28
Gen
2016

Perseverare diabolicum— di Gianfilippo Cuneo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gianfilippo Cuneo.

Non si è ancora spento l’eco delle obbligazioni bancarie subordinate vendute da Banca Etruria a investitori non qualificati (e certamente ignari sia di cosa vuol dire subordinato sia di cosa comporti essere non qualificati) che il malvezzo di vendere prodotti finanziari oscuri al “parco buoi” continua imperterrito senza che la CONSOB intervenga nella sostanza. Read More

24
Gen
2016

#PropertyIsFreedom: Roma brucia nell’indifferenza

A pochi metri da Tor Sapienza, alla periferia est di Roma, c’è un vecchio capannone industriale abbandonato: una volta pastificio, ora è il tetto di decine di famiglie che lo occupano da anni. Due settimane fa, nella notte, i rifiuti accumulati nei sotterranei del capannone hanno preso fuoco, generando un rogo impressionante, che ha impegnato i vigili del fuoco per tutta la notte nel tentativo di domarlo e che ha messo a rischio la vita e la salute di centinaia di persone, tra occupanti e residenti della zona. Per gli abitanti del quartiere non è una novità: nei vari edifici occupati e insediamenti abusivi si verificano roghi tossici quasi tutti i giorni e le denunce per richiedere lo sgombero e la bonifica dell’area, da marzo 2015 in avanti, sono state centinaia. Tutte, purtroppo, cadute nel vuoto.

Si sa: in campagna elettorale, il tema delle “periferie” è vincente. Gestire situazioni del genere, purtroppo, è invece molto più complesso di qualunque buon proposito. La soluzione, spesso, è quindi chiudere un occhio e sperare che questi episodi non finiscano in tragedia. A furia di calpestare la legalità e i diritti di proprietà in periferia, però, arriva il giorno in cui la malattia contagia il centro della città.

A pochi passi da piazza Indipendenza, in via del Curtatone, uno stabile privato – ex sede di Federconsorzi e oggi appartenente a un fondo immobiliare – è da anni il simbolo delle occupazioni romane. Due anni fa erano in corso dei lavori di ristrutturazione, che l’avrebbero portato a ospitare alcune sedi di aziende estere, ma fu occupato prima che potessero terminare. Oggi circa 500 persone vivono al suo interno. Lo scorso dicembre, durante un sopralluogo, i vigili del fuoco hanno rilevato un “elevato rischio di incendio/esplosione”, causato da “decine di bombole di gas gpl destinate ad alimentare utenze di fortuna” e da “numerosissime stufe elettriche”. Ma a nulla è servito l’appello alle istituzioni: lo stabile non è stato sgomberato e l’occupazione prosegue, come una bomba a orologeria, in attesa della tragedia.

Peraltro, a nulla è servito il recente Piano casa, che prevede che chiunque occupi abusivamente un immobile senza titolo non possa chiedere né di avere la residenza né l’allacciamento alle utenze. Carta straccia, nella pratica. In via del Curtatone, gli operai di Acea hanno provato a entrare più di una volta per staccare le utenze. Risultato: sono stati presi a sassate e cacciati. Il conto – circa 500.000 euro all’anno – lo paga la proprietà. Come del resto accade nell’hotel di via Prenestina e in decine di altri edifici occupati, non solo privati. La Regione Lazio, tanto per dire, ha speso 16 milioni di euro in locazioni passive, nel 2014, a fronte dei vari palazzi di sua proprietà occupati da anni. Quello di via Maria Adelaide, tanto per dire, è valutato da solo circa il doppio di tutti i canoni di affitto pagati: 32 milioni di euro. E a rimetterci, come sempre, è il contribuente.

I miracoli non esistono e quello delle occupazioni abusive è un problema enormemente complesso, perché complesso è l’equilibrio tra il rispetto della legalità e quello per la vita e la dignità delle persone. È evidente che quest’ultimo, tra i due, abbia la priorità. Quello che talvolta non viene compreso è come, invece, ignorare il primo comporti un circolo vizioso in cui il secondo viene messo ulteriormente a repentaglio, come la situazione di Roma racconta con chiarezza. La tutela dei diritti di proprietà non solo può coincidere con l’attenzione dei poteri pubblici ai temi dell’immigrazione e delle periferie, ma spesso è parte della soluzione. Chiudere un occhio, giustificando le occupazioni e pagando le utenze agli occupanti, non fa altro che acuire il problema. Sarà il caso che ce ne accorgiamo, prima che sia troppo tardi.

Twitter: @glmannheimer

23
Gen
2016

Siringhe: elogio delle differenze

Mercoledì 20 gennaio, presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, si è svolto il convegno “Acquisti trasparenti: la PA semplifica e spende meglio” in cui è stato presentato il lancio del progetto di aggregazione degli acquisti da parte della pubblica amministrazione. Si partirà dalla sanità, in particolare da 14 aree merceologiche riguardanti il comparto sanitario, tra cui le famose siringhe, i cui prodotti saranno acquistati da 33 centrali d’acquisto (21 centri regionali, 9 città metropolitane, 2 province e la Consip) che andranno a sostituire le vecchie 35 mila.

Il simbolo utilizzato dalle principali testate nazionali per accogliere l’intervento con favore più o meno esplicito è stato quello delle siringhe. È noto infatti che il loro costo varia da regione a regione fino al 300%. Con il nuovo sistema la Consip si occuperà di indire la gara pubblica e stipulare con i vincitori una convenzione per la fornitura delle siringhe (e dei beni e servizi delle altre 14 aree) ai prezzi offerti in gara, che diventeranno vincolanti anche per gli acquisti fuori Consip.

Senza dubbio è paradossale che ci siano differenze così eclatanti nei costi degli stessi beni, per di più tecnologicamente non complessi e quindi poco differenziabili. Il paradosso tuttavia è presto spiegato considerando che siamo all’interno della pubblica amministrazione, ovvero all’interno di un perimetro in cui alle organizzazioni, diversamente da quelle private, non è richiesto di essere efficienti per sopravvivere. Sopravvivono le organizzazioni più efficienti allo stesso modo di quelle meno efficienti. La soluzione che viene proposta è quella di fissare un unico prezzo uguale per tutti, dando per scontato che questo tenderà ad avvicinarsi a quello pagato fino a oggi nelle regioni, diciamo così, virtuose.

Ammettiamo pure che ciò accada; ammettiamo che in un primo momento il prezzo unitario medio scenda. Potremo ritenerci per questo soddisfatti dal nuovo sistema? Risponderei di no, per tre motivi.

In primo luogo, sul fronte della trasparenza si perderebbe un’importante fonte di informazione su chi è efficiente e chi non lo è, dal momento che non avremo più la possibilità di confrontare alcunché.

In secondo luogo, il tentativo di omologare coercitivamente specifici aspetti (i prezzi) di realtà che sono molto diverse tra loro non può essere privo di conseguenze (negative). Il prezzo di un bene è il risultato delle interazioni dei diversi attori coinvolti nella sua produzione e nel suo consumo. Prezzi diversi, anche per beni come le siringhe, di solito indicano condizioni diverse che possono riguardare tanti aspetti come la quantità, i tempi di pagamento, le consegne di emergenza e altro ancora. Se tali condizioni continueranno a essere le stesse, omologare il prezzo significherà far pagare di più a chi potrebbe pagare di meno ed eliminare un ulteriore incentivo a essere efficienti. Producendo in questo modo omologazione, certo, ma nel lungo periodo verso il basso.

Naturalmente non è ragionevole che all’interno del nostro sistema sanitario continuino a persistere differenze così marcate da regione a regione. Questo è vero per i costi delle siringhe, per tutti i costi in generale e anche per la qualità delle prestazioni. Più che omologare i prezzi però, sarebbe bene creare gli incentivi affinché ogni sistema trovi il modo più efficace ed efficiente nella fornitura dei servizi sanitari. Affidarsi ad un’unica centrale di acquisto, di fornitura o di controllo, sarebbe una soluzione accettabile se questa si trovasse nella condizione di onniscienza. Sfortunatamente anche solo avvicinarsi a tale condizione è impossibile, a maggior ragione in un sistema complesso come quello sanitario. Non sappiamo tutto del perché emergono le differenze che emergono, e sappiamo poco più di niente di quelle che potrebbero emergere in futuro. Per questo, piuttosto che uniformare, a ogni livello, il modo di procedere più saggio sembrerebbe quello di premiare chi si differenzia nel migliore dei modi.

@paolobelardinel

20
Gen
2016

Se la multinazionale siamo noi

Il braccio di ferro tra Uber e i taxi che negli ultimi anni ha interessato tutto il vecchio continente e non solo si è giocato sostanzialmente su due fronti: l’obbligo delle auto a noleggio con conducente (le berline nere autorizzate a svolgere servizio di NCC) di tornare alla rimessa dopo ogni servizio prestato e il divieto imposto a UberPop, il servizio che permette a chiunque di mettere a disposizione la propria auto, “improvvisandosi” autista senza alcuna licenza o autorizzazione. Curiosamente, ma forse nemmeno troppo, quest’ultima vicenda – molto più della prima – ha riempito le pagine dei giornali e animato discussioni e malumori di autisti e clienti. Come mai? Probabilmente, anche perché nel primo caso le “vittime” della regolazione sono una multinazionale e i suoi dipendenti, per quanto legittime le loro istanze possano essere; nel secondo, a rimetterci siamo, almeno potenzialmente, noi e i nostri amici e parenti che usino la loro auto per “sfruttare” la multinazionale e così arrotondare o sbarcare il lunario. Nel caso di UberPop, il divieto riguarda sì Uber, ma anche la possibilità di usare la nostra auto come e quando desideriamo, e quindi potenzialmente tutti noi.

Ora è la volta di Airbnb, il servizio che permette di affittare la propria casa (o parte di essa), per periodi anche brevissimi di tempo. E che, in questo modo, sta facendo concorrenza al settore alberghiero, suscitando l’immancabile reazione della politica per difendere gli operatori tradizionali dalla distruzione creativa della sharing economy. Peccato che, questa volta, dietro la distruzione creativa ci siano, ad oggi, più di 150.000 persone che hanno deciso di affittare una stanza nel loro appartamento o la loro casa al mare. Se si considera che, secondo le stime, più di una famiglia su dieci in Italia ha una seconda casa, allora si capisce quanto estesa e rilevante possa essere la posizione degli stakeholders di qualsiasi norma che intenda difendere il settore alberghiero dalla concorrenza di Airbnb.

Questa battaglia, in realtà, è già cominciata. Lo scorso agosto, la Regione Lazio ha riformato la normativa sulle strutture ricettive extralberghiere, stabilendo che, “nei periodi di minor flusso turistico e in considerazione del numero complessivo di posti letto offerto dalle strutture alberghiere ed extralberghiere insistenti in zone urbane ad alta concentrazione di strutture ricettive”, i Comuni possano “stabilire, durante l’anno solare, specifici periodi di chiusura, non superiori a due nell’arco dell’anno, limitatamente alle strutture che svolgono attività ricreativa in forma non imprenditoriale”, oltre a quelli già previsti da regolamenti precedenti (art. 3, comma 1, Regolamento n. 8/2015). In altre parole, chi affitta la propria casa su Airbnb o gestisce un B&B in forma non imprenditoriale (secondo parametri relativi al numero di posti letto e al periodo di inattività, definiti dall’art. 9 del medesimo Regolamento n. 8/2015) sarà obbligato a chiudere non solo, rispettivamente, per 100 e per 90/120 giorni l’anno, nel periodo stabilito da ogni singolo Comune, ma anche in ulteriori “periodi specifici di chiusura” determinati dal Comune stesso.

Non solo: la Regione è anche intervenuta sui requisiti strutturali che devono essere garantiti dagli affittuari: per dare un’idea del suo grado di incisività, basti dire che la misura impone – ad esempio – di cambiare la biancheria del bagno agli ospiti ogni giorno, di avere in casa una “sala destinata alla somministrazione di alimenti e bevande” di almeno 14 metri quadri, di avere almeno una lampada da comodino, uno specchio, un armadio a due ante, un cestino e una piantina della città a disposizione, oltre che di installare un “sanitario water-bidet provvisto di doccetta limitrofa” in bagno nel caso in cui, per problemi di spazio, “non sia possibile la posa in opera separatamente del water con il bidet” (Allegato 1, Regolamento n. 8/2015).

Tutto ciò può sembrare – e in effetti è – grottesco. Perché mai non potrei affittare la mia casa, se il mio salotto misura meno di 14 metri quadri? E perché mai non dovrei poterla affittare per 100 giorni l’anno? Qual è la ratio di simili previsioni? La risposta è semplice: si tratta di provvedimenti che, sia pure in misura spesso attenuata, hanno sempre riguardato ostelli, B&B e altre strutture che – per loro natura e modalità di gestione – sono assimilabili agli alberghi. Ma che, al contrario, suonano ridicoli se applicati alla nostra casa al mare, all’appartamento ereditato in attesa di essere venduto o alla stanza di un figlio che è andato a studiare all’estero: cioè a tutti quei casi in cui, più che un business, Airbnb è un’opportunità di non sprecare risorse, condividendole con chi ne ha bisogno.

Dopo qualche mese dall’emanazione del regolamento, l’Autorità Garante della Concorrenza ha pubblicato un parere in cui sostiene che la previsione di periodi di chiusura obbligatoria così estesi comporterebbe “una ingiustificata restrizione dell’offerta […] a danno delle dinamiche concorrenziali nel settore e dei consumatori”, peraltro “proprio nel momento di massima affluenza prevista in occasione dell’avvio del Giubileo della Misericordia” (Bollettino n. 47 del 28.12.2015). Come nel caso di Uber, la politica non ha saputo resistere alla tentazione di regolamentare un fenomeno così nuovo e complesso in categorie vecchie, che con questo fenomeno hanno ben poco a che fare. E, ancora una volta, è stata l’Antitrust a dover intervenire nel difficile equilibrio tra la sharing economy e la sua regolamentazione. Dopo aver ricevuto il parere dell’AGCM, la Regione Lazio ha fatto sapere di ritenere legittimo il proprio operato, perché – fra l’altro – le case-vacanza e i B&B gestiti in forma non imprenditoriale non sono “imprese turistiche” e, di conseguenza, “neppure soggetti di mercato sottoposti ai principi concorrenziali”. Come dire: che cosa siano non l’abbiamo ancora capito, ma nel frattempo no pasaran.

Twitter: @glmannheimer

19
Gen
2016

Tutti per uno e solo alcuni per tutti – di Carlo Amenta

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta.

“Con il DM del 31 luglio 2015 il MEF ha deciso che, entro il 31 gennaio, i medici italiani, unitamente agli altri soggetti erogatori di servizi sanitari quali aziende sanitarie e farmacie, devono trasmettere i nominativi e gli importi pagati dai pazienti a cui hanno fatturato prestazioni professionali all’agenzia delle entrate. I dati raccolti serviranno per una delle grandi semplificazioni del governo Renzi: il 730 precompilato. I contribuenti troveranno quindi già inserite le spese mediche deducibili e potranno assolvere ai loro adempimenti fiscali con minori preoccupazioni e costi. Per i medici però i costi, gli adempimenti e le preoccupazioni aumentano a dismisura: 100 € di sanzione per ogni nominativo omesso e fino a 50.000 € complessive. Read More

16
Gen
2016

Controcorrente: nella polemica Renzi-Juncker, i torti sono a casa nostra

Ci si può sbizzarrire a iosa, sui retroscena dello scontro al calor bianco che da ieri è messo a verbale tra l’Italia e la Commissione europea. Davvero senza precedenti. Il segnale dalla stampa stamane, è che sia pur con toni diversi praticamente tutti i grandi giornali hanno dato ragione al premier. Del resto, questa è l’aria che tira sempre più in Italia ( e non solo da noi): è un facile sport, dare la colpa ad altri dei propri guai. Lo stesso Juncker ha detto di esitare a comprendere le ragioni profonde degli attacchi di Renzi, “forse perché da tempo ho lasciato il teatro della politica nazionale”. Renzi ha risposto duramente. Ma prima di lui aveva replicato il ministro Padoan, molto più morbido. “Non avevamo alcuna intenzione di offendere”, erano state le sue parole. Un modo gentile che non esclude affatto che parole e toni usati da parte dell’Italia siano stati eccessivi.

Se andiamo ai fatti, prima di interpretarli, ci sono almeno 4 dossier rilevanti sui quali, da dicembre in poi, l’Italia ha oggettivamente “cambiato marcia” nei confronti dell’Europa: i conti pubblici, l’immigrazione, le banche, gli aiuti di Stato. I toni non li ha cambiati solo Renzi, a essere precisi. Anche la Banca d’Italia, fatto ancor più senza precedenti nella storia italiana, ha iniziato a usare toni durissimi contro Bruxelles. Sui quattro temi, a mio giudizio l’Italia ha ragione solo su uno di essi: ma in quel caso la polemica dovrebbe essere contro il Consiglio Europeo, non contro la Commissione.

CONTI PUBBLICI. E’ un dato di fatto che le interpretazioni più flessibili del fiscal compact, su come attenuare la riduzione del deficit e del debito pubblico, calcolando non solo gli effetti del ciclo ma anche clausole meno restrittive che “abbuonano” quote di deficit aggiuntivo valutando le riforme varate e maggiori cofinanziamenti agli investimenti europei da parte dei paesi non in equilibrio, siano state emanate dalla Commissione europea. Non certo per un preminente ruolo italiano. Perché è la Commissione, nell’architettura dei poteri comunitari, a essere la guardiana dei Trattati, della lettera e dello spirito che li informa, della necessità che le regole siano scritte non facendole dettare dalla politica nel Consiglio Europeo, ma in maniera “terza”. E’ proprio questo, a irritare i governi, che considerano la Commisisone composta da “funzionari”: il che è come disconoscere i Trattati.

E’ altrettanto vero però che alla nomina di Juncker si giunse sulla base di un accordo politico pro-flessibilità. come rivendicato da Renzi. Ma è anche altrettanto vero che è un’oggettiva forzatura, la pretesa del governo italiano di aver “già varato” tutte le riforme necessarie e concordate. Il dato di fatto è che la crescita stimata al 2016 dell’Italia – in un ranking comparato aggiornato da Bloomberg all’inizio di questa settimana – resta al’85° posto su 95 paesi. La ripresa dell’occupazione resta lenta, ed è addirittura scesa nella coorte giovanile tra i 15 e i 24 anni. Si risale al 2,2 e anzi al 2,4% di deficit dall’1,6% concordato, abbandonando del tutto la spending review annunciata a inizio-governo, e varando invece – parole di Renzi nella conferenza stampa di fine anno – una “spending lorda” con cui palazzo Chigi rivendica di poter spostare da una voce all’altra la spesa più necessaria, senza ridurla ma a saldi finali peggiorati. In più, il governo ha fatto scrivere per tre mesi alla stampa italiana che lo sforamento era già concordato con Bruxelles. Mentre non era e non è così, visto che la Commissione si è riservata il giudizio finale sulla finanziaria 2016 alla prossima primavera.

IMMIGRAZIONE. L’oggetto della polemica italiana – fattualmente, la più giustificata, compresa l’indisponibilità ai 300 milioni come quota parte dei 3 miliardi da destinare su questo tema alla Turchia di Erdogan –  – dovrebbe essere il Consiglio Europeo, non la Commissione. E’ il concerto politico tra governi europei ad esser saltato in aria, da agosto ad oggi, dopo l’apertura non contrattata della Merkel ai profughi, e a seguito di un’ininterrotta serie di frizioni a catena dei paesi nord e centro europei, che di fatto rischia di far saltare il principio di libero transito delle frontiere interne dell’Unione, senza per altro aver rafforzato quelle esterne. Eventi che hanno messo in scacco la stessa cancelliera tedesca a casa sua, per altro. E che fanno da sfondo all’assoluta assenza di una politica estera e di difesa davvero comuni, dalla lotta all’ISIS alla Libia alla Siria passando per le sanzioni alla Russia.

BANCHE. Su questo, i fatti restano per nulla chiari. La Banca d’Italia, all’esplosione delle polemiche in Italia dopo il decreto legge di risoluzione delle 4 banche dell’Italia centrale, ha sferrato in un’audizione parlamentare un attacco durissimo alla Commissione. Ci avrebbe imposto lei di colpire gli obbligazionisti subordinati, lei avrebbe detto no all’intervento del fondo a tutela dei depositanti, dopo esser rimasta sorda a due richieste che fino a quel momento tutti abbiamo ignorato esser state avanzate da via Nazionale. E cioè o il rinvio dell’applicazione della direttiva europea sul bail in fino al 2018 invece che da gennaio 2016, o per lo meno che si applicasse solo ai titoli di emissione successiva e non a quelli in essere. E’ stato fatto capire che le autorità italiane avevano carte ufficiali di Bruxelles contenenti questi diktat. Ma queste carte non sono mai state prodotte, e la Commissione ha invece duramente replicato che tutte le decisioni sono state italiane, a cominciare da quella di intervenire non a caso prima che il bail in entrasse in vigore. Aggiungiamoci che, di fatto, tutti in Italia siamo tenuti all’oscuro dei particolari concreti sui quali si articolerebbe da un anno e mezzo il confronto tra Roma e Bruxelles sulla presunta e ormai ipotetica bad bank con garanzie pubbliche, volta a sgravare il sistema bancario nazionale di almeno una parte dei ben 360 miliardi di euro tra sofferenze e incagli che pesano come un macigno sulla solidità e propensione al credito delle nostre banche.

AIUTI DI STATO. A cominciare dall’ILVA, abbiamo tutti scritto per mesi che l’Italia regole alla mano stava andando a sbattere contro una motivata contestazione. Dispiace dirlo, ma le polemiche alimentate dall’Italia per interventi di Stato altrove a sostegno di banche, come recentemente avvenuto in Germania nel caso HSH Nordbank o i Portogallo per Banif e Banco Espirito Santo, sono tecnicamente infondati perché relativi a dossier aperti anni fa, quando le regole europee erano diverse rispetto alla direttiva oggi in vigore e nata – col pieno consenso italiano- proprio al fine di evitare nuove esposizioni pubbliche a favore delle banche.

Questi sono i fatti. Restano poi le libere interpretazioni. La tentazione di palazzo Chigi di cavalcare l’antieuropeismo che gonfia i sondaggi grillini e leghisti. Le difficoltà elettorali in vista per le amministrative. O, peggio, la valutazione in fieri di non potere e voler rispettare gli impegni della prossima legge finanziaria. Visto che a ottobre si dovrebbe votare il referendum confermativo sul nuovo testo della Costituzione. Proprio mentre si dovrebbero trovare 22-23 miliardi solo per far saltare le nuove clausole di stabilità e per adempiere agli impegni già presi, quando si sbandiera ogni giorno che il 2017 sarà anche l’anno di tagli sostanziali a IRAP e IRES per le imprese. Si capirà meglio il 29 gennaio, quando Renzi incontra la Merkel a Berlino.

14
Gen
2016

Società partecipate e servizi pubblici locali: ancora non ci siamo

Il Governo di Matteo Renzi si accinge ad emanare due decreti legislativi, in materia di servizi pubblici locali di interesse generale e di società a partecipazione pubblica, in virtù della delega contenuta nella legge n. 124/2015.

Da quello che è dato comprendere dalla lettura dei testi che il Governo ha fatto circolare prima dell’adozione dei decreti medesimi si può affermare che siamo di fronte alla scrittura di due provvedimenti che servono ad assicurare il coordinamento fra le varie norme sparse in diverse e numerose leggi e a dare coerenza e razionalità all’intero sistema. Del resto ad un attento esame già i criteri ed i principi direttivi della legge delega non potevano fare sperare in alcunché di rivoluzionario e facevano presagire piuttosto la redazione di due decreti prevalentemente compilativi. Read More

7
Gen
2016

Contro lo Stato tiranno: occupy Oregon—di Gemma Mantovani

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gemma Mantovani.

Sul Corriere della Sera di due giorni fa è comparsa la breve cronistoria di una vicenda rimbalzata dalla stampa americana, molto preoccupata, Washington Post in testa, e che lancia accuse pesantissime: terroristi. I terroristi sarebbero i fratelli Bundy (Ammon e Ryan), che hanno occupato un edificio in una zona remota dell’Oregon, una baita a Burns, centro operativo della forestale. L’iniziativa è stata lanciata per protestare contro la prossima detenzione di due agricoltori, i fratelli Hammond, che sono stati denunciati perché hanno bruciato erbe e sterpaglie senza permesso su un terreno federale. Un giudice ha deciso che la pena di tre anni che avevano già scontato era stata troppo breve e dunque devono tornare in cella per altri due anni.  Read More

6
Gen
2016

Ora si estenderanno anche a unioni civili: ma le pensioni di reversibilità vanno riformate

Lo scontro sulle cosiddette “unioni civili” è tornato ad arroventarsi. In teoria, al Senato il dibattito dovrebbe aprirsi tra tre settimane. Ma solo all’ultimo minuto si capirà davvero la soluzione ai tre problemi che dividono i partiti. Il primo è politico. Il secondo riguarda l’adozione concessa a chi ha già figli precedenti alla sottoscrizione dell’unione civile (ma alla coppie gay: sì o no?). Il terzo investe una diversa questione che riguarda i diritti economici: la pensione di reversibilità ai superstiti.

Apparentemente, i problemi uno e due sembravano aver trovato soluzione, sia pure all’italiana. Renzi è intenzionato ad andare avanti comunque, sapendo che Alfano e i suoi voteranno no in nome del fatto che comunque l’adozione, quand’anche non esplicitamente consentita ai gay, di fatto ne sarebbe solo un’anticamera, per un’inevitabile o comunque assai probabile estensione attraverso la pronunzia di qualche giudice. Renzi tirerebbe dritto contando riservatamente sul fatto che Alfano non uscirebbe dal governo e che i 5 stelle voterebbero il provvedimento, senza per questo modificare la loro opposizione all’esecutivo. C’è chi pensa che la Chiesa potrebbe mobilitarsi frontalmente contro, e che Renzi dovrebbe o potrebbe tenerne conto. Ma è più probabile che la Chiesa sappia bene che il premier lancia con le unioni civili un messaggio alla sua sinistra, e che un intervento ecclesiale a gamba tesa comporterebbe solo il rischio di un testo ancora più aperto al pieno riconoscimento dei diritti omosessuali.

La novità di questi giorni è il terzo tema. Quello della pensione di reversibilità concessa alle coppie omosessuali, ma non a chi sottoscrive un’unione civile eterosessuale. I sostenitori dell’attuale testo invocano a suo fondamento la direttiva europea 2000/78 contro le discriminazioni sul lavoro che, secondo una sentenza della Corte di Giustizia Europea, viene esplicitamente violata in caso di mancato riconoscimento della pensione di reversibilità a coppie omosessuali, che abbiano sancito la loro unione nelle diverse forme oggi previste dai diversi ordinamenti nazionali. Ma c’è chi obietta alla reversibilità, con due posizioni distinte. La prima, allineata al no alle adozioni, considera ulteriormente inaccettabile la pensione ai supersititi tra omosessuali, in quanto ulteriore parificazione dell’unione civile al matrimonio eterosessuale. La seconda, al contrario, non obietta a consentire la pensione di reversibilità agli omosessuali, ma la invoca per eguaglianza costituzionale anche per i sottoscrittori eterosessuali di unioni civili, altrimenti discriminati e “spinti” per così dire, solo a contrarre un matrimonio vero per vedersi garantita pienezza di diritti.

Se esisterà una maggioranza forte coi 5 stelle, è facile scommettere che la prima obiezione verrà respinta, mentre la seconda verrà accolta. E qui veniamo però a un punto che nessuno sembra considerare. Al di là di quanto ciascuno può pensare sulle unioni civili (personalmente: favorevolissimo e senza discriminazioni di sesso) e sui diritti da riconoscere loro rispetto al matrimonio, questa riforma dovrebbe spingere il legislatore a una revisione profonda dei criteri che oggi disciplinano la pensione di reversibilità. Sono criteri generosi, molto generosi, fissati quando esisteva solo la famiglia in senso ristretto ex articolo 23 della Costituzione, quando in media un solo coniuge lavorava, e alla vedova superstite (in media, stanti le diverse aspettative di vita secondo genere) andava garantito un reddito. Ora che il vecchio vincolo matrimoniale risulta significativamente allentato dalla nuova disciplina del divorzio breve introdotta 10 mesi fa, con 6 mesi soli di separazione pre divorzio in caso di separazione consensuale tra i coniugi e in 12 mesi la separazione in caso di giudiziale, ora che si vuol procedere all’estensione della pensione di reversibilità anche ai contraenti dell’unione civile, non ha più senso continuare ad adottare quei vecchi criteri. Se la famiglia è istituzione più debole per l’ordinamento, allora vanno modificati i criteri che ne traducevano la centralità e stabilità precedente in concreti diritti patrimoniali e reddituali. Per quanto riguarda l’entità dell’assegno divorzile di fatto sta già avvenendo non per legge ma nella giurisprudenza. Fatta 100 la media rispetto al reddito precedente dei primi anni di giurisprudenza nel determinare l’assegno, siamo ormai scesi verso quota 40 e anche 30.

A maggio ragione dovrebbero essere modificate le nome sulle pensioni di reversibilità ai superstiti, che ammontano ormai nel 2015 alla bellezza di circa 40 miliardi di euro con 4,8 milioni di assegni. A oggi, al trattamento di reversibilità è ammesso il congiunto di un familiare scomparso che abbia maturato 15 anni di contributi o anche solo 5 anni, almeno 3 dei quali, però, nel quinquennio precedente la data della morte. E c’è reversibilità anche se lo scomparso era titolare di un assegno di invalidità. In percentuali diverse la pensione di reversibilità è ammessa oggi per il coniuge, in sua mancanza a figli e nipoti, e via via, a determinate condizioni, anche ai genitori del defunto. Per il coniuge, il trattamento va oggi anche al superstite separato, se riceveva l’assegno alimentare. E a quello divorziato, se riscuoteva l’assegno divorzile e non si è risposato. Se si era risposato il defunto, la reversibilità si divide tra secondo coniuge dello scomparso e precedente coniuge non risposato. E se vi risposate invece come superstite dopo aver incassato la reversibilità, allora perderete sì il diritto ma in cambio di un assegno finale una tantum pari a due anni di trattamento!

Tutte queste regole relative alla reversibilità pensionistica tra coniugi, o almeno sicuramente le percentuali degli assegni se non i diritti a incassarli, non possono restare eguali al passato, in un paese dove l’INPS sta in piedi grazie a circa 100 miliardi di trasferimenti annui a carico della fiscalità generale. Personalmente penso da tempo che già dovremmo rivedere quelle regole relative ai coniugi, commisurando la reversibilità anche all’età anagrafica del percipiente e alla sua occupabilità, per evitare il fenomeno delle ventenni badanti che sposano ottantenni mirando alla pensione. Ma a maggior ragione è irragionevole sostenere che abbia senso, assegnare una pensione di reversibilità al sopravvissuto di un precedente co-contraente di unione civile, quand’anche entrambi ne avessero intanto contratte altre, come capita oggi tra coniugi…

A questa osservazione critica, i sostenitori della pensione a superstiti nelle unioni civili tra omosessuali è sempre stata che non c’era assolutamente da preoccuparsi in termini di finanza pubblica: perché le  proiezioni nel caso italiano della diffusione di unioni simili sulla base di quanto avvenuto in paesi che le hanno riconosciute (o hanno introdotto il vero e proprio matrimonio gay), legittimano a pensare che in Italia avremmo non oltre 2500 coppie gay che sottoscrivono l’unione civile il primo anno, e non oltre 85 mila cumulate entro il 2030. Il che significa, applicando tassi di mortalità attesi ed età dei contraenti, un aggravio sul bilancio INPS nell’ambito di pochi milioni di euro.

Ma questa obiezione non coglie il punto. Primo, se si riconosce la reversibilità alle unioni civili tra gay bisogna farlo come abbiamo visto anche per quelle tra eterosessuali. E in quel caso il totale cumulato i 15 anni diventa di molte centinaia di migliaia anzi di qualche milione. Secondo: non ha proprio senso in termini di principio, continuare a ragionare su criteri indipendenti da età e occupabilità del superstite, si tratti di coniuge o “unito civile”, ex coniuge o ex “unito civile”. Abbiamo alzato di brutto l’età pensionabile a milioni di italiani non a caso, a fine 2011: e in materia previdenziale o c’è coerenza tra la logica complessiva e i singoli trattamenti, oppure continuiamo a costruire un’Italia di diseguaglianze e ingiustizie. Persino quando si varano riforme che vogliono estendere i diritti, come nel caso delle unioni civili.