1
Lug
2013

A little less conversation, a little more action please. Riflessioni sul pacchetto lavoro

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Massimo Brambilla.

“Adesso le imprese non hanno più scuse per non assumere”. Poche frasi più di quella pronunciata qualche giorno fa dal premier Enrico Letta riassumono con maggiore cruda efficacia quel misto di incomprensione, diffidenza ed ostilità che caratterizza la percezione che i nostri politici hanno delle piccole e medie imprese italiane.

Cresciuti in contesti culturali in cui il profitto era sterco del diavolo o esproprio delle energie dei lavoratori, ostili all’imprenditoria che non fosse organica ai grandi gruppi prossimi ai centri di potere politici e sindacali, i nostri rappresentanti amano parlare molto di lavoro e poco di impresa, quasi il primo fosse indipendente dalla seconda anzi lasciando trasparire la convinzione che l’unico fattore alla base della disoccupazione sia la cattiva volontà degli imprenditori di fare tesoro delle loro intuizioni in materia di politica industriale.

Forse vale la pena di rassicurare il Presidente Letta e gli appassionati delle teorie del complotto: il motivo per cui strutturalmente la nostra economia, anche quando il contesto macro economico è più  favorevole di quello attuale, produce meno occupazione di altri sistemi economici (come per esempio nel mondo anglosassone o il Nord Europa) non risiede in oscuri piani concepiti nella stanze di Confindustria piuttosto che negli incontri riservati dei Rotary Club ma nelle rigidità del mercato del lavoro italiano.

Il nostro mercato del lavoro fa di tutto per scoraggiare la creazione di occupazione sia perché il sistema formativo è obsoleto e lontano dalle esigenze delle imprese, sia perché il contratto a tempo indeterminato continua ad essere percepito come vincolo di sangue tra impresa e lavoratore, il cui scioglimento o modifica anche in presenza di necessità aziendali tali da mettere a repentaglio la vitalità aziendale è tuttora un tabù.

Prendiamo il primo fattore. L’Economist una settimana fa pubblicava un articolo dal titolo “Dropped Stitches” in cui analizzava come l’assenza di lavoratori qualificati nella manifattura artigianale sia una delle principali minacce che si trova ad affrontare il settore dell’alta moda in Italia. Mentre l’articolo indentificava il fattore alla base di questa problematica nella scarsa disponibilità dei giovani Italiani nei confronti dei lavori manuali, in verità questa analisi trascura che, anche quanto la suddetta disponibilità sussiste, il sistema formativo italiano non prevede programmi in grado di trasferire agli aspiranti addetti del settore tessile o calzaturiero le necessarie competenze. Chi scrive si è trovato anni fa a curare la cessione di un prestigioso brand nel settore della biancheria della casa che soffriva la crisi del settore del ricamo a mano veneziano causata anche dalla scomparsa delle antiche scuole che ne formavano gli addetti. Analogamente spostandosi sulle nuove tecnologie, mentre la stampa 3D condizionerà nei prossimi decenni le dinamiche della produzione di massa, dando maggiore rilevanza alla capacità creativa rispetto alle economie di scala, questo avviene nella totale indifferenza di chi disegna l’offerta formativa del nostro sistema scolastico rispetto all’introduzione di programmi di formazione volti ad apprendere le basi e le applicazioni della nuova tecnologia.

E dire che basterebbe una gita in Canton Ticino, dove il sistema delle scuole professionali (come le Scuole di Arti e Mestieri), adeguando l’offerta formativa alle esigenze delle imprese, forma tecnici, artigiani, funzionari e operai richiesti dal settore produttivo ben prima del momento del diploma in quanto in possesso delle competenze richieste dai futuri datori di lavoro. Certo da un governo che pone tra i requisiti per essere beneficiari degli sgravi contributivi il non possesso di un titolo di scuola media superiore, si fa fatica ad attendere una riforma delle scuole professionali.

Per quanto riguarda la rigidità del mercato del lavoro, gli sgravi contributivi per i nuovi assunti non fanno altro che distorcere il mercato delle assunzioni senza incidere sulla creazione di nuova occupazione se non accompagnati da una flessibilizzazione del mercato del lavoro in entrata ed uscita.

Anche per questo basterebbe un gita in Danimarca (o sempre in Svizzera) in cui, avendo indentificato nelle rigidità del mercato del lavoro uno dei fattori alla base della crisi economica degli anni 80, si è proceduto ad una rivoluzione all’insegna della flexisecurity sia semplificando le procedure per il licenziamento non discriminatorio al fine di garantire agli imprenditori la necessaria flessibilità di risposta agli andamenti del mercato tramite il corretto dimensionamento del numero di addetti dell’impresa, assicurando per contro un’analoga flessibilità in entrata sia liberando gli imprenditori dalle preoccupazioni in merito a quello che comporta un’assunzione a tempo indeterminato in un contesto rigido come il nostro, sia creando programmi di sostegno finanziario e di orientamento e placement per coloro che, momentaneamente, si trovano al di fuori del mercato del lavoro. Oggi in Danimarca convive il più flessibile mercato del lavoro al mondo (fonte IMD 2012) con un tasso di disoccupazione pari al 5,8%, la minore incidenza in Europa degli oneri contributivi sul costo del lavoro (in gran parte finanziati dagli stessi lavoratori) ed uno dei maggiormente efficaci sistemi di sostegno finanziario a favore dei disoccupati.

In fondo basterebbe copiare gli esempi dei nostri vicini virtuosi per riformare realmente il nostro mercato del lavoro con azioni incisive il cui limitato costo sarebbe velocemente compensato dai benefici in termini di maggior gettito. Ma forse ai nostri politici conviene continuare a trattare l’impresa come un nemico piuttosto che un alleato. In fondo niente di meglio di un nemico per distogliere l’opinione pubblica dalle proprie responsabilità in termini di inazione verso le vere riforme di cui il Paese necessita.

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12 Responses

  1. Gianfranco

    Perche’ vede, il disoccupato… per il politico e’ una risorsa.

    Ne’ piu’, ne’ meno.

    Cordialmente.

  2. Graziano Camanzi

    Nulla da aggiungere se non, as usual, un po’ di tristezza perchè queste posizioni non trovano spazio nel dibattito tra le forze politiche, in tutt’altra faccenda affacendate: la perpetuazione dei benefici derivanti dall’attuale situzione, per loro, per i loro amici e per gli amici dei loro amici.
    La domanda vera è, quindi, sempre quella: che fare per mutare la situazione?
    Perchè spero sia chiaro a tutti che non possiamo continuare a permeare e ad accontentarci di aver ragione…

  3. Articolo ineccepibile se fosse stato scritto “entro e non oltre” il 1980.
    Non ho tempo per spiegare il perchè, ma basta fare un giro in germania o in inghilterra per vedere un sacco di italiani qualificati (soprattutti ing. informatici e meccanici) o in qualche supermercato italiano a vedere periti industriali ad affettare prosciutto. In realtà la scuola perpara troppo rispetto a quanto il mercato chiede. Il mercato chiede commessi, installatori di infissi, badanti.
    L’imprenditoria italiana ha la testa corta!

  4. Marco O

    Benissimo, ma anche questa è una verità unilaterale.
    Perché gli imprenditori non si consorziano per far nascere scuole professionali idonee alla loro sopravvivenza? Eppure ci gonfiamo il petto coi nostri “distretti” studiati financo da Porter (e qui concordo sul NOSTRO assoluto provincialismo) Culturalmente credo che ci troviamo in un drammatico deficit di meritocrazia, che spinge tutti ad assumere atteggiamenti settari scaricando le colpe altrove. La meritocrazia è percepita come un pericolo tanto dai sindacati quanto dai datori di lavoro. Le grandi aziende preferiscono tenersi le mani libere per dare funzioni apicali a figure politicamente gradevoli, diffidano da pretese remunerative e comportamentali troppo meritocratiche e così intossicano la flessibilità lavorativa perché è molto rischioso sbattere una porta dell’azienda in cui i mediocri ti condizionano la vita. Le PMI anche loro hanno i compagni di ventura dell’imprenditore che gestiscono cervelloticamente la cinghia di trasmissione dell’imprenditore, gestiscono con difficoltà una politica retributiva flessibile (da quando è diventata problematica la busta in nero). Fino a quando non vorremo basare le nostre fondamenta sulla meritocrazia ma prediligeremo il servilismo o la raccomandazione saremo sempre a fornire multiple diagnosi parzialmente contradditorie ma verosimili alle cause del nostro declino, per cui tutte le parti in commedia potranno guardare la faccia della medaglia che preferiscono. Peccato che la medaglia non sia nemmeno d’oro ma di piombo.

  5. Antonio Staffoni

    @Roberto:
    non credo si possa dare la colpa agli imprenditori se il sistema italiano non forma le competenze richieste dal mercato del lavoro, quali esse siano.
    Può darsi che il ragionamento che negli anni ’80 valeva per i tessili ed i metalmeccanici oggi valga per installatori di infissi, commessi e badanti.
    Anzi é perfino probabile, vista la desertificazione industriale in corso nel nostro Paese.
    Il punto é istituire un sistema di formazione durante lo stesso corso degli studi che non solo informi lo studente su quello che il mercato del lavoro offre ma gli consenta anche di far pratica presso le aziende. Questo avviene in Svizzera, dove ho visto di persona come funziona.

    Ma da noi non succederà, e qui vorrei aggiungere all’articolo, non é solo colpa dei nostri politici.
    Loro sono espressione alla fine della mentalità dominante italiana, che da la precedenza ai titoli e alle “conoscenze” sulla dignità del lavoro, qualsiasi esso sia, come espressione e realizzazione della libertà individuale.
    Il nostro é un sistema ingessato, nel quale chi ha i numeri per emergere non trova opportunità.
    Nella nostra Costituzione il “diritto alla RICERCA della felicità” é sconosciuto: noi abbiamo il diritto al lavoro.

    Sono vizi che vengono da lontano, almeno dal ‘5-600.
    Danesi e svizzeri hanno conosciuto la riforma calvinista. Noi (con la Spagna, guarda un po’) siamo la patria della controriforma.
    Per dirla con Montanelli (“L’Italia del Seicento: L’involuzione economica”): é in quegli anni che “nel vocabolario italiano l’idealista diventa sinonimo di fesso e l’intelligenza di furberia”.

  6. Dino Caliman

    Non solo. Dopo la scelta di permettere la riduzione industriale Italiana e dopo l’analisi di Cantieri (Si finanziano e non si ascoltano) http://www.magellanopa.it/kms/files/Proposte.pdf non è stato fatto molto. Esiste https://secure.avaaz.org/it/peti… Quando? Potrebbe, iniziando, risolvere il problema dei nuovi imprenditori e delle PMI 18M di lavoratori. Si avrebbe risolto compiutamente il problema della trasparenza. Non solo risparmi ,ora così necessari per indirizzarli al rilancio produttivo per l’esportazione,ma primo passo nella riorganizzazione delle strutture Statali e Private.

  7. Mike

    A voglia il buon Letta di esclamare, urbi et orbi, “Adesso le imprese non hanno più scuse per non assumere”. In realtà le imprese non hanno proprio alcuna convenienza a continuare ad investire in Italia. Ma scusi, Presidente Letta : perché un imprenditore del Nordest non dovrebbe trasferire la propria azienda nella vicina Austria? Me lo spiega, per cortesia? Forse perché anche in Austria esiste l’IRAP, che come noto colpisce proprio le imprese che assumono personale? Forse perché anche in Austria esiste l’IMU, che colpisce gli immobili strumentali e che va pagata comunque, anche quando l’impresa è alla canna del gas? Forse perché anche in Austria la tassazione sul reddito d’impresa equivale ad una confisca ? Forse perché anche in Austria non si può avviare un’attività in una settimana? Forse perché anche in Austria c’è l’assoluta incertezza del diritto? Presidente Letta, trovi il tempo per scambiare due parole con Pierre Cardin, il quale, dopo due anni e mezzo persi rincorrendo le scartoffie, l’altro ieri si è arreso di fronte all’ennesimo ostacolo burocratico (vincolo paesaggistico) frapposto alla realizzazione del “Palais Lumière” a Marghera. Da quelle due parole capirà perché, nel mitico Nordest (non nell’Italia del Sud), le fabbriche che hanno o che stanno chiudendo i battenti non riapriranno più.

  8. Marco O

    @Antonio Staffoni
    fin troppo vero, chi ha i numeri è ostacolato quando non deriso per gli aspetti evidenziati da Montanelli, e la Spagna per alcuni aspetti è più germanizzata di noi. Sono convinto che Gewissi abbia fatto bene a spingere per una scuola sulla costruzione stampi per le materie plastiche facendone un punto di eccellenza del territorio
    cosa che avevano fatto prima in Brianza i mobilieri
    Questo oltre a generare competenze promuove una familiarità ed una dignità professionale che incentiva una parte di giovani ad intraprendere queste professioni e gli stranieri ad investire in quei territori

  9. La rigidez del mercado laboral es causa eficiente de la alta tasa de desempleo que soportan muchos de nuestros países. Hay quien dice que el secreto del éxito de la economía americana – in illo tempore – se reducía a la frase ‘you’re fired’. La posibilidad de despedir es la contracara de la generación de trabajo.

  10. @Antonio Staffoni innanzitutto i Danesi non hanno conosciuto la riforma calvinista: sono diventati luterani “per legge” col famose “cuius regio eius religio”.
    Ma a parte questa inesattezza storica, il discorso calvinismo/controriforma è un luogo comune degno di quelli che compaiono settimanalmente su “Il Foglio”.
    Il prof Giulio Sapelli, tanto per citare, fa (lezioni, testi, articolo) un po’ più complessi sul tema cultura/economia.
    Non replico ulteriormente ma ribadisco che come l’ideologia comunista altera la realtà, lo fa anche qualsiasi altra ideologia, liberali compresi!

  11. Giorgio

    Nel 2002 si tento’ di abolire l’articolo 18 e poco dopo l’Italia si fermo’ per sciopero. Il sottoscritto era uno dei 5 (nel mio reparto di 30 persone) al lavoro quel giorno: scioperarono tutti, anche i lavoratori non iscritti al sindacato (piu o meno 3). IL governo sarebbe caduto come era caduto nel 94 tentando di riformare le pensioni.Quello che forse fa piu arrabbiare e che molte delle stesse persone che scioperarono, ora lavorano all’estero in paesi dove l’articolo 18 ovviamente non esiste.
    Ad accusare solo i politici, che e’ pur vero dovrebbero prendere le decisioni per il bene comune anche contro i loro elettori, si finisce col perdere di vista che gli italiani sono almeno altrettanto corresponsabili dei problemi attuali. E quello che piu da fastidio e’ che accettano all’estero (osannandolo!) quello che non accettano in patria.

  12. Roberto

    Oggi sto pagando gli stipendi. Nella busta paga di un neo assunto co.pro. al 10 giugno, mi trovo ad acreditargli uno stipendio lordo pari ad un rateo di 1/12 del valore del contratto di un anno (giustamente). Non ho guardato quanti giorni ha lavorato, anche perchè lavora su un progetto, senza vincolo di subordinazione nè di orario. Però la detrazione fiscale gli è stata calcolata, per legge, al 50% con una pedita per lui di circa €50 sul netto in busta. Che c’entra il calcolo del tempo che ha lavorato con il fatto che il contratto non è a tempo, ma a prestazione su un determinato progetto? Eppure è così.
    La riflessione che ho fatto è che anche uno strumento “flessibile” come il co.pro. (che con la legge Fornero è diventato molto meno flessibile, in verità) è costretto in un sistema di norme talmente rigide che guarda caso penalizzano perfino il lavoratore.
    Per questo motivo il sistema di norme che regolano i rapporti di lavoro andrebbero cambiati per tenere conto delle esigenze di flessibilità, che non vuol dire per forza mancanza di diritti per i lavoratori. Invece, per tutelare i “sacrosanti” diritti di chi lavora, si ingessa tutto il sistema e i risultati sono quelli illustrati nell’articolo.
    Un’ultima riflessione che mi scaturisce dall’articolo, che condivido, è che il lavoro non si crea semplicemente per decreto, o perchè ho defiscalizzato un pezzo dei costi a favore di una categoria, peraltro ristretta, piuttosto che a tutti i possibili destinatari. Il lavoro si crea se le condizioni economiche sono tali da richiedere un maggior numero di persone al lavoro per rispondere alle esigenze di una domanda accresciuta. Ma in questo momento, ammesso che la domanda dei beni/servizi prodotti da un’azienda sia in crescita, quale garanzia ha l’imprenditore di continuità per un certo periodo tale da stimolarlo all’assunzione a tempo indeterminato di risorse aggiuntive? Ecco perchè le aziende fanno i salti mortali e cercano forme alternative, tali che qualora la maggior domanda di prodotti diminuisse di nuovo, la diminuzione del personale non dia luogo a contenziosi complessi che coinvolgono sempre persone e non oggetti (l’imprenditore non è un orco per definizione).
    Qualunque imprenditore sa che il valore della propria azienda è legato anche alla qualità delle persone che vi lavorano, soprattutto le più piccole (e in Italia il 95% delle imprese ha meno di 10 dipendenti e tutte insieme coprono una fetta degli occupati consistente), ma non può garantire un posto a vita a nessuno, non sa neanche se la propria azienda esisterà tanto a lungo.
    Quando i politici comprenderanno che bisogna creare un contesto culturale ed economico favorevole all’attività di impresa, allora sarà possibile mettere mano a politiche specifiche per il lavoro: oggi sono soltanto esercizi spirituali che lasciano il tempo che trovano.

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