30
Ago
2010

Una fenice viennese? – 4

“Vienna vs Keynes”

Veniamo all’ultimo dibattito degli anni ’30 tra austriaci e il resto del mondo: quello sulla macroeconomia. Nella General Theory di Keynes c’è il grossolano errore di storia del pensiero economico per cui i classici non avevano alcuna teoria del ciclo economico, quando in realtà di cicli se ne parlava già a metà ‘800 in Inghilterra, tra currency school e banking school, e ne aveva parlato ancor prima Ricardo. Questo errore – o forse menzogna – divenne però parte dell’ortodossia, tant’è che ancora oggi c’è chi lo ripete.

Sebbene, come ormai convincentemente dimostrato da Ohanian (basandosi anche sul lavoro di Rothbard, a sua volta basato su quello di Chester Phillips), la Grande Depressione sia stata il risultato di errori di politica economica commessi da Hoover e istituzionalizzati da Roosevelt, la principale conseguenza di economia teorica della Grande Depressione fu la rivoluzione keynesiana, una delle più rapide involuzioni del pensiero economico che la (breve) storia dell’economia ricordi.

Per gli austriaci, la macroeconomia senza fondamenta era completamente inutile, e Keynes commetteva l’errore di trascurare tutti i processi di aggiustamento dell’economia di mercato, di riassumere tutta la teoria dell’investimento sotto la nozione non-economica di “animal spirits”, e di trascurare la scarsità: la teoria economica è la teoria di come i prezzi derivino dalla scarsità delle risorse, e la teoria di Keynes era una teoria economica senza scarsità e senza sistema dei prezzi.

Microfondare la macroeconomia è ormai considerato un obbligo per ogni economista che proponga un modello, e quindi qui hanno vinto gli austriaci, anche se in maniera un po’ strana: le microfondazioni ci sono, ma non sono le stesse degli austriaci, sono infatti quelle dell’equilibrio generale walrasiano (con qualche evoluzione). In compenso, gli animal spirits sono tutt’ora l’unica spiegazione economica che si dà delle bolle (l’alternativa è Fama, che dice che le bolle non esistono, ma con tutta la buona volontà è difficile credergli). L’importanza dei processi di aggiustamento, tra aspettative razionali e cicli reali, è ormai largamente compresa, fino al punto che c’è chi dice che l’aggiustamento è così perfetto che non c’è mai nulla da aggiustare (la teoria del ciclo economico reale).

Riassumendo, la macroeconomia si è evoluta dai tempi di Keynes secondo qualche linea tracciata dagli austriaci, ma lo sviluppo è stato diverso, e al giorno d’oggi non esiste un’alternativa di macroeconomia austriaca nota al mainstream. Si potrebbe cercare di avvicinare le due tradizioni di pensiero provando a fare “modelli austriaci” – qualunque cosa questo significhi – e probabilmente qui gli austriaci potrebbero fare molto.

In cosa consiste l'”alternativa austriaca”? A pensare la macroeconomia come un sistema complesso che può incepparsi e avere problemi strutturali (sì, proprio come i mercati finanziari quando i bilanci delle banche saltano), in buona parte causati dalle politiche economiche, e che richiede una recessione per liberarsi di questi problemi strutturali.

Immaginate una teoria economica in cui la banca centrale promette agli investitori ritorni maggiori, e limitazioni delle perdite in caso di crisi, tramite iniezione di credito. Immaginate che l’economia abbia un boom e che gli aggregati creditizi crescano rapidamente perché gli operatori non temono più le perdite (socializzazione del rischio). Immaginate però che questo boom spinga l’economia in uno stato insostenibile, dove si è investito troppo ma si consuma troppo, e dove quindi la continuazione della produzione richiede una riduzione cospicua del consumo (questo era il modello austriaco originale), oppure immaginate che l’economia abbia sviluppato una leva finanziaria eccessiva e per stabilizzarsi debba intraprendere un costoso processo di deleveraging. Immaginate che la recessione sia un processo in cui queste distorsioni vengano eliminate (unito ad altri processi che intensificano la crisi, la cosiddetta “deflazione secondaria”). Ora traducete tutto in equazioni e avrete ottenuto il primo modello macroeconomico austriaco della storia.

Al momento un tale modello non esiste, perché? Perché gli austriaci tendono a considerare la matematizzazione una forzatura che riduce la complessità dell’analisi teorica, e la distorce aggiungendo ipotesi ad hoc e conseguenze artificiose. E perché considerano il confronto con i dati un’attività superflua, visto che alla fine nessuna teoria è mai stata scelta in questo modo, mica solo tra gli austriaci. Non mi riesce di considerare queste due limitazioni come così importanti da non provarci nemmeno.

Però ci sono probabilmente problemi più gravi: ad esempio, nei modelli di equilibrio generale la moneta è normalmente neutrale o quasi-neutrale: come generare quindi un processo distorsivo? La moneta è neutrale in questi modelli perché non gioca alcun ruolo: ma proprio perché non lo fa, non ha granché senso usare questo approccio per l’analisi monetaria. Sarebbe come studiare l’uso della parola in un mondo di esseri telepatici. Questa limitazione è collegata a quelle discusse precedentemente, e probabilmente qui il disaccordo non sarà facilmente rimarginabile.

Finito il sunto molto superficiale dei tre dibattiti, vedremo infine, molto più brevemente, tre punti collegati: il positivismo, il “panglossismo” e il formalismo.

4 Responses

  1. Se non sbaglio per Hayek la matematizzazione di uno schema concettuale non era così sbagliata, l’importante è non confondere un modello “ideale” che può illuminare su un certo sottoinsieme di relazioni con la realtà più complessa e soprattutto non pensare di “fittarlo” se non altro perché fitti “una foto” e non una dinamica.
    Gli austriaci “moderni”, mi pare quindi correggimi, aborriscono la matematica per “paura” di cadere nelle trappole scientiste. Insomma hanno paura di loro stessi.

    Da qui finisce che non esistono lavori matematici per rappresentare le conseguenze sul capitale di interventi esogeni (la non neutralità della moneta), il che sarebbe vitale per un successivo modello matematico che illustrasse il ciclo economico (che comunque i “duri e puri” non vogliono).

    Il dubbio che personalmente continua a venirmi è: se un modello matematico è una riduzione e semplificazione artificiosa dei meccanismi dell’economia (e della società intera), siamo sicuri che un modello meramente “mentale” sia invece in grado di comprendere contemporaneamente tutti gli aspetti? Se la mentre comprende “black box”, cioè punti in cui “non si può sapere che accade ma solo il risultato”, questo è veramente un vantaggio rispetto a un modello matematico?

  2. @Leonardo, IHC
    Dubito che leggendo Hayek si possa trovare un’espressione netta come “questo è sbagliato, questo è giusto”, Hayek non ragionava in maniera digitale, ma in maniera fuzzy. Infatti è molto difficile da leggere. 🙂

    Gli austriaci moderni che fanno capo al Mises Institute – non quelli della GMU – partono da un’interpretazione dell’epistemologia misesiana che è troppo rigida, e arrivano a conclusioni che sono troppo estreme, nonostante cerchino di rifarsi a Mises.

    Le due domande da porsi quando si formalizza un ragionamento sono:

    1. Gli strumenti formali possono catturare l’essenza del ragionamento?
    2. Le ipotesi aggiuntive necessarie alla formalizzazione possono creare artefatti?

    Se la risposta a 1 è no, è difficile andare avanti, perché si perde proprio l’argomento centrale. Se la risposta a 2 è no, basta fare attenzione e non derivare conclusioni artificiose dai conti*.

    Quando Mises scriveva, le teorie formali erano ridicole, e quindi i tentativi di formalizzazione impoverivano l’argomentazione teorica. Oggi il problema si pone con alcuni concetti teorici, ma non si pone più con altri, dunque la formalizzazione parziale ha meno controindicazioni.

    L’ultima domanda non la capisco. La formalizzazione è una traduzione in un altro linguaggio. Questo linguaggio ha dei vantaggi veri (controllabilità del ragionamento) e presunti (quantificabilità), ma ha delle limitazioni. A seconda dei casi, le limitazioni possono essere rilevanti o irrilevanti.

    * Esempio: nel modello di crescita di Solow, il risparmio non influenza la crescita. Questo è il risultato del fatto che l’andamento della produttività totale è esogeno e le economie di scala sono costanti. E’ un artefatto, non una proposizione sensata di teoria economica.

  3. Silvano_IHC

    Il problema dei modelli presenta molte sfaccettature. Ne butto giù alcune.
    1) Un impiego di modelli a scopo didattico, esplicativo e comparativo non credo debba creare problemi di sorta (anche se gli austriaci non brillano in ciò);
    2) L’utilizzo dei modelli a scopo predittivo invece credo sia confliggente in maniera irriducibile o quasi: ritenenere un modello valido usando come unico parametro le capacità di forecasting di questo, da riscontrarsi tramite uno studio econometrico degli aggregati, credo sia metodologicamente non accettabile per gli austriaci. In sostanza significherebbe diventare neoclassici e utilizzare un approccio induttivo, tanto vale fare i neoclassici sul serio allora. Qualsiasi forma si impieghi o per quanto rozzo sia il modello, vi devono essere a monte delle proposizioni, dei ragionamenti o un “corpus” vagliabile analiticamente. Inoltre un austriaco si ferma a formulare leggi di tendenza piuttosto che previsioni, quindi semplificare per costruire un modello imperfetto del proprio pensiero per poi vederselo giudicare da un tritacarne di dati statistici più o meno opinabili non è certo un incentivo al dialogo.
    3) Problemi connessi al tempo: come strutturo una visione del tempo non lineare e quindi non newtoniana ? Una successione di periodi ad ex. è già una “concessione” rispetto al punto di partenza. Di qui viene fuori un altro quesito: quanto meccanicismo devo inserire e quanto soggettivismo togliere ? E lo faccio per amor di scienza o per necessità di marketing, ovvero recuperare quote di mercato ?
    4) Ho letto che alla GMU hanno fatto modelli computazionali e che c’è un certo interesse al riguardo. La programmazione informatica facilita molto la simulazione di agenti e processi dinamici (non solo in economia). Questo pone un’ulteriori questione: quale matematica ? L’homo agens è non atomistico, impara dall’interrelazione ed è calato in un sistema che si evolve e alla cui evoluzione contribuisce lui stesso inconsapevolmente. Può essere modellizzato negli stessi termini dell’homo oeconomicus ? Perché alla fine la sensazione è che agli austriaci piaccia giocare a simlife, mentre i neoclassisici preferiscono costruire dei risolutori di sudoku. In questo caso ipotizzo che un austriaco faccia più volentieri concessioni ai modelli computazionali, alla matematica del caos e ai sistemi non lineari, più in generale a tutti quei filoni della matematica dove lo scopo non è trovare una soluzione (o più soluzioni nel tempo) di equilibrio o meglio è esclusa per definizione.
    6) Penso che gli economisti in grado di applicare gli strumenti matematici sopra esposti in modo conforme alla teoria austriaca (e non solo…) siano veramente pochi. Si può trovare qualcosa di più in finanza: è un settore dove girano soldi, e se il modello di Markovitz non soddisfa, qualcuno disposto a investire nello studio della complessità con frattali o teorie alternative per avere un ritorno si trova sempre. Diciamo che prosaicamente, il denaro non si fa molti problemi epistemologici…
    7) Si può impiegare un metodo che integri più felicemente teoria, dati e storia (vedi Menger piuttosto che Mises). Recentemente riflessioni di Don Lavoie, Boettke, B.Smith conducono in modi diversi in questa direzione. Non credo però si possa rinunciare a specificità determinanti, solo per uscire dal novero degli eterodossi. Una certa dose di ottimismo deriva dal fatto che i principali economisti austriaci contemporanei non sono degli agit-prop.

  4. @Silvano_IHC

    Legenda: tra virgolette quanto scrive silvano, senza virgolette le mie risposte.

    “1) Un impiego di modelli a scopo didattico, esplicativo e comparativo non credo debba creare problemi di sorta (anche se gli austriaci non brillano in ciò);”

    Yes, “Time and money” di Garrison è un ottimo esempio.

    “2) L’utilizzo dei modelli a scopo predittivo invece credo sia confliggente in maniera irriducibile o quasi: ritenenere un modello valido usando come unico parametro le capacità di forecasting di questo, da riscontrarsi tramite uno studio econometrico degli aggregati, credo sia metodologicamente non accettabile per gli austriaci.”

    Sì, un modello predittivo deve fare quello che è stato creato per fare: predizioni. Per scegliere la teoria corretta non va bene. E poi i modelli predittivi in genere fanno ridere come prestazioni.

    “Qualsiasi forma si impieghi o per quanto rozzo sia il modello, vi devono essere a monte delle proposizioni, dei ragionamenti o un “corpus” vagliabile analiticamente.”

    Concordo, è l’essenza della concezione di teoria di Mises: una struttura logica da investigare indipendentemente dalle osservazioni, per le sue proprietà intrinseche. Poi c’è anche l’osservazione (storia).

    “quindi semplificare per costruire un modello imperfetto del proprio pensiero per poi vederselo giudicare da un tritacarne di dati statistici più o meno opinabili non è certo un incentivo al dialogo”

    Qui il Romer, Advanced Macroeconomics critica molto i neokeynesiani perché ad ogni confutazione cambiano qualcosa nel modello. Credo che ormai nessuno creda alla falsificazione statistica, al massimo credono alla consistenza con i fatti, cosa che ovviamente è un must anche per un austriaco.

    “3) Problemi connessi al tempo: come strutturo una visione del tempo non lineare e quindi non newtoniana ? Una successione di periodi ad ex. è già una “concessione” rispetto al punto di partenza. Di qui viene fuori un altro quesito: quanto meccanicismo devo inserire e quanto soggettivismo togliere ?”

    Questi sono problemi che rimangono fuori dal terreno comune tra le due scuole, ora come 50 anni fa, e non vedo molti margini di avvicinamento. Il tempo netwoniano… stai leggendo “The economics of time and ignorance”?

    “4) Ho letto che alla GMU hanno fatto modelli computazionali e che c’è un certo interesse al riguardo. La programmazione informatica facilita molto la simulazione di agenti e processi dinamici (non solo in economia). Questo pone un’ulteriori questione: quale matematica ?”

    Risposta facilissima: se fai equilibrio generale, escludi i problemi di coordinazione, gran parte dell’eterogeneità, e l’imprenditorialità; se fai analisi ad agenti (agent-based modeling), trascuri la creatività e l’imprenditorialità, ma almeno cogli l’eterogeneità. Entrambe le tecniche hanno limiti, secondo me l’approccio corretto è: usare quello che capita, a seconda dei casi, oppure ragionare in termini “letterari” se nessuno dei due va bene. Volendo c’è anche la teoria dei giochi. Ogni linguaggio formale ha forti limitazioni.

    “6) Penso che gli economisti in grado di applicare gli strumenti matematici sopra esposti in modo conforme alla teoria austriaca (e non solo…) siano veramente pochi. Si può trovare qualcosa di più in finanza”

    Ho scoperto con rammarico che il programma di Dottorato della GMU è assolutamente poco quantitativo: da lì è difficile uscirne con la capacità di fare DSGE a livelli professionali. Temo che questo limiti gli scambi culturali. In finanza ci sono più margini, ma l’approccio è molto diverso: lì è tutta predizione, non comprensione. La seconda, se c’è, è strumentale alla prima.

    “7) Si può impiegare un metodo che integri più felicemente teoria, dati e storia (vedi Menger piuttosto che Mises).”

    Sì. Su Mises consiglio di riflettere sulla nozione di Storia, perché se si riflette solo su quelo di Teoria viene fuori un Mises iper-razionalista che esisteva solo nei sogni di Rothbard e negli incubi di Hayek. Il Mises vero era diverso.

    “Una certa dose di ottimismo deriva dal fatto che i principali economisti austriaci contemporanei non sono degli agit-prop.”

    Già.

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