9
Lug
2014

Pensioni, rimedi non ortodossi a 4 guai: troppa spesa sul Pil, il deficit Inps, pensionati poveri, giovani senza futuro

Un paese con una spesa previdenziale che resta superiore alla media europea e dei paesi OCSE, ma che contemporaneamente ne ha parecchio contenuto l’ulteriore crescita, senza però riuscire a recuperare il livello più basso dei nostri competitor e senza risolvere altri tre considerevoli guai: moltissimi pensionati poveri, sotto o poco sopra il livello di sopravvivenza; un deficit annuale tra contributi raccolti e trattamenti erogati che resta elevato, e che appesantisce la fiscalità generale che strozza la crescita di imprese e lavoro; infine, un’ipoteca pesantissima su chi oggi è più giovane. Ecco la fotografia dell’Italia nella relazione annuale del commissario straordinario dell’Inps Vittorio Conti, subentrato nel febbraio scorso ad Antonio Mastrapasqua travolto dalle polemiche dopo molti anni di guida dell’istituto, per il quale passano 406 miliardi di euro l’anno degli 800 totali di spesa pubblica.

E’ ovvio che le reazioni politiche e sindacali ieri abbiano messo al centro le richieste a favore dei pensionati più poveri, chiedendo lo sblocco decretato in questi anni di crisi per le rivalutazioni degli assegni, e di riaprire il “cantiere Fornero”. Ma dal nostro punto di vista è giocoforza invece partire da un altro punto di vista. Non per insensibilità sociale, come si vedrà: anzi, propprio per affrontarla meglio.

Il peso sul Pil della spesa previdenziale. L’Italia ha fatto una scelta, nei decenni: concentrare una quota molto più rilevante di altri paesi analoghi nella spesa previdenziale, rispetto al totale della spesa destinata al welfare.

La scelta di fondo – il sistema previdenziale retributivo a ripartizione agganciato a percentuali molto elevate delle ultime retribuzioni – nacque in un’Italia che cresceva a tassi non inferiori al 3% annuo, e in cui la bassa disoccupazione sommata all’espansione del reddito e del prodotto sembravano destinate a essere durevole. Con la discesa decennio per decennio del tasso di crescita medio fino a toccare quello inferiore al mezzo punto di Pil annuo, era evidente che gli oneri sarebbero diventati insostenibili. Evidente, ma per lungo tempo non evidente è stato per la politica italiana assumere misure adeguate. Di qui le due riforme essenziali dell’ultimo ventennio, per contenere nel lungo periodo l’eccesso di spesa previdenziale.

La prima fu la riforma Dini, nel 1995, col passaggio a un sistema contributivo ma sempre a ripartizione (cioè le pensioni in essere le paga chi lavora coi suoi contributi, e qui chiariamo una cosa a margine: molto credono che in Italia il contributivo adottato sia “puro”, cioè che la pensione sarà effetto della somma dei propri contributi aggiornata nel tempo secondo come è stata investita, ma sbagliano, non è affatto così. Il montante su cui calcolare il trattamento previdenziale del nostro sistema contributivo è dato sì dalla somma dei contributi pagati, ma rivalutati sulla base del Pil nominale anno per anno, e moltiplicati per i coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età di pensionamento, e soprattutto il pagamento concreto delle pensioni verrà sempre garantito dai contributi di chi lavora, per questo si definisce contributivo a ripartizione e non puro). La riforma Dini commise però due errori essenziali, cari al sindacato come al più dei partiti, destra e sinistra insieme, il PUS, partito unito della spesa pubblica che è il vero asse portante della politica eco-finanziaria italiana. La Dini spalmò gli effetti del passaggio al contributivo in un orizzonte troppo lungo, pluridecennale, e tenne in piedi età basse per i trattamenti che davano diritto alle pensioni di anzianità. Di qui la necessità, visto i 15 anni passati invano, della riforma “brutale” Fornero, che a fine 2011 estese a tutti il calcolo contributivo prorata abolendo il sistema misto della lunghissima transizione della Dini, unificando in pochi anni le età per i trattamenti di anzianità e vecchiaia.

Questa seconda riforma – che spiace ai sindacati e a mezzo Pd, e non solo per il dramma vero che ha creato, quello degli esodati, a cui si sta rispondendo da un anno e mezzo con successive tranche di copertura – ha dato una solida riassestata alla spesa previdenziale. Come ieri ha ricordato Conti. Nel 2013 la spesa previdenziale è stata pari al 16,3% del PIl e sarebbe andata al 18%, senza riforma Fornero. I dati sulle pensioni di anzianità e vecchiaia 2013 registrano un crollo rispetto all’anno precedente: -49% le prime e -50% le seconde nel pubblico impiego, -32% le prime e  -57% le seconde nel privato.

E tuttavia non va dimenticata una cosa. Se si compulsano le 392 pagine del rapporto sulla sostenibilità di lungo periodo della spesa previdenziale che la Ragioneria generale dello Stato ha aggiornato due mesi fa, le pur generose stime di crescita assunte del PIL (media annua più 1,5%) e di tassi di occupazione assunte nel modello adottato portano la spesa previdenziale a scendere di un soffio sotto il 15% del PlL solo al 2030, per poi risuperarlo nel 2040, scendendo al 14% forse e solo nel 2060.

E’ vero che nei paesi Ue e Ocse nel frattempo la spesa sale, ma sale partendo da punti molto più bassi della nostra: per i paesi OCSE la spesa previdenziale salirà dal 9 all’11,5% del Pil entro il 2060, per i paesi UE dall’11% al 13%. Quei 2-3 punti di Pil di spesa previdenziale italiana annua maggiore della media dei paesi avanzati descrive una scelta che resta sbagliata: continuiamo a spendere troppo poco per le politiche attive del lavoro e per il sostegno della famiglia e della curva demografica, e troppo in politiche passive (30 miliardi nel 2013 tra ammortizzatori e sistema CIG, oltre 100 miliardi da inizio crisi senza una sola ora di riformazione e riavviamento al lavoro delle centinaia di migliaia di soggetti interessati) e in pensioni ai “privilegiati” del sistema retributivo puro (non è colpa loro, ovviamente, è la politica ad averlo scelto). E’ una scelta sbagliata non solo in termini di giustizia tra generazioni e all’interno delle stesse generazioni, visto che i trattamenti tra pubblici e privati, dipendenti e autonomi non sono affatto eguali. E’ sbagliata anche perché l’INPS non ce la fa, e deve attingere alle tasse di noi tutti.

Il deficit INPS. Nel bilancio finanziario, l’istituto nel 2013 ha avuto un saldo negativo di 9,8 miliardi. E’ un deficit per i nove decimi dovuto allo sbilancio tra contributi raccolti e trattamenti erogati ai pensionati del settore pubblico, l’ex Inpdap. E qui ci sarebbe molto da dire: non è colpa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici (sono 14,5 milioni quelli della gestione privata), ma negli anni la politica ha riservato loro condizioni migliori rispetto ai pensionati privati, in termini di anni minimi di versamenti rispetto ai diritti maturati (e non solo). I numeri parlano chiaro: l’importo medio delle pensioni di vecchiaia/anzianità private è di 1555 euro lordi mensili, quello delle pubbliche è di 1636 euro per le donne e di 2262 euro per gli uomini. Ma lo sbilancio finanziario di quasi 10miliardi annui dell’INPS da solo non dice tutto. Se andiamo a vedere le diverse fonti di entrata rispetto alle poste di spesa, al netto dei trasferimenti dal bilancio dello Stato i contributi raccolti nel 2013 dall’INPS sono pari a 209,9 miliardi euro (153 dai privati, 55 dal settore pubblico, 1 dai lavoratori dello spettacolo), mentre la spesa diretta in pensioni è pari a 266,8 miliardi. Come si vede, tra contributi ed erogazioni puramente previdenziali lo sbilancio è di 56 miliardi l’anno. E’ il contribuente con le tasse, a pagare dolorosamente la differenza.

I pensionati poveri. Sono 6,8 milioni, il 43% del totale, i pensionati che ricevono un assegno inferiore ai mille euro lordi al mese. Di questi, 2 milioni sono sotto i 500 euro lordi (il 13,4%), e di questi ancora 1,2 milioni non superare i 209 euro lordi al mese. Oltre 4 milioni invece percepiscono pensioni tra i 1.000 e i 1.500 euro mentre per circa 2,4 milioni di pensionati l’assegno oscilla tra 1.500 e 2.000 euro mensili. Al di sopra dei 2.000 euro lordi si colloca il restante 16% dei titolari, poco meno di 2,5 milioni. Se a queste cifre sommiamo il milione e mezzo di italiani che nel 2013 ha beneficiato di indennità di mobilità, disoccupazione, Aspi e Miniaspi, eccoci alla tremenda “questione sociale” delle vittime della crisi. Cinque-sei milioni di italiani che stanno poco sotto o poco sopra il livello della pura sopravvivenza, e che in questi anni stanno esaurendo il polmone finanziario a loro favore delle famiglie di appartenenza. Se il governo seguisse la strada di piccoli aumenti per tutti, l’effetto-dispersione non risolverebbe il problema. Andrebbe assunta una logica selettiva: un welfare diverso per i pensionati poveri anziani, politiche del lavoro attive e non passive per chi fuori dalla mobilità oggi finisce troppe volte per non cercare più lavoro e basta, non essendo riaddestrato e arrangiandosi con il nero.

 

I giovani. I sindacati e mezzo Pd chiedono di tornare indietro rispetto ai tetti della riforma Fornero e di alzare le pensuioni in essere: ma così facendo si pensa solo a chi oggi un lavoro e la pensione ce l’ha. E’ verissimo che ad alcune centinaia di migliaia di italiani – ripeto qui non parliamo degli esodati, a cui si sta pensando – la riforma Fornero ha mutato drasticamente in peggio l’orizzonte di vita, obbligandoli a 5-7 anni di lavoro in più. Ma molto peggio di loro rischiano di stare milioni e milioni tra i 25 e i 50 anni, che il lavoro non ce l’hanno, o ce l’hanno precario, o l’hanno perso. Torniamo al rapporto della Ragioneria sulla sostenibilità generale del sistema. I diversi scenari che vi sono illustrati, rispetto alla condizione attuale del paese, peccano di eccessivo ottimismo. Il tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione della pensione maturata con i requisiti di età e contribuzione della riforma Fornero sarebbe al 2050 del 73% per il lavoratore privato, del 53% per l’autonomo. Ma questo calcolo è fatto sulla base di un’età per la pensione all’epoca di 70 anni con 40 anni di versamenti effettuati, e una crescita del Pil di un punto e mezzo l’anno per rivalutare il montante. E’ evidente a chiunque che oggi, se raccontate a un 35enne disoccupato con – se va bene – 2 anni di contributi versati, che nei prossimi 35 anni dovrebbe lavorare ininterrottamente e anzi dovrebbe a quel punto anche integrare i contributi versati con 3 annualità aggiuntive, mentre l’Italia nel frattempo cresce ininterrottamente di almeno un punto e mezzo l’anno, la risposta è che alle favole di una pensione simile e così alta rispetto all’ultimo reddito non crede nessuno. Ecco il problema gigantesco: oltre a 5-6 milioni di poveri attuali, se ne possono sommare il doppio che arriverà a pensioni bassissime. Basta una crescita di mezzo punto l’anno o di un punto nel decennio, per abbattere i tassi di sostituzione tra il 35% e il 24% rispetto alle previsioni della Ragioneria: il che significa pensioni da fame.

I rimedi ai 4 problemi – troppa spesa in previdenza sul Pil, squilibrio annuale tra contributi ed erogato, pensionati poveri, giovani senza pensione – non sono la riapertura dei “tetti Fornero”. Occorre cambiare drasticamente marcia alla crescita italiana. Cioè riducendo la spesa davvero, per molte meno tasse su impresa e lavoro. Perché senza di questo non ci sono più occupati continuativi. E solo pensioni misere, anche in futuro. Occorre un welfare selettivo per gli anziani, e una scelta netta a favore delle politiche attive del lavoro rispetto all’assistenza. Occorre un intervento su chi ha trattamenti troppo generosi risalenti al sistema retributivo, e su questo un problema serio – ma concretamente affrontabile: è un enorme problema irrisolto di giustizia intergenerazionale – è anche rappresentato dalla Corte costituzionale. E uno spazio molto più ampio alla previdenza complementare, il cui trattamento fiscale deve essere reso molto più favorevole, in un quadro generale per altro di considerevole riduzione delle imposte su lavoro e impresa. Il guaio è che, per tutto questo, oggi non sembra affatto di poter contare su attori politici che ne siano persuasi.

 

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12 Responses

  1. Paolo

    Io ho 46 anni Ho lavorato in nero, con ritenuta d’acconto, come cocopro, a tempo determinato, di nuovo con ritenuta e in nero e infine ho aperto partita iva.
    Ho versamenti all’inps e all’enasarco che insieme mi porteranno a una cifra di pensione fra i 450 e i 500 euro al mese.

    si può almeno sperare in una riunificazione dei vari versamenti? Se io ora per miracolo trovassi un lavoro con contratto, perderei 10 anni di versamenti all’enasarco.

    Non viviamo in un paese civile.

  2. Francesco_P

    Manca un accenno alla categoria dei “più sfigati”, i cinquantenni non “esodati” che si sono trovati espulsi da mondo del lavoro e con la pensione rinviata sine die. Questa ampia fascia sociale ha pagato per le baby pensioni, per le pensioni dei genitori, per le pensioni privilegiate (es. gli elettrici) e non per la propria: si trova con il classico “pugno di mosche in mano”.
    L’imprevidenza sociale è stato uno degli sport più praticati nel corso della prima e della seconda repubblica. Si è gonfiata strutturalmente la spesa pubblica con assunzioni clientelari, privilegi pensionistici, ecc., al puro scopo di attrarre consenso in modo facile. Questi tipi di interventi hanno un peso ridotto, a volte trascurabile, sull’anno in cui il provvedimento entra in vigore, ma progressivamente crescente col passare del tempo.
    Purtroppo non è possibile tagliare le tante pensioni immeritate per dare i soldi a chi invece ha versato contributi per una vita: la Corte Costituzionale si opporrebbe, non senza delle ragioni di diritto che riguardano gli impegni assunti dallo Stato.
    L’intervento della Fornero può essere giustificato solo da chi osserva i numeri senza capire cosa significano nella realtà delle famiglie e delle imprese. Per non giungere alla soluzione del problema degli squilibri previdenziali, si sono aperte delle vere e proprie “ferite sociali molto pericolose”, si è accentuata la sfiducia nelle istituzioni, si sono creati problemi di pianificazione delle assunzioni nelle imprese, si sono disincentivare le assunzioni dei giovani, si dato un forte contributo alla contrazione dei consumi interni, ecc. Gli interventi sul sistema previdenziali non possono essere improvvisi impedendo qualsiasi pianificazione per le persone e per le aziende. E come cercare di raddrizzare una nave piegata al limite con una contromanovra troppo brusca: la si manda a fondo comunque!
    Oggi c’è un costante ricorso alla “patrimoniale” (casa, rendite finanziarie, ecc.) e c’è il più che concreto rischio dell’assalto alle forme pensionistiche complementari. Questi provvedimenti fiscali non eviteranno il collasso del sistema previdenziale, ma cancellano la possibilità di un individuo di sfuggire ad una triste prospettiva attraverso l’uso intelligente dei frutti del suo lavoro.
    Qualsiasi sistema previdenziale per essere sostenibile ha bisogno di un economia in espansione o – almeno – non in contrazione. Nonostante certi pallidi tentativi di riforma, il sistema Italia sta per collassare. La soluzione delle iniquità del sistema pensionistico fra chi ha pagato troppo per percepire troppo poco e chi ha percepito troppo per i suoi meriti sarà risolto dal semplice: NON CI SONO PIU’ SOLDI PER NESSUNO, TRANNE CHE I BOIARDI!

  3. Umberto Trevisan

    articolo tanto interessante quanto deprimente…Non c’è futuro senza decisioni scomode….manca però chi decide.

  4. Orazio

    Da un liberista economico, che di libertà bancaria ne ha fatto il portavoce che vi aspettate.
    Non un accenno sul modo di rivedere il pensero UNICO monetario, non una voce per quanto riguarda la nostra sovranità, non una voce su signoraggio, non una voce sul fatto che lo stato è di fatto in default.
    Ridurre le spese, ridurre tutto…. ridurre anche gli italioti….
    Diceva Churchill, che tassare e sperare di crescere è come mettere i piedi dentro un secchio e poi cercare di tirarlo su.
    Ma a questa persona dovrebbe essere vietato scrivere…. basta la tv.

  5. giuseppe

    @ Francesco_P Totalmente d’accordo, specialmente con l’ultima frase in maiuscolo. Per i boiardi lo sappiamo cosa ci vorrebbe.

  6. adriano

    La conclusione è che la soluzione non c’è.Quello che serve è un reset generale.Prendiamo,ad esempio,i privilegi acquisiti.Lo stato si è impegnato per la pensione non sul suo importo.Se i soldi non ci sono come si fa?Il problema fra le generazioni si risolve quindi solo col ricalcolo per tutti col sistema contributivo,fatta salva la soglia di sopravvivenza.La corte dice che non si può?Allora si passa alla fantapolitica.Si modifica l’articolo uno in “la sovranità appartiene al popolo” e basta,si introduce il referendum consultivo senza quorum e si chiede agli elettori di decidere.Se ,guarda caso,approvassero di parametrare gli stipendi dei magistrati alla pensione minima,in virtù della premessa,nulla potrebbe essere eccepito.Mettere in atto questa procedura è naturalmente impossibile ma è più possibile degli altri interventi che si propongono ,che non si faranno mai e che comunque servirebbero a niente.

  7. Conte

    articolo lungo, ma tosto, la mia e’ una considerazione da uno della gestione separata, da cui non ci si puo’ pero’ separare,
    avro’ di pensione fra 13 anni 600 euro al mese, ma forse crepo prima essendo uno 048, cod.ticket,
    ma io vorrei una assicurazione per la malattia ed il ricovero , una assicurazione per la pensione che decido io, e abolizione inps,
    io cosi’ so’ cosa pago e cosa avro’
    chiedo la luna lo so’ buon lavoro

  8. Matteo

    Anche le pensioni sono tassate, dunque i conti del “deficit” andrebbero rifatti con qualche piacevole sorpresa per coloro che si dicono così preoccupati per il bilancio dello stato. Inoltre non sembra che i nonni italiani siano particolarmente dilapidatori goderecci; nei fatti queste loro pensioni, spesso miserabili, sono l’estrema forma di ammortizzatore sociale per i lavori a singhiozzo della generazione dei nipoti. Se si deve proprio credere che le imprese non sono in grado di rilanciare la crescita a causa della eccessiva pressione fiscale legata soprattutto al mantenimento del sistema previdenziale, il gatto si morde la coda, e infine significa che non c’è proprio più speranza d’uscirne, a meno di una guerra civile.

  9. paolo

    I giornalisti che accedono alla pensione nel 2014 grazie all’INPGI, avranno un tasso di sostituzione del 104%.

    Quindi devo ascoltare un giornalista che mi dice cose ovvie sul collasso dello Stato Italiano e si permette anche di dettare la ricetta?

    Condivido in toto quanto ha scritto, solo che esserci arrivato nel 2014 con lo Stato al collasso, non mi sembra un gran risultato.

    Provi a battersi per la chiusura dell’INPGI. Quando ci sarà riuscito, potrà darci qualche ricetta che valuteremo con attenzione.

  10. giorgio gragnaniello

    Già nell’agosto 2011 Marcegaglia sosteneva l’ aumento dell’ IVA(sic!) e la riduzione della spesa pensionistica , per rastrellare risorse pro-abbattimento cuneo fiscale. Berlusconi alzò subito l’ IVA e Monti poi l’ età pensionabile, senza ridurre il cuneo fiscale e anzi introducendo lo “scivolo” per i militari .
    Io non sono liberista , ma ho l’impressione che tra i liberisti italiani -a questo punto- le idee siano alquanto confuse.
    In ogni caso, resterebbe sempre da verificare quanto buon uso i nostri imprenditori avrebbero saputo fare di questa riduzione del cuneo fiscale; (“magliiari”,erano detti ironicamente alcuni decenni fa dai loro colleghi d’oltralpe).

  11. roberto

    Egregio,
    ma ancora a parlare di cosa dovrebbero fare per la previdenza… L’ INPS è già in default da tempo cosa che non ammetteranno mai causa disordini sociali.
    Quali sono i parametri critici ?
    – disoccupazione, quindi nessuno paga i contributi per i pensionati attuali
    – aumento degli anziani, quindi aumento della spesa sociale
    – crescita demografica zero, no ricambio forza lavoro
    – emigrazione di forza lavoro, soldi di costribuzione che se ne vanno
    – sistema retributivo non più sostenibile..
    – disequilibrio forte sui trattamenti pensionisti nelle diverse categorie ( dip. pubblici)
    Siamo in ritardissimo e per recuperare una posizione così drammatica occorrono misure drastiche e semplici che nessuno farà, la situazione è irreversibile non solo per i numeri ma principalmente perchè non si fà niente, pur di preservare rensite di posizione.
    senza troppe analisi:
    – tetto massimo alle pensioni e ridistribuzione a quelle al disotto.
    – verifica posizioni di retributiva e contributiva
    – eliminazione delle doppie-triple pensioni.
    – altri privilegi e balzelli vari come automatismi etc.

    Le ultime due generazioni non avranno la pensione, spero che almeno questo qualcuno lo abbia capito.

    Poi il primo che parla di qualunquismo e benaltrismo lo si manda gentilmente al quel paese….

    saluti
    RG

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