25
Set
2014

Un sindacato che “cambi testa”: perché milioni di lavoratori gli sono estranei

Ora che l’addio di Bonanni alla CISL è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo vuole battersi per difendere il suo posto sui mercati mondiali. E’ invece il suo rapporto con mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia.

In Italia i fatti non sono andati come si immaginava ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni. Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite IVA e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

E’ in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’ACTA, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

E’ questa, la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Spesso: dannosi. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni si stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. E’ un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte.

Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

 

7 Responses

  1. Gianfranco

    Purtroppo parecchie tare del sindacato dipendono dalla controparte con cui ha dovuto trattare fino ad ora.

    Le aziende private, in special modo quelle piccole (cioe’ da quelle piccole in giu’), sono ignorate dallo Stato e quindi dai sindacati, in quanto “politicamente inutili”.
    Lo stato conosce solo se’ stesso e cio’ che gli assomiglia: enormi realta’ come Fiat, Eni… che sono comunque in un modo o nell’altro finanziate dallo stato, o da esse detenute, e che sono in via d’estinzione in Italia.
    Il sindacato, piu’ che alla difesa del lavoratore, ha funzionato per decenni quale “ufficio personale” (HR dept) dell’organizzazione statale, decidendo salari, condizioni di lavoro e persino numero di assunzioni.
    Che bisogno c’e’ mai stato, per il sindacato, di interessarsi di problemi quali la “produttivita’”? Per il sindacato e’ un concetto alieno. Non ha mai dovuto realmente confrontarvisi.
    L’unica realta’ che il nostro sindacato conosce e’ quella statale: statali, pensionati, enormi imprese.

    Per questo il sindacato non puo’ capire le esigenze dei lavoratori attuali. Non e’ nel suo tessuto culturale. E cio’ che esce dall’inviluppo del comprensibile, viene tranquillamente ignorato. L’impatto e’ che i lavoratori non hanno rappresentanza, non che il sindacato perda di credibilita’.

    Il sindacato e’ un altro ministero: personale e paghe.

  2. “Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei. ”
    frase che potrebbe essere il contenuto di un twitter.
    Sono sostanzialmente d’accordo con l’articolo: nel mio blog parlo di “superstizione” come un insieme di pratiche che in un certo periododo storico una “popolazione” ha attuato per venire a capo di alcuni problemi; il contesto è mutato ma certi atteggiamente restano immutati. La superstizione sono appunto le “pratiche” non adeguate al mutare della situazione.

  3. Francesco_P

    La politica, la burocrazia e i sindacati non hanno capito l’evoluzione del mondo, la richiesta di nuovi prodotti da parte del mercato, la concorrenza degli emergenti sui processi produttivi di massa. Vivono in una realtà autoreferenziale ancorata al passato ignorando l’importanza dell’innovazione, la necessità di permettere alle imprese di investire, la necessità di lavoratori qualificati e costantemente aggiornati e l’intrinseca flessibilità che il mondo richiede nei rapporti di lavoro. Pensano ancora che un dipendente possa iniziare e arrivare alla pensione nella medesima azienda e con mansioni simili.
    La diagnosi è conosciuta anche da parte delle istituzioni italiane. Si veda, solo per citare un esempio, l’intervento del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco del 29 marzo di quest’anno http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2014/visco-bari-290314/visco-bari290314.pdf .
    Peccato che istituzioni, a partire dal sistema bancario che lesina la liquidità alle imprese, non facciano nulla per mettere in condizioni gli investitori italiani e stranieri di scegliere l’Italia come nazione dove sviluppare nuove attività.
    I sindacati sono in prima linea nella battaglia per la conservazione e pensano all’articolo 18 (il feticcio) come strumento di salvaguardia dei sindacalisti a tempo pieno pagati dal datore di lavoro, dei sabotatori (es. Fiat Pomigliano – FIOM), dei malati immaginari del weekend e compagnia bella. Del fatto che l’attuale sistema porti a crescere il numero dei senza lavoro e dei precari sottopagati e dequalificati non interessa un bel niente ai sindacati. I sindacati sono i primi a disinteressarsi che il periodo di cassa integrazione o di mobilità non sia utilizzato per migliorare la qualificazione dei lavoratori (il famoso capitale umano), perché va bene il sistema dei corsi regionali inutili, oggetto di distrazione di fondi nazionali e comunitari. I sindacati sono i difensori dell’attuale sistema del collocamento pubblico che non serve ne alle imprese ne ai lavoratori.
    Ma i sindacati sono in buona compagnia. Per una riforma ancora ampiamente insufficiente ed ancora poco definita negli aspetti chiave della formazione e del collocamento, il governo viene messo sotto scacco da parte della sinistra del PD e dalla magistratura (*).
    Andando avanti di questo passo l’Italia si avvia al completo collasso economico in tempi molto brevi.
    NOTA:
    (*) Purtroppo quasi tutti i politici hanno i loro “altarini” e non devono essere perdonati. Però, è molto strano che la Magistratura porti a conoscenza del pubblico le inchieste esponendo gli indagati al processo mediatico preventivo, quando si toccano dei privilegi o degli assetti politico/istituzionali delicati.

  4. andrea melis

    trovo poco pertinente citare l’esempio dell’accordo DUCATI, in quanto sappiamo dai servizi televisivi che quella realtà è molto particolare(13esima, 14esima e premio di produzione). Potrei a questo punto dire che se tutti gli imprenditori in Italia avessero la lungimiranza del gruppo WV, non avremo bisogno di sindacati, anche se in realtà lo stipendio dell’AD è stato votato anche dal rappresentante dei metalmeccanici. Concordo con OSCAR GIANNINO sul fatto che a volte il Sindacato è un freno a tranquille intese aziendali, ma questo avviene perchè le sigle ormai sono una divisione della politica e pensano più a se stessi che ai lavoratori. Ma la classe imprenditoriale non gode di miglior salute, poco pronta ad investire nell’azienda soprattutto nel capitale umano e rapida a piegarsi al potente di turno in cambio di piccoli favori momentanei anzichè chiedere condizioni di mercato e infrastrutture tali da poter competere in Europa. Per quanto riguarda la leggenda metropolitana della produttività legata alle dinamiche salariali. vorrei ricordare che nel 2007 di fronte ad un aumento di circa il 5 % [4, …], circa la metà è stata destinata ai dipendenti. Tanto rumore per l’articolo 18 e molto silenzio, tranne OSCAR e pochi altri, sull’abolizione dell’ IRAP, vero freno alle assunzioni e balzello palesemente INCOSTITUZIONALE per violazione all’articolo 53 della CARTA sulla quale è stata fondata la Nostra Repubblica

  5. adriano

    In una recente intervista il sig Ichino,dopoaver auspicato la semplificazione della montagna di regole attuali per rendere comprensibile ai comuni mortali la legislazione sul lavoro,ha spiegato con poche semplici parole come la precariatà sia causata dall’articolo 18.”Per ogni lavoratore a cui si riconosce il diritto di proprietà ve ne sono due che saranno precari.”Chiaro.Le flessibilità necessarie al sistema per adeguarsi alle contingenze di mercato vengono scaricate sulle fascie non protette..Chi dice che l’articolo 18 è irrilevante ha ragione perchè nella pratica vengono trovate soluzioni surrogate per aggirarlo.Ha torto perchè con esso si introduce un concetto che genera distorsioni.I sindacati che difendono questa situazione possono essere incolpati solo in parte.In fondo fanno il loro mestiere,conservare i diritti storti degli iscritti che pagano sontuose deleghe..Stessa cosa per i pensionati a cui nessuno dirà mai che le diseguaglianze generazionali andrebbero corrette per un elementare principio di equità.E’ la politica che deve cambiare iniziando dalla costituzione.Non ci si può meravigliare se ancora oggi nelle piazze si grida che “il lavoro è un diritto” perchè la carta inizia con “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”,frase di togliattiana ambiguità in cui ognuno può leggere quello che vuole.Concetto poi ribadito nella sostanza da altri articoli che giustificano la pretesa di una interpretazione socialista dei problemi.E’ da lì che dovrebbe partire il chiarimento.Il sig. Renzi può avere ragione a sostenere la sua riforma sul lavoro all’interno del suo partito,perchè sembra che fosse compreso nel programma con cui è stato eletto segretario.Non ce l’ha quando vuole imporla al paese senza avergli chiesto cosa ne pensa.Come la mettiamo se la maggioranza è contraria?Le soluzioni prima di essere giuste o sbagliate devono essere accettate o respinte.E chi deve farlo sono i cittadini non qualcuno che decide in base a convenienze che non si conoscono.

  6. magolino

    ….alla luce di quanto accade in questo paese sfilacciato ed a più incomprensibile, penso che sia doveroso istituire una “madrassa o madrasa” come scuola dell’apprendimento dell’ italiana politica. Ed ancora la “madrassa o madrasa” per chi pensa di essere in grado di fare politica e non n’è capace arrecando, per la sua incapacità e/o ignavia, danni ciclopici alla comunità italiana.
    Concludo parafrasando il vecchio saggio quando afferma:
    ” attento ai tuoi pensieri, perchè diventeranno parola
    -attento alle tue parole, perchè diventeranno azioni
    -attento alle tue azioni perchè sarà la tua vita”…
    Ke Linse

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