Articolo 18: la bandiera ideologica contro la realtà dei fatti
Si torna allo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che disciplina le norme per i licenziamenti e i reintegri nelle aziende sopra i 15 dipendenti. Nei decenni, la norma è diventata una lizza obbligata per tornei a partiti contrapposti. Cerchiamo di capire che cosa è davvero in gioco, e che cosa sia meglio sperare.
Premessa obbligata: il rinvio non aiuta. La legge delega di riforma del lavoro – impropriamente detta Jobs Act – in Senato è stata rinviata a settembre, sotto il peso delle migliaia di emendamenti che impegnavano l’aula sulla riforma della Costituzione. L’ingorgo delle misure – c’erano anche 4 decreti legge pendenti in parlamento – e la ristrettezza dei tempi hanno avuto un effetto negativo. Dalle parole di Draghi alle analisi delle agenzie di rating e della stampa estera dopo la conferma della recessione italiana nel secondo trimestre, la riforma del mercato del lavoro è in testa alla lista delle misure per le quali si rimprovera al governo il ritardo sulle misure di maggior impatto economico. Di conseguenza, a settembre governo e maggioranza devono cercare di arrivare al varo del provvedimento con idee chiare e soluzioni efficaci. Se si reimpantanano in contese ideologiche, sarà un’altra ragione per diffidare dell’Italia. Non è proprio il momento.
Poiché la politica procede per semplificazioni comunicative, ora sembra essersi riaperto il classico scontro già visto tante volte: Alfano punterebbe all’abrogazione all’abrogazione, Brunetta e Forza Italia si sono aggiunti, mentre buona parte del Pd e naturalmente Cgil e sindacato sono contrari. Come vedremo, non è così. Ma poiché la comunicazione prevale sulla sostanza, messa così il governo si farà male, non potendo certo ammettere che su una simile misura “sociale” mezzo Pd contrario sia pareggiato dal voto compatto di Forza Italia. Ed è alto il rischio che non ne esca niente di buono.
La soluzione deve invece venire da un ragionamento il più possibile oggettivo, basato su dati di fatto cioè numeri, e incardinato su ciò che davvero è nelle norme proposte: nessuna delle quali – sorpresa! – attualmente in Senato propone il superamento dell’articolo 18 per tutti i dipendenti e per sempre.
I numeri. La politica bisogna che si rassegni: tutti i suoi tentativi di piegare il mercato del lavoro volgendolo verso “un” tipo ideale di contratto ottengono effetti contrari e negativi, cioè meno occupati. Nei nuovi rapporti di lavoro attivati dal 2011 al 2013, sono diminuiti i contratti a tempo indeterminato (-14,2%), è sceso l’apprendistato (-18,4%), i contratti di collaborazione per lo più a progetto (-24,3%) e il lavoro a chiamata (-31,6%). Di qui l’intervento fatto dal governo col decreto Poletti, per semplificare l’uso dei contratti a termine e l’apprendistato, riducendo gli spazi per altre formule contrattuali, ritenute più a rischio di abusi, come le collaborazioni a progetto, l’uso di partite Iva, il lavoro a chiamata. Una cosa è sicura, da questi dati: l’intento della riforma Fornero sul lavoro – piaciuta ai sindacati, a differenza di quella sulle pensioni – cioè scoraggiare il ricorso alle collaborazioni a tempo più “sospette”, non ha avuto affatto l’effetto di rafforzare il lavoro a tempo indeterminato, che è l’idea molto “novecentesca” che sindacati e sinistra hanno del lavoro, non rendendosi conto – ma questa è la nostra opinione – che il mondo è cambiato. Siamo riusciti a scoraggiare anche i contratti di lavoro a chiamata (o di lavoro intermittente), molto usati negli alberghi e nella ristorazione, scesi dal 10% al 5% sul totale degli avviamenti al lavoro, e poi diciamo di voler rilanciare turismo e cultura… Nella crisi italiana, dal 2010 a oggi, nessun intervento politico favorevole ai contratti a tempo indeterminato ha mutato di un millimetro la realtà concreta della domanda italiana di lavoro: i contratti a tempo rappresentano il 67% delle nuove assunzioni, quelli a tempo indeterminato meno del 18%. Sul totale dei circa 16,6 milioni di lavoratori dipendenti, ben 14,5 milioni sono a tempo indeterminato (tra tempo pieno e tempo parziale): dunque non siamo in presenza di un mercato del lavoro a maggioranza precario, ma resta il fatto che voler “spingere” le imprese sui neoassunti a solo tempo indeterminato non fa bere il cavallo.
Perché questo excursus numerico? Perché l’articolo 18 – nella mente di chi lo difende ideologicamente – è una tutela che dovrebbe contraddistinguere il mondo ideale, quello in cui il più della nuova occupazione “deve” essere rappresentata dal lavoro a tempo indeterminato. Non solo così non è, e dunque è una tutela per una minoranza di ipertutelati rispetto alla maggioranza degli avviati al lavoro. Ma finisce per rappresentare un freno e non un incentivo, proprio al se si ha in mente come obiettivo la crescita della quota di lavoro a tempo indeterminato. Ed è esattamente questa la “trappola mentale” che può riscattare sul Jobs Act.
Veniamo infatti alle norme sulle quali il confronto era andato avanti, in Commissione Lavoro al Senato. La modifica dell’articolo 18 rispetto alla riforma Fornero – che aveva fatto restare l’appellabilità giudiziale e la reintegra anche per i licenziamenti economici, sia pure dando come alternativa l’indennizzo – nel disegno di legge delega è una sorta di appendice a uno dei suoi pilastri, cioè il contratto di inserimento triennale a tutele crescenti. Oltre a prevedere sgravi contributivi ancora una volta caratterizzati dal favore verso il tempo indeterminato – fino due terzi degli attuali contributi per un neo assunto a tempo indeterminato, solo metà verso il tempo determinato – si pensa nel contratto d’inserimento anche a una modifica dell’articolo 18 attuale, facendolo restare la reintegra obbligatoria giudiziale solo per i licenziamenti discriminatori, e sostituendo il giudizio del magistrato su quelli economici con una indennità proporzionata all’anzianità di lavoro maturata.
E qui insorgono le differenze. Pietro Ichino, di Scelta Civica, da sempre propone che la reintegra per i licenziamenti economici scompaia gradualmente per tutti, sostituendola con un’indennità a carico dell’impresa anche comprensiva del finanziamento a tempo della ricollocazione del lavoratore. Non è questo, ciò che propongono Alfano e Brunetta: dalle parole che usano si intende che parlano di una “moratoria” dell’articolo 18 per i neoassunti, Brunetta ha specificato per tre anni, in modo che alla fine del contratto d’inserimento e una volta assunti a tempo indeterminato la tutela attuale torni a valere per tutti. Il Pd si era spinto al massimo a far capire invece che la moratoria può valere solo per i primi sei mesi di prova, dopo i quali scatta il contratto d’inserimento a pieno titolo e resta la piena tutela dell’attuale art. 18.
Chiarita la questione, arriviamo al punto. Una riforma vera dell’articolo 18 dovrebbe riguardare tutti i lavoratori ed essere collegata dunque alla riforma degli ammortizzatori sociali pure preista nel Jobs Act, come da sempre chiede Ichino. E come ha fatto la Spagna, dove il licenziamento per motivi economici è stato consentito anche individualmente e la giudiziabilità è esclusa, sostituendola con indennizzo. Anche in Francia, la giudiziabilità del licenziamento economico è esclusa e si procede con un indennizzo. Se ci s’impicca allo scontro ideologico tra chi la vuole una moratoria per i soli neo avviati al lavoro dividendosi tra chi la vuole per sei mesi o per tre anni, è uno scontro che non vale la candela, e allora ha ragione Michele Tiraboschi: frammenta solo ulteriormente il regime di tutele, ma l’imprenditore saprà sin dall’inizio che alla fine le cose restano come oggi. Sarebbe l’ennesimo “intervento a margine” che ogni governo propone, con poco successo sulla domanda effettiva di lavoro. Mentre il punto vero è sgravare le imprese di troppe tasse sul lavoro, la riforma degli ammortizzatori con la fine della CIG, un sistema efficiente e aperto al privato di incrocio tra domanda e offerta di lavoro, la formazione ricorrente (abbian speso nella crisi 100 miliardi di CIG senza un’ora di formazione per ricollocarsi), e molto più apprendistato.
Soprattutto, il governo eviti un rischio aggiuntivo: quello di graduare una riforma dell’articolo 18 limitata a una moratoria più o meno lunga, peggiorando però come oggetto di scambio il contratto d’inserimento, che sindacati e parte della sinistra vogliono – tanto per cambiare – il più possibile sostitutivo di tutte le altre forme di contratto, da quelli a tempo all’apprendistato, che dovrebbe rappresentare invece la via maestra per il lavoro in moltissimi settori.
Solo Renzi in persona può scogliere il nodo. Ma una riforma ambiziosa non può essere una norma a tempo col rischio di peggiorare il resto.