3
Giu
2020

Se un’azione (non) vale un voto

Qualche nota sulle Multiple Voting Shares nelle quotate italiane

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Federico Riganti.

Tra le varie misure di protezione dell’imprenditoria italiana suggerite – nelle scorse settimane e in modo un po’ altalenante – dall’esecutivo, è circolata anche la proposta di introdurre il sistema del voto plurimo nelle società quotate. 

La previsione, suggerita e poi ritirata, ha suscitato, da subito, un certo interesse tra operatori e studiosi, finanche sorpresi dall’attenzione nuovamente e frettolosamente dedicata dalla politica ad un tema che, già affrontato non troppi anni orsono (correva l’anno 2014) e con esiti non proprio soddisfacenti (altrimenti, perché parlarne oggi?), pareva essere stato relegato a questione di importanza secondaria, di forse poca necessità e, comunque, di nessuna urgenza. O, quantomeno, di necessità e di urgenza non tali da giustificare, in merito, un intervento sotto forma di decreto-legge, neanche a fronte delle attuali problematiche dell’era “post” emergenza Covid-19.

Al di là di altre riflessioni, forse ancora premature a farsi e comunque riferite ad una semplice bozza di intervento, poi caduta nel vuoto, è innegabile che la questione del voto plurimo sia attuale e meritevole di massima attenzione, quantomeno per un duplice ordine di motivi.

Il primo, di stampo marcatamente giuridico, relativo alla centralità e agli estremi di un istituto noto ed utilizzato da – sebbene con distinte sfumature applicative – altri ordinamenti europei e non solo, ed in parte già regolato dal testo unico della finanza.

Il secondo, invece, inerente alle conseguenze del mancato allineamento della normativa italiana a quella di altri Paesi, in primis del (così ritenuto da molti) “nemico” olandese. Conseguenze tra le quali, come noto, ben è possibile ricondurre quella velata (ma pur sempre ingiustificata) sensazione – fomentata da analisi politiche spesso prive di basi tecniche – di essere vittime di chissà quale “rapina” da parte dei nostri “avversari” stranieri, rei di avere sottratto al tanto acclamato (ma forse non altrettanto performante) “sistema Italia” i propri campioni di capitalismo (come se questi ultimi fossero stati costretti a spostarsi o, ancor più, come se il voto plurimo fosse l’unico motivo del trasferimento).

Ora, per quanto riguarda il primo punto, basti ricordare che le attuali previsioni del diritto delle società (art. 2351 c.c.) – e di quello delle società quotate (artt. 127-quinquies e 127-sexies t.u.f.) – già disciplinano, in diversa maniera, la materia del potenziamento del diritto di voto, nello specifico attraverso la previsione di azioni a voto maggiorato e di azioni a voto plurimo.

Ferma restando la distinzione tra tali due “tipi” di azioni (il primo, in estrema sintesi, più simile ad un “premio fedeltà”; il secondo invece collegato al titolo in quanto tale), la dissociazione tra investimento (e, quindi, rischio) e influenza (e, quindi, numero di voti) del socio non è dunque concetto estraneo al nostro ordinamento il quale, pertanto, a seguito di una più attenta analisi, ben potrebbe essere oggetto di un restyling con riferimento specifico alla disciplina in essere soprattutto per le quotate, in ipotesi meno tranchant di quello suggerito nelle scorse settimane e pur sempre indirizzato ad assicurare adeguati meccanismi di difesa delle minoranze assembleari (senza tuttavia riconoscere, a queste ultime, una sorta di indebito potere di veto).

Con riferimento al secondo profilo, invece, il discorso è più esteso e riguarda l’approccio che tanto il governo quanto il legislatore dovrebbero mantenere nei confronti non solo della materia del voto plurimo ma anche, e più in generale, di quella concorrenza tra ordinamenti che ben può offrire occasione di sviluppo e aggiornamento dei nostri meccanismi normativi, in un’ottica di auspicabile e fisiologica race to the top tra sistemi.

In altri termini, la questione del potenziamento del voto è solo l’ultimo esempio della più generale e già denunciata necessità di riforma di alcune delle strutture portanti il sistema economico-produttivo italiano (e, quindi, delle norme che lo regolano).

Questa necessità, in particolare, richiede con forza di essere affrontata in chiave innovativa e propositiva e non già secondo un disegno che – si pensi solo agli ultimi interventi normativi – pare invece nel complesso essere ispirato a un non meglio definito intento protezionistico, in quanto idoneo ad erigere progressive e molteplici barriere – o, comunque, notevoli complicazioni e altrettanto ampia confusione – tanto all’ingresso (con il rafforzamento dei golden powers) quanto verso l’esterno (con il tentativo di bloccare trasferimenti all’estero) del mercato italiano. Il tutto, con conseguente eterogenesi dei fini di misure che, forse nate anche per incentivare gli investimenti d’oltralpe e rilanciare il Paese, si dimostrano, invece e nei fatti, quasi d’ostacolo alla libera movimentazione di capitali (e non solo).

Competenza e fiducia nella concorrenza – nelle cui dinamiche non bisogna sempre e solo giocare in difesa, ma talvolta anche andare all’attacco – paiono quindi essere le “parole d’ordine” da seguire. Quanto precede, si intende, nella speranza che la necessità di ammodernamento sopra indicata non venga di nuovo dimenticata e messa da parte a favore di altre misure figlie di una logica politica che, come spesso accade, è più attenta al breve che al lungo periodo ed è abile nel rimandare, all’infinito, questioni che, se non affrontate, sono destinate a segnare un sempre maggiore scarto tra l’Italia e i suoi competitors internazionali.

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