Poste: Letta si è deciso a quotarla, ora bisogna separarne le attività per liberalizzare
Negli interventi sulla fiducia in Parlamento ieri del premier, tra le novità – poche a dire il vero: eccezion fatta per la netta polemica anti Cinque Stelle, Letta ha preferito la prudenza – sicuramente c’è quella che riguarda le Poste. Mentre sino a pochi giorni prima Poste Italiane non figurava nella lista all’attenzione del governo per il programma di dismissioni di quote – senza perdita di controllo – di svariate società pubbliche, ieri Letta l’ha esplicitamente citata. E’ allo studio un collocamento azionario che ne apra ai privati il capitale, ha detto Letta. Anche per Poste senza perderne il controllo pubblico. E, infine, il premier ha aggiunto che nel collocamento una quota sarà riservata ai 150mila dipendenti postali. Cosa che è subito stata apprezzata da Bonanni della Cisl, l’organizzazione tradizionalmente forte in Poste, e dalle altre confederazioni.
Si tratta di capire ora che cosa ci aspetta, quale sarà il modello seguito, in vista di quali obiettivi. Di modelli sin qui seguiti da grandi Paesi ce ne possono essere almeno due. E a seconda di quale Letta e Saccomanni indicheranno, si capirà davvero a che cosa si mira. Diciamola tutta: se quotando Poste il governo Letta avesse in mente di piazzare sul mercato una quota dell’ attuale maxi conglomerato postal-finanziario aggiungendo in sovrappiù al suo perimetro il trasporto aereo e financo la rete di Telecom Italia, come vorrebbero alcuni spifferi giornalistici, allora saremmo al delirio: un’ipotesi da combattere sulle barricate.
Prima ricordiamo a tutti che cosa è Poste Italiane oggi. L’enorme carrozzone pubblico che perdeva 4.500 miliardi di lire nel 1993 divenne a quel punto da Amministrazione Autonoma Pubblica un Ente Economico Pubblico, primo passaggio di maggior disciplina contabile, e poi nel 1998 una SpA, il che ne rafforzò gli obblighi economico-finanziari. Tra il ’98 e il 2002 la guidò Corrado Passera, con una forte ristrutturazione – 22mila dipendenti in meno – e una focalizzazione del business che portò le perdite da 800 miliardi l’anno vicine al punto di equilibrio. Dal 2002 il capoazienda é Massimo Sarmi, confermato nel 2005, 2008 e 2011. E da un decennio il bilancio registra utili crescenti, fino a oltre 1 miliardo nel 2012. Su ristrutturazione e crescita degli utili, non poco ha contribuito il regime regolatorio di vantaggio concesso a Poste, mentre procedeva gradualmente la piena liberalizzazione europea di settore avvenuta solo nel 2011
Poste Italiane, rimasta al 100% del Tesoro, è oggi un enorme conglomerato, con oltre 24 miliardi di fatturato. Solo 4,6 vengono (a bilancio 2012) dai servizi postali e commerciali, in discesa anno dopo anno (erano 5 miliardi nel 2009). Ben 13,8 miliardi provengono dai servizi assicurativi – con il gigante PosteVita, che ha collocato quasi 5 milioni di prodotti in oltre 10 anni di esistenza con una raccolta di circa 55 miliardi di euro, e con la molto più modesta Poste Assicura, compagnia attiva nel ramo danni e con raccolta di alcune decine di milioni. Altri 5,3 miliardi vengono dai servizi finanziari, soprattutto attraverso BancoPosta Fondi, la società di gestione del risparmio che amministra un patrimonio di oltre 40 miliardi di euro, e una raccolta nell’ordine dei 400 miliardi tra conti postali, libretti e buoni fruttiferi. Poste è un colosso di raccolta del risparmio e assicurativo grazie alla più capillare rete territoriale presente sul territorio italiano, con oltre 14 mila sportelli. Ma non ha la piena licenza bancaria. Per due ragioni. L’ABI ha sempre puntato i fucili, contro un concorrente tanto temibile. E con ragione, finché sulla raccolta postale – avviata ad alimentare Cassa Depositi e Presiti – vale la piena garanzia pubblica, della quale non gode la raccolta bancaria.
Oltre alla concomitanza tra ramo finanziario e consegne postali, Poste controlla anche una corposa lista di società attive nei più diversi rami. Per fermarci alle maggiori, PosteMobile opera nella telefonia cellulare con 3 milioni di clienti, Postel lavora alla telematizzazione e digitalizzazione della pubblica amministrazione, PosteShop vende gadget e oggettistica… e Mistral è la mini compagnia aerea – in perdita – dalla quale germina l’ingresso di Poste in Alitalia, attualmente in corso e senza alcuna analogia al mondo (c’è anche una PosteTributi, una PosteEnergia e così via, ma fermiamoci qui).
Quando abbiamo detto che ci sono almeno due modelli diversi di collocamento sul mercato, ci riferiamo alla Royal Mail britannica, di cui l’11 ottobre scorso è stata collocata una prima metà sul mercato come primo passo in vista di successive cessioni, e alla Deutsche Post tedesca. Per analogie e finalità da perseguire, c’è da sperare che il modello adottato da Letta e Saccomanni sia il secondo.
Il motivo è presto detto. Royal Mail non era e non è un conglomerato di attività maggiormente finanziarie, come Poste Italiane. I dubbi per la sua privatizzazione, alla quale i sindacati erano tenacemente ostili, discendevano sin dai tempi della Thatcher proprio da questo, visto che l’inefficienza postale era forte anche in UK e i biolanci in perdita, duqnue la privatizzazione era assai poco appetibile. Il miglioramento di efficienza conseguito grazie a una fortissima apertura regolatoria al mercato, per la quale solo il 5% delle attività di Royal Mail è nell’ambito dell’ex servizio universale, solo negli ultimi 2 anni ha spinto a realizzare utili, e comunque l’EBIT 2012-2013 di Royal Mail è solo al 3,8% del fatturato, rispetto al 9,8% di Poste. C’è da sperare dunque che Letta si riferisca al modello britannico solo per la quota di 2200 sterline in azioni riservata a ciascun dipendente, praticamente un 10% della prima offerta al mercato, ma che non voglia seguire la via della quotazione dell’attuale conglomerato Poste così com’è.
Per questo la via tedesca è preferibile. Anche la Deutsche Poste integralmente pubblica di fine anni anni Ottanta, oltre al servizio postale, aveva dentro di sé un’enorme raccolta finanziaria, ed era al contempo monopolista delle Tlc. Ne conseguì la separazione di Deutsche Telekom, poi quotata ma non integralmente perdendone il controllo come la nostra Telecom Italia, e di PostBank, la divisione di servizi finanziari anch’essa poi integralmente ceduta al mercato, tanto da venire inglobata tra fine anni ’90 e 2011 nella “privata” Deutsche Bank. Nel 2000 avvenne invece la quotazione di una prima tranche di Deutsche Post, che nel frattempo, rilevando DHL, diveniva un gigante della logistica globalizzata, con 500 mila dipendenti in 200 Paesi. Nel 2005 il governo realizzava una seconda tranche di cessione, spogliandosi di ogni azione e concentrandone il 30% di controllo nelle mani di KfW, l’equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti.
Quel che serve da noi è analogo. Non solo e non tanto per il controllo pubblico da far restare in Cdp, controllo del quale noi faremmo ovviamente a meno, ma non l’attuale governo né l’intera politica italiana, da destra a sinistra oggi unanime nel difendere lo Stato proprietario e gestore. Quanto perché separare le attività finanziarie da quelle postali-commerciali è il giusto metodo per accelerare l’apertura al mercato innanzitutto del servizio postale. Settore nel quale siamo molto indietro, come testimoniato dal fatto che è il penultimo per apertura alla concorrenza anche nell‘Indice Liberalizzazioni 2013 appena edito dall’Istituto Bruno Leoni.
Infine, quotare Poste serve anche a risolvere una questione … previdenziale. Certo, coinvolgere i sindacati nel capitale è cosa buona. Ma la quotazione è il miglior metodo per risolvere un problemino “storico” che Poste sin qui si trascinano: l’assegno di quasi un miliardo di euro l’anno – 990 milioni, per la precisione, nel 2013 e nel 2014 – che sin qui il Tesoro gira a Poste per coprire il buco dell’ex gestione previdenziale dei postelegrafonici (sono stati 5,5 miliardi di sbilancio previdenziale a carico pubblico solo negli ultimi 6 anni). Anche a Royal Mail accadeva, e l’Europa l’ha costretta a risolvere il problema, prima della quotazione. Da noi avverrà la stessa cosa, ed è giusto così. E, a proposito, speriamo che oltre alla sorpresa Poste, il governo voglia dirci qualcosa di chiaro anche sul rebus Alitalia, e sulle tante voci che girano intorno alla rete di Telecom Italia…