15
Gen
2014

Liberismo e immigrazione: tutti statalisti col c**o degli altri

Quello appena iniziato è un anno storico per Romania e Bulgaria: dal primo di gennaio del 2014, infatti, i loro cittadini possono vivere e lavorare liberamente all’interno dei paesi della UE, senza alcuna restrizione. In Italia non se ne parla, ma in altri Paesi il dibattito sulla questione è accesissimo. Uno di questi è la Gran Bretagna, dove un fronte trasversale di Tories, Labour e Liberal ha lanciato l’allarme già da diverse settimane, temendo una vera e propria invasione.

«Zingari, nomadi e rom stanno venendo a approfittare del nostro welfare, rubare e mendicare», ha dichiarato Philippa Roe, un’importante leader Tory a Westminster. Molti britannici temevano che nei primi dieci giorni del nuovo anno le coste del Regno Unito sarebbero state invase: ebbene, non è successo. Ma l’elemento più sorprendente dell’intenso dibattito che ha interessato l’opinione pubblica d’oltremanica, come ha sottolineato Dalibor Rohac sul Wall Street Journal qualche giorno fa, è la posizione assunta da tanti sedicenti difensori del libero mercato. Scrive Rohac:

Douglas Carswell, un deputato conservatore noto per le sue posizioni fortemente libertarie, ha spiegato che «i migranti che lavorano dovrebbero essere accolti, ma aprire le porte a bulgari e rumeni potrebbe davvero creare problemi». Secondo Nigel Farage, parlamentare europeo e leader dello UK Independence Party, l’unico criterio che dovrebbe essere adottato per permettere o meno agli immigrati di entrare nel Regno Unito e in Europa è la loro capacità di pagare le imposte, contribuendo così all’economia della nazione in cui vivono. Da sedicenti libertari, non c’è niente di male a intraprendere un dibattito sulla generosità del welfare state britannico nei confronti degli immigrati. Ma si commette un grave errore suggerendo di sottoporre l’immigrazione a controlli più severi o a quote.

Molti economisti concordano sul fatto che garantire libertà di circolazione alle persone comporta enormi vantaggi economici, decisamente maggiori di quelli derivanti da un’ulteriore aumento della libertà di circolazione di merci e capitali. Secondo le stime più sobrie, la rimozione di tutte le barriere all’immigrazione potrebbe facilmente raddoppiare il PIL mondiale. La proposta non è aprire le frontiere del Regno Unito, ma rendere l’immigrazione (almeno/soprattutto quella qualificata) più libera di quanto lo sia oggi e, di conseguenza, rendere il mondo un posto migliore.

Ci sono ben poche prove per sostenere l’idea che l’afflusso di lavoratori nel Regno Unito, dal primo allargamento dell’Unione Europea nel 2004 ad oggi, abbia esercitato una significativa pressione al ribasso sui salari o un aumento della disoccupazione tra gli inglesi. Perfino l’economista Paul Collier, dell’Università di Oxford, che si era battuto per rendere le restrizioni in materia di immigrazione più severe di quanto fossero, ha riconosciuto nel suo libro Exodus, uscito l’anno scorso, che «gli effetti della migrazione sui salari dei lavoratori inglesi sono nulla rispetto al polverone che è stato fatto su di essi». L’effetto degli immigrati sul mercato del lavoro, infatti, non è solo quello di competere per i posti di lavoro già esistenti, ma è anche e soprattutto quello di crearne di nuovi, che non esisterebbero affatto senza il loro afflusso.

Né è convincente l’idea secondo cui gli immigrati comunitari metterebbero a dura prova le finanze pubbliche inglesi. Al contrario, studi recenti indicano che gli immigrati dell’Est europeo hanno avuto un impatto fiscale notevolmente positivo in Gran Bretagna. Lo scorso novembre, ad esempio, il Centro per la Ricerca e Analisi delle Migrazioni dell’University College di Londra ha pubblicato una ricerca secondo la quale gli immigrati in Gran Bretagna dall’Europa dell’Est hanno «contribuito a ridurre il carico fiscale dei lavoratori nativi».

Indubbiamente i grandi afflussi di migranti possono influenzare il mercato immobiliare. Una stima recente mostra che il mark up dovuto all’immigrazione, nel mercato immobiliare britannico, faccia aumentare i prezzi delle case del 10%, producendo effetti soprattutto nel sud-est del Paese e a Londra. Tuttavia, il vero colpevole non è l’immigrazione, ma i rigorosi controlli urbanistici che fanno dello stock abitativo della Gran Bretagna il più piccolo, costoso e densamente popolato d’Europa.

Sostenendo controlli sull’immigrazione più severi, i free marketers britannici rischiano di finire per difendere un insieme di politiche profondamente illiberali. Il mese scorso Sam Bowman, dell’Adam Smith Institute, ha paragonato le restrizioni migratorie alle Corn Laws (i dazi sull’importazione di derrate agricole del XIX secolo), sottolineando come il loro effetto sia «vietare alle imprese di assumere e ai proprietari di immobili di affittarli o venderli a persone che hanno avuto la sfortuna di nascere nel posto sbagliato». Il mese scorso il primo ministro David Cameron ha dichiarato che il Regno Unito manterrà le restrizioni migratorie «fino a quando la loro ricchezza non sarà al livello della nostra»: chiunque sostiene di comprendere che il libero scambio genera ricchezza dovrebbe sapere qualcosa di più sul suo funzionamento.

Come diceva Milton Friedman, ogni lavoratore immigrato ha due braccia e una bocca sola. Ma si sa, le sirene del nazionalismo e del protezionismo sono sempre dietro l’angolo, e sono tutti statalisti col c**o degli altri.

Twitter: @glmannheimer

 

 

14
Gen
2014

Energia: tutti i danni e le bufale di Destinazione Italia

Tutte le classifiche internazionali suggeriscono che gli elevati costi dell’energia rappresentano un grave ostacolo agli investimenti esteri nel nostro paese. Il decreto Destinazione Italia, all’articolo 1, contiene “Disposizioni per  la  riduzione  dei  costi  gravanti  sulle  tariffe elettriche”. Purtroppo, siamo in presenza di un clamoroso esempio di neolingua. Una memoria dell’Autorità per l’energia sul tema esprime con giusto tatto istituzionale una serie di osservazioni migliorative del decreto. L’obiettivo di questo post è commentare comma per comma le parti energetiche del decreto, però senza tatto.

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13
Gen
2014

Abolire le Province è necessario

Il briefing paper pubblicato per l’Istituto Bruno Leoni ha aperto un dibattito importante sul disegno di legge “Delrio”, Ministro degli Affari Regionali e per le Autonomie, circa l’eliminazione/svuotamento delle Province.

È chiaro, come giustamente Oliveri nell’articolo pubblicato su Leoni-Blog, non si tratta di una vera e propria eliminazione delle Province, come richiesto anni orsono (correva l’anno 2008) dal libro curato da Silvio Boccalatte, ma di uno svuotamento.

Per effettuare l’eliminazione delle Province, ci vuole una riforma Costituzionale, non facile da fare, ma necessaria.

Il disegno di legge “Del Rio” va nella direzione dello svuotamento, ma come giustamente ricorda Oliveri e come si ricorda nel paper, ci sono dei punti ai quali è necessario porre attenzione.

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13
Gen
2014

Quando un timbro blocca tutto

In Italia le riforme sono sempre di due tipi: “epocali” oppure “ponte”. Le prime “coinvolgeranno le future generazioni”, le seconde sono “aggiustamenti temporanei”, destinati a reggere solo qualche anno. Poi accade che le riforme epocali vengano rimodellate ogni due mesi, per essere archiviate dopo qualche anno (si pensi al nuovo codice di procedura penale, definito alcuni anni fa, dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, un “relitto in disarmo”), mentre le riforme “ponte” divengono agilmente definitive (c’è la ricordiamo la cosiddetta “legge ponte” urbanistica?).

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11
Gen
2014

Il Sud, le accise e la casa: come aggravare il gap di chi sta peggio

C’ è un punto di fondo, che ancora non è stato toccato nel convulso dibattito sull’aumento del prelievo fiscale italiano. E’ un punto che riguarda il nodo forse più di fondo della decrescita italiana, e del freno a recuperare il gap accumulato. Eppure, nessuno ci ha fatto caso, o almeno così mi sembra. Il che la dice lunga, su quanto l’attenzione pubblica sia lontana dal dramma del dualismo italiano: il dramma del Sud, che perde in questi anni anni molto più del Nord in termini di produttività, reddito disponibile, occupati.

Non amo le geremiadi di circostanza sul meridionalismo tradito. IL Mezzogiorno ha le sue colpe gravi, non è figlio di una spoliazione arcigna operata da rapaci nordisti. Per decenni, nella lunghissima stagione dell’intervento straordinario, decine di punti di Pil di risorse pubbliche sono state convogliate al Sud. Ma in 152 anni di storia unitaria il gap resta e si aggrava, rispetto alla lezione dataci dalla Germania in 20 anni su recupero e rilancio della sua parte orientale, ex Ddr. Detto questo, resto basito dal fatto che nessuno noti come la politica fiscale seguita in questi ultimi anni bastoni il Mezzogiorno ancor più duramente del resto d’Italia. E’ il Sud, infatti, la parte d’Italia più colpita dalle due tenaglie più affilate della strategia fiscale che emerge dalla legge di stabilità e dai decreti successivi, con cui il governo Letta sta tentando di rimediarne, dopo tanti mesi di preparativi e asgiustamenti, i guai.

Quali sono, le due tenaglie? Quelle alle quali la strategia fiscale di Letta e Saccomanni hanno affidato il più della messa in sicurezza dei conti 2014 e degli anni a venire, in mancanza dei tagli di spesa per i quali tutti continuano a citare la salvifica spending review di Cottarelli. Che però ha il difetto di non essere cifrata in termini precisi nella legge di stabilità, visto che i politici di ogni partito preferiscono sui tagli di spesa affidarsi a un tecnico esterno, pur di non pagare il prezzo dell’impopolarità. Le due tenaglie sono quelle del prelievo patrimoniale in particolare sugli immobili, e dell’aumento di accise ed imposte indirette.

Perché colpiscono più pesantemente il Mezzogiorno? Purtroppo è evidente. Nel primo caso, l’imposizione immobiliare, si tratta di entrate pubbliche definite prevalentemente su basi patrimoniali. Nel secondo caso, le imposte indirette dipendono dai consumi. In entrambi i casi, dunque, la base imponibile prescinde .- tranne che per parti infinitesime, come l’eventuale detrazione sulla componente Tasi della nuova IUC, che dovrà essere deliberata dai Comuni – dal reddito di coloro che ne vengono colpiti. Poiché il reddito procapite del Mezzogiorno è ormai in molti casi inferiore di un terzo o di quasi la metà rispetto a quello di alcune regioni del Nord, la morsa della scelta governativa rappresenterà un nuovo colpo asimmetrico a svantaggio del Mezzogiorno.

Per rinfrescare la memoria, se osserviamo le dichiarazioni 2012 dei redditi 2011 dei contribuenti italiani, rispetto a un reddito procapite di 23.210 euro della Lombardia, la Campania stava a 16.360 euro – quasi di un terzo inferiore – e la Calabria a 14.230 – inferiore del 40%. Su questa base di reddito disponibile tanto inferiore, sia i prelievi al consumo – accise e maggiorazione dell’IVA – sia quelli patrimoniali incidono in maniera regressiva, determinando cioè riduzioni del reddito disponibile tanto più gravi laddove, al Sud appunto, il reddito disponibile di base dopo questi anni di crisi tremenda già era tanto più basso.

Avrebbe dovuto pensarci, il governo, prima di decidere l’aumento delle accise sugli alcolici e sulle sigarette elettroniche, prima di alzare l’aliquota ordinaria IVA al 22% e dal 4 al 10% sui distributori automatici di alimentari e bevande, prima di elevare l’ammontare dell’imposta di registro e di quella suo conto-titoli di risparmio, o di diminuire la detrazione sulle polizze vita e infortuni. Ed è un bilancio negativo per il Sud aggravato dalla IUC, che somma la vecchia IMU residua, Tasi e Tari, con le sovraliquote per compensare i Comuni. Perché se andiamo a vedere il Rapporto Immobili 2012 elaborato dall’Agenzia del Territorio e dal Dipartimento delle Finanze, sui 24,6 milioni di italiani proprietari di almeno un’unità immobiliare, al Sud sia tra proprietari di prima che seconda casa i pensionati superano i lavoratori dipendenti, e nel loro caso il reddito disponibile nel Mezzogiorno è in media di poco superiore ai 12 mila euro l’anno, e in alcune regioni inferiore ai 10mila.

E’ ovvio che queste ragioni NON implichino affatto che non si debba mettere mano, in una situazione di conti pubblici tanto pregiudicata come quella italiana, anche a un riequilibrio nel quale la componente patrimoniale e quella indiretta delle entrate abbia un suo ruolo. Ma, appunto, deve trattarsi di un riequilibrio: cioè di un quadro generale di riduzione della pressione fiscale generale pluriennale in coerenza ai tagli di spesa, nel quale per generare crescita aggiuntiva le componenti patrimoniali e indirette vengano compensate da riduzioni delle aliquote marginali, medie e mediane del prelievo sui redditi delle persone fisiche e giuridiche. Se invece si procede per semplice sommatoria di aggravi su tutte le fonti di prelievo, quando il piede slitta sulla frizione delle imposte patrimoniale e indirette, allora si colpiscono di più i più poveri.

E’ un Paese smarrito e sulla via di perdersi, quello in cui si decide tutto questo a svantaggio di chi sta peggio. Quel che è peggio, poi: senza neanche rendersene conto.

9
Gen
2014

Sulla casa ci aspettavamo una riforma—di Enrico Zanetti

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Enrico Zanetti, Responsabile politiche fiscali di Scelta Civica e Vicepresidente della Commissione Finanze della Camera.

La partita della tassazione sulla casa era in salita sin dal principio, ma difficilmente il Governo avrebbe potuto fare peggio di quel che ha fatto su questo specifico dossier.

Quello di riformare la materia, introducendo già dal 2014 una service tax, era stato uno degli impegni che il Governo aveva preso da subito e con toni perentori.

Da maggio a novembre 2013, c’era tutto il tempo per fare un lavoro più che valido, per chi era stato delegato ad occuparsene in seno al MEF.

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8
Gen
2014

Scuola, passa l’irretroattività della pretesa statale. E per noi contribuenti?

La restituzione degli scatti d’anzianità già pagati agli insegnanti si è risolta in un disastro, per il governo Letta e per il ministro dell’Economia, Saccomanni. In un disastro d’immagine, visto il rapido dietro front al quale il governo è stato costretto ieri mattina, dal segretario del pd Renzi e dall’intero fronte dei sindacati della scuola. E in un disastro sostanziale, perché la vicenda ha reso ancor più evidenti due aspetti largamente intollerabili: l’avanzatissimo sfasamento tra politica e pubblica amministrazione, e il ricorso a princìpi alterni e discrezionali, nel determinare chi davvero paga che cosa allo Stato.

Andiamo per ordine. Il blocco generale triennale fino al 2015 degli scatti d’anzianità nel pubblico impiego fu una classica misura dettata dalla disperazione, per far cassa. Non si rivedeva il perimetro dei dirigenti e dipendenti, né si bloccavano le promozioni. Semplicemente, lo Stato non pagava il progresso dell’anzianità che si accumulava, promettendo di farlo successivamente, molti anni dopo. Una prima breccia fu aperta a favore dei magistrati da parte della Corte costituzionale, che sancì che alle toghe di Stato andava restuito il dovuto, altrimenti sarebbe stata lesa la serenità che è alla base dell’indipendenza del magistrato. Tesi risibile, visto che non si capisce perché dovrebbe valere solo per pm e giudici, ma tant’è. I magistrati, per così dire, si sono tutelati da soli. Per gli altri comparti, l’idea era che ogni amministrazione avrebbe dovuto produrre tagli aggiuntivi, se voleva tornare a corrispondere l’anzianità ai suoi dipendenti.

Ed è quanto avvenuto nella scuola, con un’intesa coi sindacati che finalizzava a tal fine tagli aggiuntivi al fondo di funzionamento e a quello di formazione. Intesa ratificata dal contratto di settore, con inizio dei pagamenti a marzo 2013. Senonché a settembre in vista della legge di stabilità al Tesoro non tornano i conti, i tagli non sarebbero aggiuntivi a quelli già previsti. Ed ecco che si mette in moto la macchina del MEF, che porta a disporre e a comunicare agli insegnanti la restituzione del già versato a cominciare dai cedolini di gennaio, ed entro una rata mensile di 150 euro.

Risultato: rivolta. Giuste e comprensibili grida sul già troppo basso ammontare delle retribuzioni degli insegnanti (in termini comparati non è proprio così, ma qui sorvoliamo), e sull’inaccettabilità che accordi presi alla luce del sole su remunerazione e contratti possano essere ex post disconosciuti. Ma come, non era il Tesoro ad aver pagato da marzo scorso? Sì, ma come mero esecutore, ha detto improvvidamente Saccomanni. Aggiungendo: il ministro Carrozza era avvisata da due mesi.

Sono diventate così in solo colpo sinistramente palesi delle vere patologie. E’ possibile che il Tesoro effettui pagamenti a migliaia di persone fuori da un preventivo controllo di legittimità? Stando ai fatti, sembra essere accaduto, se per di più il Tesoro dichiara di essere mero ufficiale pagatore. E’ possibile, che i competenti vertici della burocrazia del MIUR e del Tesoro, non abbiano reciprocamente chiarito quali erano i termini e le conseguenze degli accordi raggiunti? Oppure bisogna pensare che non ne abbiano informato i rispettivi ministri, ciascuno dei due continuando così a pensare uno che la cosa fosse risolta, e l’altro che i pagamenti non avvenivano o, se avvenuti, bisognava per legge recuperarli?

In un paese serio, nessuna di queste tre cose può normalmente avvenire. Oppure, se avviene, un governo deve a quel punto identificare i responsabili e assumere nei loro confronti tutte le misure consentite dall’ordinamento (verrebbe da dire: metterli alla porta, ma sappiamo quanto in Italia sia difficile). La cosa si è risolta con l’improvviso dietro front, e un nuovo colpo all’immagine del governo.

Ma non è finita, se ci pensate bene. La soddisfazione più che legittima per gli insegnanti si accompagna a un’ultima considerazione. La marcia indietro del governo discende da un principio che dovrebbe essere sacro: quello dell’irretroattività delle pretese dello Stato. Se ciò che è stato dato dallo Stato era legittimo, non può essere richiesto indietro dallo Stato stesso, se parliamo di retribuzioni pubbliche. Ma è lo stesso principio che dovrebbe valere per ogni pretesa fiscale dello Stato: non si può introdurre o aggravare un’imposta ex post, incidendo sul reddito e sul patrimonio dei contribuenti in un periodo anteriore a quello dell’approvazione e dell’entrata in vigore della norma stessa.

E’ il principio base dello Statuto dei contribuenti, la legge 212 del 2000. E’ una delle leggi più calpestate dallo Stato stesso. La norma è diventata esattamente opposta. Lo Stato ancora non ci sa dire quanto dovremo pagare entro il 24 gennaio in aggiunta all’IMU prima casa per il 2013, se risiediamo in uno dei 2700 Comuni che – visto che lo Stato non li aveva bloccati – legittimamente hanno approvato sovraliquote. Lo Stato cambia ex post la detrazione per le polizze assicurative che abbiamo sottoscritto 10 mesi fa. La cosiddetta Robin Hood Tax energetica, nel 2008, fu retroattiva. L’addizionale regionale IRPEF dello 0,33% fu retroattiva, nel 2011. Tra il salva-Italia del dicembre 2012 e la legge di stabilità per il 2013, 5,5 miliardi di gettito aggiuntivo è stato retroattivo. Potremmo continuare a lungo.

Lasciateci allora dire una cosa. L’irretroattività affermata oggi per gli insegnanti deve essere un precedente virtuoso per tutti noi, per tutti i contribuenti. Lo Stato torni a imparare il rispetto della parola data egli per primo, se vuole davvero essere non solo apparato coercitivo, ma un valore morale (ho molte difficoltà, a usare questa espressione per lo Stato italiano). Altrimenti, vorrà dire che l’irretroattività delle sue pretese vale solo per le lobby più forti. E a quel punto Dio scampi e liberi, con una pubblica amministrazione già tanto discrezionale. Noi contribuenti lo sappiamo bene, perché non abbiamo scampo né abbiamo combattivi sindacati e vasti patrocini politici trasversali, come i dipendenti della scuola.