiti con accordi o convenzioni con Enti locali o altri soggetti) e 360 non statali (fonte Istat 2006), di cui solo 5 superano i 50.000 visitatori l’anno (dati 2009) e si presentano come un insieme variegato di: ricchezza culturale, poco richiamo di pubblico, partecipazione attiva del volontariato, scarsa efficacia economica e connessione col contesto locale non molto sviluppata.

Per la Fondazione Cariplo sono intervenuti Lorenza Gazzero e Alessandro Rubini. La Fondazione porta avanti un approccio “territorialista”, volto ad instaurare un processo virtuoso nella realizzazione dei propri progetti e rispettoso delle peculiarità dei singoli casi presi in esame (a tal proposito si veda il progetto Cariplo “Distretti culturali”).

Federica Olivares (Edizioni Olivares e Università cattolica del Sacro Cuore), citando Longanesi, ha ricordato come “Gli italiani alla manutenzione preferiscono l’inaugurazione”. Capitando così di lasciarsi scappare l’opportunità di essere degni concorrenti di città quali Berlino, Londra, Vienna, dove prima di noi hanno compreso che nel settore in questione bisogna fare rete, muovere le leve del marketing, generare processi di “place making” e riqualificare quartieri. Il tutto per collocarsi più in alto sulla scala dell’attrattività artistica.

Pierluigi Panza (Corriere della Sera) ha invitato i presenti a considerare il fattore “vil denaro”: come si può immaginare di affidarsi al territorio, di rivolgersi ai soggetti pubblici, con il debito pubblico che abbiamo? E ancora, si parla di migliaia di opere in deposito da valorizzare: ma siamo certi della loro qualità? O sono più alti i costi di conservazione dell’effettivo valore? E riguardo all’escamotage del prestito all’estero: l’iter è davvero scorrevole o all’atto pratico ci sono blocchi da parte delle Sovrintendenze? A queste condizioni, nessun privato si mette in gioco. Per non parlare dei 160 corsi di laurea in conservazione dei beni culturali o simili: che futuro professionale possono avere questi laureati)?

Il Mibac in poco più di dieci anni ha attuato quattro riforme, ma nonostante questo permane l’incapacità di spesa, l’inflazione di musei e l’affidamento degli stessi a professionalità pescate a caso, a scapito di gestioni che ne migliorino l’efficienza.

Più che di un modello, a detta di Marilena Pirrelli (Il Sole24Ore), servirebbe un cambiamento drastico, un percorso che, non sorprendiamoci, potrebbe includere anche uno “shock” nel settore. Cioè, l’arrivo al capolinea per i alcuni musei.

3 Responses

  1. marisa cesari

    Sì, ritengo che molti musei dovrebbero essere soppressi. Ogni campanile vuole ed ha il suo museino, visitato da poche persone ma in compenso con troppo personale, quindi troppo costoso.Un buon sistema di videosorveglianza ridurrebbe questi costi inutili. Altro aspetto negativo è l’ arretrata e polverosa esposizione delle opere. Vetrine, ad esempio con molteplici oggetti simili,con spiegazioni di difficile comprensione o spesso riservate agli addetti ai lavori. In merito, ad esempio, ho visto, ormai 20 anni fa in Nuova Zelanda,e recentemente in Germania, musei “a cassetto”:nella vetrina pochi oggetti e se vuoi approfondire apri il cassetto con i relativi collegamenti. Forse ci sono tecniche espositive migliori, basta a mio parere affidare il layaut a esperti della comunicazione, che dovrebbero lavorare assieme ai tecnici, ad ogni modo non gestito dal pubblico ma solo dal medesimo controllato.Il museo dovrebbe non essere un luogo noioso, tutti noi sappiamo che si impara di più se l’esposizione è coinvolgente, oggi ci sono strumenti audiovisivi che possono aiutare in ciò. Spesso mi è capitato di vedere strumentazione nuova e costosa ancora impacchettata e che tale rimarrà, o oggetti rotti che tali rimarranno per sempre. Questi sono solo alcuni esempi della necessità di un profondo cambiamento.La nostra struttura museale, gestita in modo privatistico, potrebbe essere un richiamo turistico economicamente vantaggioso.

  2. Marburgo

    Mi spiace ma la soluzione è peggio di quanto non si creda.
    Abbiamo soprintendenze foderate di gente che chiede l’ESPROPRIO degli archivi privati e vorrebbe rendere illegale il possesso in mano privata di un bene culturale.
    Altro che governance, per salvare il “nostro” patrimonio penso dovremmo smettere di scavare e iniziare a sotterrare quello che abbiamo ripescato.

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