L’unione bancaria europea, il protezionismo e le solite foglie di fico
Dum Romae (anzi, in questo caso Bruxelles) consulitur…
Un commento sull’unione bancaria europea, il nuovo mantra recitato in pompa magna dai numerosi esponenti nostrani del Partito del senno di poi, non potrebbe che esordire così. Che questi anni abbiano fatto emergere tutti i limiti del “protezionismo bancario” non è una novità; che questo sia stato uno dei più grandi fallimenti del progetto europeo, nemmeno (ne ha parlato qualche mese fa con inusitata chiarezza Nicolas Véron, Senior Fellow del Bruegel Institute. Potete leggere il suo intervento qui).
La globalizzazione dei mercati bancari è stata spesso indicata come causa della recente crisi finanziaria da chi le contrappone più trasparenza e più controllo da parte dei singoli Stati sulle attività di erogazione del credito. Le analogie con la crisi del ’29, in questo senso, non mancano, e sembra proprio che la storia non abbia insegnato nulla: il vento protezionista torna a spirare. È il caso di BNP Paribas, che ha fatto rimpatriare capitali per 150 miliardi di euro negli ultimi 2 anni, o di Commerzbank, che rifiuta dichiaratamente i prestiti che non vanno a sostegno di Germania e Polonia. Per non parlare della scalata ad Antonveneta.
Quello che ci si poteva auspicare era una pronta risposta delle istituzioni, ma le stanze dei bottoni di Bruxelles non sono poi tanto diverse da quelle romane. Un mese fa Parlamento Europeo e BCE hanno trovato l’accordo per istituire il Sistema unico di sorveglianza, con cui la BCE acquisirà poteri di supervisione diretti sulle banche ‘sistemiche’ dell’eurozona e indiretti su tutte le altre. Ma l’avvio trionfale nel nuovo sistema bancario europeo si è inceppato poco più tardi, durante l’ultima riunione dell’ECOFIN che doveva stabilire i dettagli del Meccanismo unico di risoluzione delle crisi. Quello, cioè, che dovrebbe essere il naturale complemento del sistema di sorveglianza. Secondo il progetto presentato quest’estate dalla Commissione Europea con tale Meccanismo, in caso di crisi bancarie che possano riversare i propri effetti sull’economia reale, la BCE avrebbe il potere di costituire un Comitato unico di risoluzione (composto da rappresentanti della stessa BCE, della Commissione europea e delle autorità nazionali) dotato di ampi poteri per risolverle. I problemi sorti, tuttavia, sono molteplici, e le cose vanno per le lunghe, come ha ammesso poche ore fa anche lo stesso premier Letta. Ed è inevitabile il nervosismo di Mario Draghi, che sa bene come, senza un meccanismo di risoluzione strutturato e un’autorità indipendente forte alla sua guida, l’unione bancaria valga ben poco.
Nel frattempo, dall’altro lato della Manica, David Cameron continua a rafforzare la partnership finanziaria tra Regno Unito e Cina. Londra è diventata il maggiore centro offshore di scambio dello yuan, superando Hong Kong, ha aumentato gli investimenti diretti sul mercato cinese e fatto in modo che la sterlina diventi la quarta valuta (dopo dollaro americano, dollaro australiano e yen giapponese) a poter essere scambiata direttamente con lo yuan a Shanghai. Ma la novità più significativa è l’apertura del governo britannico ai circuiti bancari cinesi, che potranno aprire nella City filiali dirette, senza dover creare enti sussidiari giuridicamente separati, “consentendo così un aumento significativo delle loro attività nel Regno Unito”, come ha spiegato ieri il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne. In questo modo le filiali non saranno più soggette alla sorveglianza del Regno Unito e ai vincoli di trasparenza, capitale e liquidità previsti dalle norme europee, ma potranno operare secondo la normativa cinese.
Come intuibile, le critiche non sono mancate e la mancata sottoposizione delle banche estere alla Vigilanza nazionale non è vista di buon occhio. Il fallimento di Icesave, nel 2008, fu un vero e proprio disastro per i risparmiatori inglesi, che affidarono i propri soldi alla banca islandese proprio in virtù di un accordo analogo a quello stipulato con la Cina. D’altra parte, negare libertà di scelta ai consumatori in nome della tutela del Leviatano è una strategia discutibile. La tutela offerta, infatti, è tutt’altro che garantita (Lehman Brothers era sottoposta alla vigilanza della FED, tanto per dirne una). I vantaggi di un’operazione del genere, invece, sono molti e visibili. E una completa apertura del mercato bancario potrebbe segmentare i rischi tra i diversi operatori, minimizzando i pericoli per il singolo correntista (o, quanto meno, riducendolo al pericolo comunque assunto dalle banche sottoposte alla vigilanza nazionale).
In Italia sono presenti solamente tre filiali -tre- della ICBC, la più grande banca cinese (considerata la banca più affidabile del mondo dall’autorevole rivista The Banker).
Come mai? La risposta è ovvia: siamo vittime del protezionismo bancario. Barclays denuncia da anni le difficoltà di fare banca nel nostro paese. I problemi li conosciamo: burocrazia farraginosa, giustizia lenta e incerta, regolamentazione asfissiante. Se non siamo capaci di risolverli, affidiamoci a chi all’estero lo fa meglio di noi. La (finta) tutela dei risparmiatori è soltanto l’ennesima foglia di fico.











