18
Set
2014

Il Pd si rispacca sul “mito” art.18, e della produttività non si parla neanche stavolta

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 è un mito, per questo da decenni è diventato un tabù da non toccare. Perché i miti hanno forza evocativa, sono bandiere di valori, stendardi di visioni ideologiche. Per questo è così difficile mutarli. Non si piegano alla logica dei numeri. Rimbalzano sulla realtà dei fatti. Si misurano con metro delle utopie, non della realtà che per definizione non soddisfa l’idealista. Ecco perché da una parte è buona cosa, che Matteo Renzi abbia dato un forte impulso alla possibilità di modifcarlo, usando a sua volta termini “valoriali”, e proclamando “basta con l’apartheid dei diritti”. Dall’altra parte però bisogna saperlo: ora per una parte non trascurabile della sinistra e per i sindacati si ripropone lo stesso campo di battaglia sul quale hanno vinto e rivinto da 50 anni a questa parte, respingendo ogni volta chi voleva scalfire il mito. Il Pd ha gruppi parlamentari su cui Bersani, Damiano, Fassina, cobn la loro difesa del “mito” avranno gioco facile. E il rischio forte – ancora una volta – è che per unj compromesso dopo tanti aspri scontri NON si tocchi né si risolva il problema fondamentale.

Se guardiamo alla realtà, i termini della questione dovrebbero essere del tutto diversi. Per evitare l’ennesima “riforma al margine” delle regole sul lavoro – ogni governo italiano pasticcia con incentivi e disincentivi per questo o quel contratto, credendo di far bene e complicando solo la distorsione generale che su domanda e offerta di lavoro esercitano migliaia di pagine di norme – pochi numeri dovrebbero essere posti al centro. Se guardiamo alla popolazione tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Se depuriamo i dati dai cassintegrati e disoccupati “ufficiali” che risultano come lavoratori, “attivi” che cercano lavoro, e assumiamo come base l’intera popolazione nazionale, da noi lavora un italiano su tre, in Germania due tedeschi su tre. Questo è il problema numero uno: abbiamo un’enorme gap di occupabilità rispetto al quale rimuovere ostacoli, a cominciare da giovani, donne e over-55enni. Secondo problema, altrettanto grave: la produttività. Da noi i salari registrano da molti anni un andamento totalmente scollegato rispetto alla produttività: se guardiamo alla manifattura e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita solo verso quota 110 e i salari orari sono arrivati oltre quota 155, mentre nell’eurozona la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dunque deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia quelli alla produttività.

Naturalmente, per gli idealisti dell’utopia questi numeri sono invece da respingere. Descrivono un mondo sbagliato perché vuole remunerare anche il capitale per produrre, mentre bisogna che le norme affermino un mondo dove non contano gli interessi, ma solo i valori. Se fate loro osservare che l’articolo 18 si applica oggi a una minoranza netta rispetto ai 22,4 milioni di lavoratori italiani ufficiali, visto che i dipendenti a tempo pieno e parziale sopra la soglia dei 15 per azienda sono circa 9,4 milioni, e dunque ha ragione Renzi a dire “basta apartheid” visto che ne sono esclusi i contratti a termine, i cocopro, gli autonomi, le partite IVA, ti rispondono che al contrario è un buon motivo per estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori: perché è questione di principio. E poco importa se l’estensione delle forme di lavoro meno tutelate per intere generazioni di più giovani è stata dovuta all’effetto -disincentivo rappresentato dall’elevato costo-fisso del rapporto di lavoro acceso “per sempre”, in aziende che oggi devono rispondere a una domanda che varia a settimana. Ti diranno che è colpa della globalizzazione, e a quel punto non c’è più confronto possibile. Visto che è proprio sull’export verso il mondo, che l’Italia deve puntare a breve per tornare alla crescita, mentre per rianimare la domanda interna serviranno tempi più lunghi.

Di conseguenza, la battaglia sarà dura. E il rischio è che ancora una volta si perda di vista l’obiettivo più importante. Con la delega emendata dal governo – e che in parlamento susciterà un duro contrasto anche nel Pd – si mira a un codice semplificato del lavoro che prevede un contratto d’inserimento triennale incentivato fiscalmente e a tutele crescenti, che prevede per i nuovi assunti in caso di licenziamento il superamento del reintegro giudiziale, che nella riforma Fornero convive ancora con la possibilità dell’indennizzo per i licenziamenti economici. Resterebbe solo l’indennizzo, proporzionato alla durata dell’impiego sinora svolto. Ma senza più distinzione di soglia dei 15 dipendenti, ed esteso anche agli ambiti di lavoro e contrattuali oggi esclusi.

Non è ancora chiaro se l’indennizzo resterebbe per i licenziamenti economici anche dopo i tre anni. Immagino di no, sarebbe sposare la posizione di Pietro Ichino in tutto e per tutto. Se si limita l’indennizzo per i licenziamenti economici a soli 30 mesi, come sembra di capire, in realtà si segmenterebbe ulteriormente l’apartheid italiana del lavoro. Ma il governo intende questo come “uno” dei pilastri, non “il” pilastro: perché si affianca a un nuovo strumento universale di sostegno al reddito per chi perde il lavoro, volto alla formazione e alla rioccupabilità tramite il nuovo “contratto di ricollocazione”, superando cioè in toto il sistema CIG e la sua illusione di difendere il lavoro “com’era e dov’era”; e alla rivisitazione profonda – speriamo coraggiosa – dei vecchi uffici provinciali del lavoro, creando un sistema di incrocio tra domanda e offerta aperto agli intermediari privati accreditati, e incentrato anch’esso su crediti di formazione per il reimpiego.

Da questo schema resta ancora totalmente fuori la produttività: occorre una svolta vera a favore dei contratti decentrati, dando loro la possibilità di prevalere sul contratto nazionale di categoria anche per la parte salariale. Lasciando alla contrattazione nazionale solo le tutele e i minimi salariali, cioè i “diritti”, ma scegliendo di trattare turni , orari e salari nelle aziende, compartecipando ai lavoratori premi retributivi sostanziosi quando le cose vanno bene, e decrementi a tutela dell’occupazione quando le cose vanno male. Lo ha scritto anche Tito Boeri ieri su Repubblica, e non è certo sospettabile di essere indifferente alla sinistra o sostenitore di Renzi.

E c’è anche un’altra insidia. Perché il nuovo contratto d’inserimento sarà interpretato dagli utopisti come una forma che deve sfociare comunque nell’assunzione a tempo indeterminato per tutti. Sbagliando due volte. Primo perché le imprese hanno bisogno anche dei contratti a tempo determinato, ed è stato saggio col decreto Poletti alleggerirne i vincoli. E secondo perché la strada maestra per l’inserimento al lavoro dovrebbe essere quella dell’apprendistato professionalizzante, affiancando scuole e università alle imprese sin dall’istruzione superiore, come avviene con enorme successo in Germania.

Siamo reduci dal fallimento degli incentivi al tempo indeterminato voluti da Letta e Giovannini, ed è in corso una colossale presa per i fondelli a 200 mila giovani che avevano creduto a Garanzia Giovani, e che in nove casi su dieci non hanno ottenuto sinora neanche un colloquio di orientamento. Ecco i nuovi frutti dell’utopismo calato dall’alto su troppe regole disincentivanti. Poiché è molto difficile aspettarsi dal governo un energico taglio delle imposte su imprese e lavoro, almeno ci si risparmino scioperi generali sull’articolo 18. Perché, con rispetto parlando, davvero non è il problema centrale dell’Italia, ma solo un mito che i numeri respingono. Gli stessi numeri che ci dicono che il problema vero è la produttività e la bassa partecipazione al lavoro dei giovani – per una scuola sbagliata – delle donne – per un welfare sbagliato – e degli anziani – per un sistema di riorientamento formazione-lavoro che manca.

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8 Responses

  1. Federico Guella

    Caro Oscar, Job’s Act e articolo 18 rappresentano l’ennesima idiozia del Governo Renzi per distogliere l’attenzione dal vero problema: le aziende non assumono perché il mercato è fermo, ovvero non riescono a vendere i loro prodotti e la tassazione è spaventosamente alta e non competitiva con gli altri Paesi. Nelle aziende in cui ho lavorato come dirigente, per lo più multinazionali, non ho mai visto un’assunzione bloccata per colpa dell’articolo 18 ma, caso mai, per l’incidenza del costo del lavoro. L’Italia non riesce ad attrarre gli investitori esteri, a parte qualche cinese e qualche azienda collusa con i politici di casa nostra, perché solo un’idiota che non fa gli interessi della propria azienda, dei propri dipendenti e dei propri azionisti investirebbe in un paese dove deve pagare il 68% di tasse a fronte del 25% pagato in Austria. Per non parlare di un altro grande incentivo italico: la burocrazia idiota, collusa e corrotta. Niente investimenti, niente nuovi posti di lavoro. Chiaro no? Non dovrebbe essere così difficile da capire, non fosse altre perché tutti gli analisti economici dicono a Renzi la stessa cosa: riduci le tasse e taglia sprechi e spesa pubblica. Risposta del gelataio: su le tasse, niente tagli “veri”, avanti con le caste e continuiamo a fare annunci basati sul vuoto “cosmico”. Il problema vero è che agli italiani, quelli che hanno privilegi da difendere, tutto questo sembra piacere, stando a certi sondaggi. Quindi? Tutti allegri, andiamo avanti a ballare al ritmo del suono perverso della Banda del Titanic che continua a suonare anche se l’acqua è già arrivata al collo.

  2. adriano

    Va bene tutto tranne “ha ragione Renzi”.Da idealista democratico,amante delle elezioni sui programmi,rimane la pregiudiziale sull’approvazione delle proposte che deve essere preventiva,non consuntiva.Come nei condomini.Il genio della lampada si degni di presentare un progetto agli ottusi cittadini malati di insanabile ignoranza e si adegui al loro giudizio.Prima di questo ed in assenza di questo qualsiasi cosa faccia a me non va bene.Sarebbe meglio eliminare le complicazioni.Il contratto di lavoro diventa un normale accordo fra le parti e non è più un sacrale vincolo indissolubile di matrimonio?Allora possono essere tutti a tempo indeterminato,con la possibilità di recesso attraverso un adeguato indennizzo da stabilire.Rimane solo questo problema che sarebbe meglio lo risolvessero le parti.Per il reinserimento si facciano pure tutte le riqualificazioni che si vuole,se ci sono soldi e tempo da perdere.La cultura non è mai troppa ma non si pretenda di invertire l’entropia illudendosi di andare contro la natura.Dopo una certa età si fa fatica a vedere,a sentire , l’unica cosa che si ingrossa è la prostata e si è fuori mercato.Riserviamo i lavori comodi a chi ha bisogno di comodità.C’è una clausola di esclusione che riguarda l’età per i concorsi pubblici?Invertiamola dove non sono necessarie particolari doti fisiche ed assegnamo i posti da usciere e da impiegato a chi ha più problemi a fare i cento metri.Non vedo perchè non si possa fare e non capisco perchè non lo si faccia.

  3. Filippo

    Egregio Oscar,sinceramente credo che questa cosidetta riforma di cui tanto si discute senza però avere ben chiaro che cosa conterrà non sia l’elemento che farà arrivare investitori esteri a frotte nel nostro Bel Paese.
    Io non credo che sia un problema l’articolo 18, e nello specifico la presunta difficoltà per licenziare un lavoratore dipendente.Io sono un lavoratore dipendente,nella mia vita ho lavorato sia in aziende con più di 15 dipendenti che in quelle più piccole.In un caso e nell’altro quando il titolare ha voluto sbarazzarsi di un dipendente non ha mai avuto grossi problemi nel farlo.Sono d’accordo con quanto scritto dal Signor Guella,le ragioni che allontanano gli imprenditori dall’Italia sono quelle che elenca nel suo post,credo che questa storia dell’art.18 non c’entri più di tanto.Temo invece che questo non sia altro che un tentativo per sollevare grande clamore e distogliere l’attenzione da altri temi su cui evidentemente questo governo non ha la forza di poter efficacemente incidere.Penso alla lotta contro la burocrazia,la corruzione,la necessità di sistemare il comparto pubblico aumentandone l’efficenza etcetc.E’ molto più “semplice” arrivare ad una riforma del lavoro (altrui) che cercare di cambiare veramente l’Italia.finirà con minori tutele per i lavoratori dipendenti e si arriverà ad averre un Paese con tre classi di occupati:occupati di serie A,i dipendenti pubblici;occupati di serie B,dipendenti privati che hanno già un contratto a tempo indeterminato;occupati di serice C,tutti coloro che entrano nel mondo del lavoro e quanti si ritroveranno a doversi rimettere in discussione cercando un nuovo lavoro.E’ la soluzione dei mali che affliggono il nostro Paese?No,non credo.E’ un piccolo passo?Forse,in una situazione economica normale sì,oggi come oggi è un viatico per creare nuove tensioni.Faccio sempre più fatica a credere agli annunci che quasi quotidianamente il Presidente del Consiglio lancia in televione o su internet.Vorrei meno annunci e poche cose importanti ma fatte bene,probabilmente chiedo troppo……

  4. Gabriele

    Carissimi, capisco che è un discorso amaro e poco piacevole da dover ammettere, ma avendo lavorato per diversi anni in aziende straniere mi rendo conto che l’articolo 18 è l’origine di tutti i nostri mali.
    Vorrei partire da quello che mi ha raccontato ieri mia figlia all’uscita da una scuola superiore statale: “il prof. è entrato in classe e ci ha chiesto se volevamo far lezione, ovviamente abbiamo risposto NO a questo punto lui si è messo a leggere il giornale”. Può questo paese permettersi certe situazioni che sappiamo tutti non essere casi isolati ? Gli insegnanti negli USA vengono costantemente misurati, premiati e quando necessario licenziati (ca il 3% annuo).
    Dobbiamo capire che il licenziamento non è una condanna penale ma semplicemente uno strumento che l’imprenditore (ma anche lo stato) dovrebbe avere per selezionare il miglior lavoratore, così come sono uno strumento gli incentivi, i bonus o le promozioni. L’articolo 18 è la negazione della meritocrazia e del liberismo.
    Negli USA, come in altri paesi anglosassoni, molte aziende (quasi tutte quelle del Fortune 500) usano la cosiddetta “Vitality curve” detta anche “rank and yank” (vedi wikipedia): ogni anno per ogni reparto e per ogni livello si genera una classifica sul rendimento dei lavoratori e il 5-10% di chi rimane in coda viene LICENZIATO! L’operazione si ripete anno per anno. Non solo: i posti rimasti vuoti vengono riempiti immediatamente da altri lavoratori e gli uscenti non si lamentano perché in un paio di settimane si trovano un altro lavoro. E’ un esercizio a bilancio 0 una persona perde lavoro e un altra viene impiegata. L’azienda ha così sempre le persone migliori e più motivate per competere in particolare in settori difficili (come l’HighTech).
    Ora mi chiedo, come facciamo con i nostri lavoratori mega-fannulloni a competere con queste aziende? Riuscite ad immaginare la nostra nazionale di calcio che rimane statica e non cambia mai i giocatori?
    Rimane poi l’altro problema: le aziende americane conoscendo queste logiche “italiane” aprono le loro sedi principali in UK o nei Paesi Bassi dove l’art. 18 non c’è nonostante il costo del lavoro sia molto più alto.
    E’ per questo motivo penso che la riforma dell’art. 18 così come lo farà Renzi non serve a niente.

  5. Piero GE

    neppure la produttività basta più.. guarda che Gap negli Usa si è aperto negli ultimi 45 anni tra Produttività e Salari.. laggiù dove sono flessibili..
    per mantenere l’occupazione a livelli accettabili (e cmq il Tasso di Occupazione continua nei decenni a scendere anche laggiù) il nuovo proletariato cresce sempre più.. i comunisti sbaglian le soluzioni (che nn ci sono) ma non le analisi..

    guarda questo grafico di una nota casa investimento internazionale aggiornato al 2010 (anche nella versione 2014 il trend prosegue, ma non ne ho trovato una versione web free quindi non la posso pubblicare)..

    http://scenarieconomici.it/grafico-del-giorno-produttivita-e-salari-negli-usa/

    il fatto è che mano a mano che il capitalismo occidentale diventa maturo la gente non viene più riassorbita (è finita la storia che l’innovazione di prodotto compensa quella di processo).. se poi ci aggiungi la concorrenza degli emergenti dal 2000 la frittata è fatta.. ed il declino inevitabile.. anche i tedeschi che ti piacciono tanto hanno semplicemente un vantaggio di 20 anni più di noi (of course mica ci sputerei sopra se fosse stato x noi)..

    ma tu 6 liberista, e come i comunisti, hai la stessa caratteristica : non 6 in grado di vedere.. cmq ti saluto con plurale simpatia..

  6. Francesco Armezzani

    In tutto il lungo documentato e interessante intervento di Oscar Giannino, non ho trovato un argomento sulla necessità di abolire l’art. 18.
    Se l’art. 18 è un mito, lo è sia per coloro che lo sostengono sia per coloro che lo vogliono eliminare. Le ragioni degli uni almeno sono basate sulla questione della tutela della dignità del lavoro “senza giusta causa”, mentre dalla parte dei suoi distruttori non c’è niente. Se non un altro mito, tra l’altro negativo, basato sul fatto che licenziare senza giusta causa è meglio e basta. Occorrerebbe infine dire per quanto sono i casi in Italia in cui il giudice del lavoro obbliga l’azienda al reintegro per l’art. 18. I numeri sono disponibili? No, ma non credo superino poche migliaia l’anno. Mi sembra una cosa da niente. Appunto.

  7. Filippo

    @Gabriele: non voglio fare polemica,ma l’esempio del professore della scuola statale non ha molto a che fare con l’art.18.Se fosse un professore di una scuola privata sono abbastanza certo che presto dovrebbe cercarsi un nuovo lavoro.È per questo che penso che questa cosa dell’art.18 sia solo fumo,perchè le enormi sacche di inefficienza dell’amministrazione pubblica non vengono minimamente sfiorate,ma bisogna avere la forza e la risolutezza x cambiare le regole per qualche milione di lavoratori dello Stato,cosa che credo Renzi non abbia o non voglia fare .A quanto da Lei scritto sugli Stati Uniti vorrei aggiungere il sensibilmente più basso livello di imposizione fiscale a cui le ditte sono sottoposte rispetto alla gogna italiana.La terribile imposizione fiscale a cui si sommano la burocrazia la corruzione le inefficenze del sistema (diffusione ad esempio della banda larga?tempi della giustizia kafkiani?procedimenti burocratici lenti e farraginosi con rimbalzi da un ufficio all’altro ?criminalità organizzata?)fanno sì che a mio parere le aziende d’oltre oceano ma non solo,si veda ad esempio la Fiat o Fca che dir si voglia aprono le loro sedi in Olanda o in UK dove godono di un pacchetto migliore e più completo rispetto a quanto l’Italia può offire.
    E noi qui a perdere tempo con art.18 sì art.18 no…

  8. Gianfranco

    🙂
    In un mio post non passato al vaglio della moderazione forse perche’ di toni un po’ accesi, invitavo a meditare bene sul significato dell’abolizione dell’articolo 18.

    Invitavo anche Giannino a contattarmi, e ora mi rendo conto che cio’ avrebbe potuto essere frainteso (sic!) come una minaccia personale. In realta’ l’invito era proprio letterale: caro Giannino, che ormai vive nell’Olimpo, se vuole sapere cosa se ne fa un impiegato dell’articolo 18, glielo spiego.

    La mia teoria di fondo e’ che tutti sappiamo che l’esistenza dell’articolo 18 non cambia assolutamente niente, in termini economici.

    Le aziende hanno gia’ strumenti molto efficaci, nel caso vogliano disfarsi di un dipendente. Dal presentare per qualche anno bilanci in rosso, invocando quindi l’aiuto di cassa integrazione e mobilita’, agli strumenti discipliari, nel caso in cui il dipendente si rifiuti di fare quello che deve o che e’ necessario.

    L’applicabilita’ di queste norme, pero’, lascia molto spazio.
    Innanzitutto pochissime aziende italiane hanno delle job description che specifichino cosa deve fare un lavoratore, in modo da poter appellarvisi per dimostrare un’inadempienza.
    Gran parte dei lavoratori e’ assunta con un contratto che non dice cosa uno debba fare. Difficile dimostrare che non lo faccia, dopo.
    Negli USA, dove ho lavorato, le jobd sono molto specifiche. Per esempio ho assunto personale che aveva incarichi a scadenza giornaliera, settimanale e mensile. Che poi non si usassero mai, ed io non li abbia mai usati, per impugnare la produttivita’ di una persona, e’ un altro discorso. Ma quante aziende italiane lo fanno? Pochissime.
    Per questo motivo, posso tranquillamente asserire che l’articolo 18, in questo caso, non farebbe che premiare ulteriormente la mancanza di cultura aziendale consentendo al datore di lavoro di assumere personale, che magari deve lasciare un altro posto a contratto indeterminato, per poi lasciarlo tranquillamente a casa una volta accortisi dello sbaglio. In una cultura manageriale italiana dove lo “status” del manager dipende ancora da auto aziendale, ubicazione del parcheggio interno, benefit quale cellulare (e che modello) e personal computer (e che modello) e numero di riporti.
    Sfido chiunque a dimostrarmi il contrario, salvo le ovvie eccezioni di ditte piccole dove spazio per questi atteggiamenti ce n’e’ pochissimo.
    Riassumendo: quanti dipendenti, fatto salvo la presenza sul lavoro e l’assenteismo (ore di malattia), possono essere misurati, a livello di performance?
    Non si dica che “basta vedere”. Perche’ se per esempio un professore e’ gia’ avanti col programma e decide di far rilassare i suoi alunni per un paio d’ore, non vedo il problema. A meno che non stiamo ancora applicando logiche comuniste di timbratura ingresso e uscita. E non per obiettivi, questi fantomatici obiettivi, che sono spesso istantanei piuttosto che strategici.

    In questo caso la tutela che fornisce l’articolo 18 e’ irrinunciabile. L’azienda deve rendersi responsabile di cio’ che fa. Non basta che in CDA si dica “ridurre il costo del lavoro del 12%” e poi spuntare la lista del personale ed applicare la decimazione di legionaria memoria.

    In secondo luogo, laffuori non si chiede altro che il cedolino della paga ed il contratto d’assunzione, per concedere qualunque danaro in prestito.
    Sfido chiunque, senza un contratto indeterminato – o un grande patrimonio – a ricevere anche solo 3000 euro in prestito da una banca.
    Prestiti, mutui, finanziamenti, dipendono tutti dall’avere un posto fisso, di durata indeterminata.
    D’altra parte, senza la sicurezza ragionevole di poter far fronte ad un impegno, nessuno si lancerebbe nell’acquisto di una casa.
    Quindi ancora l’articolo 18 preserva la capacita’ di costruire un qualcosa senza lasciare il proprio destino nelle mani di persone che non hanno interesse condiviso nelle questioni private di un dipendente.

    Terzo: il ricollocamento.
    E’ molto comodo assumere personale con competenze specifiche, magari ad alto costo, perche’ a tutti i costi si vuole fidelizzare il dipendente (al mondo esistono milioni di consulenti con competenze eccezionali) e pagarlo un decimo di un consulente e poi, finito il lavoro o il progetto lasciarlo a casa. Magari dopo pochi anni e magari senza averlo aggiornato senza alcun corso di formazione ne’ avendogli lasciato il tempo di seguirlo pagandolo di tasca propria.
    Si parla tanto di formazione eccetera, ma e’ troppo comodo trattare le risorse a questo modo.
    Ho assistito al mobbing di persone che magari avevano 20 anni di cultura aziendale solo perche’ si cambiava il sistema informativo. Quando magari bastava fargli fare qualche corso per riportare la stessa persona ai livelli di produttivita’ necessari.
    Ancora, si cerca di favorire al 100% l’azienda. Volete abolire il 18? Va bene. Allora l’azienda, di tasca propria, dovrebbe rendere i propri dipendenti costantemente ricollocabili. O lasciare lo spazio per la formazione. Ossimori!

    Queste cose sono solo 3 di una lista lunghissima. 3 e mal riassunte. E qui mi fermo. Pero’ che un giudice reintegri un padre di famiglia e’ giusto. Non e’ giusto se il dipendente ruba, ma sono casi esaltati solo per amplificare il discorso di inaccettabilita’ dell’articolo 18.

    Quello che invitavo Giannino a riflettere a riguardo era questo: siete sicuri che per far dispetto al sindacato non stiate buttando via il bambino (cioe’ il fatto che il 18 e’, allo stato dei fatti, indispensabile nella nostra cultura) insieme all’acqua sporca di un articolo che comunque e’ palese sia anacronistico ed in antitesi con un discorso moderno (e quindi non applicabile in italia) di producttivita’?
    Credete veramente che basta togliere il 18 per far lavorare gli inefficienti? Non pensate invece che sara’ sufficiente, in sede statale, porre degli obiettivi ridicoli, per renderli raggiungibili anche dal piu’ scarso dei dipendenti? Non pensa che nella nostra cultura andremmo a penalizzare, sempre nel pubblico, chi performa meglio, dato che metterebbe in difficolta le migliaia di persone assunte in malo modo, senza un compito specifico, ma solo per far contento questo o quel ministero o partito?

    Non applichiamo la Thatcher in Italia. Non siamo Inglesi. Gli inglesi tagliarono la testa al re, nel 1640 e qualcosa, per dimostrargli che il potere non viene da dio ma dagli uomini. Questo e’ il paese dello statuto albertino.
    Ed e’ qui che non si vuole entrare: colmare prima il gap culturale e poi allineare ad esso tutte le altre strutture.
    Si vuole commettere lo stesso errore fatto con l’euro: prima imponiamo una moneta, il resto seguira’. Con gli effetti che vediamo.
    Aboliamo pure il 18. Non miglioreremo un fico, e comincera’ l’anarchia.
    E tutto per far dispetto al sindacato. Inaccettabile.

    18 o non 18, la cultura manageriale ed imprenditoriale italiana ha tare irrisolvibili. il 18? una scusa come un’altra.
    Pensate al costo dell’energia, piuttosto, ed alle tasse.
    L’incidenza della manodopera sul costo di un’auto e’ del 7%. Stiamo quindi parlando del nulla.

    Saluti.

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