29
Dic
2009

La trave e la pagliuzza

Si sostiene da molte parti che gli Stati Uniti stiano declinando, che l’Europa sia ormai diventata un attore secondario e che la Cina sia la potenza emergente. L’efficacia della politica economica cinese suscita ammirazione. Di seguo propongo un mio scritto che esplora la vicenda cinese in chiave volutamente critica. In altre parole, l’esercizio è “ci si sforzi di trovare la trave nell’occhio dei cinesi, piuttosto che la pagliuzza nel nostro”.

Fin dai tempi dei nonni, all’economia socialista non si obiettava di non saper crescere, ma di crescere in maniera inefficiente. L’economia socialista, ai tempi rappresentata dall’Unione Sovietica, sapeva produrre beni «pesanti» – trattori, camion, carri armati e missili – ma non sapeva produrre beni «leggeri» – i beni di consumo. E, in ogni modo, anche la produzione «pesante» era inefficiente. Quando mai si fosse giunti alla produzione «di fino» – grosso modo, con la fine dell’industrializzazione «forzata», che corrisponde, come ciclo politico, allo stalinismo – i nodi sarebbero giunti al pettine. E così è stato.
 
Discuto la ricerca della casa d’investimenti Pivot, China Investment Boom: The Great Leap into the Unknown. Laddove con l’espressione Great Leap ci si riferisce, ironicamente, al programma del «grande balzo in avanti» di Mao Zedong: The Great Leap Forward. Le implicazioni pratiche dell’analisi sono importanti.
 
Si hanno, nel caso della Cina d’oggi, delle caratteristiche «socialiste» – intendendo, con quest’espressione, la propensione a investire moltissimo senza un occhio all’efficienza? Sì, gli investimenti sono diventati «esagerati». Per esempio, la capacità produttiva cinese inutilizzata nella produzione d’acciaio è pari alla capacità produttiva combinata di Giappone e Corea. Dove vogliamo arrivare? Un domani, se la Cina si trovasse ad avere un eccesso «strutturale» di capacità produttiva, avremmo una crisi nel paese, e anche ripercussioni nel resto del mondo, attraverso l’effetto «deflazionistico»: i prezzi dei beni esportati sarebbero schiacciati – allo scopo di smaltire la produzione – fino a coprire i soli costi variabili.
 
Ma andiamo con ordine. Intanto, i numeri: «no figures, no party». Tutti i paesi che sono cresciuti tantissimo (Germania, Giappone, Corea) hanno avuto un volume d’investimenti in rapporto al reddito nazionale «spaventoso», ma la Cina, da qualche tempo, ha un volume d’investimenti quasi doppio rispetto a quello dei summenzionati paesi all’epoca del loro decollo. L’esplosione degli investimenti diventa tale nella crisi in corso, al punto che la crescita degli investimenti negli ultimi tempi traina quasi del tutto la crescita complessiva. Ossia, il Pil cinese non cresce perché salgono i consumi, che sono contenuti e stabili, o le esportazioni, che sono in caduta, ma perché aumentano gli investimenti. È come se l’economia italiana nella crisi in corso crescesse molto perché sono costruiti tanti nuovi stabilimenti, mentre quelli esistenti non lavorano a pieno regime. Si vorrà ammettere che sarebbe preoccupante.
 
Ancora più importante è la misura circa durata ed efficienza degli investimenti. Intanto, la durata del boom degli investimenti: nei paesi asiatici, il boom si è avuto per un certo numero di anni – al massimo una decina – e in Cina siamo ormai a dodici. Riguardo all’efficienza, il ragionamento è questo: all’inizio del decollo economico, per avere una crescita del Pil di 100 debbo investire 30. Dunque gli investimenti moltiplicano per tre il reddito (100/30=3,3). Dopo qualche tempo, per avere una crescita di 100 si scopre che devo investire 60. Dunque gli investimenti moltiplicano per 1,5 il reddito (100/60=1,7). Gli investimenti generano una minor crescita – ossia, per arrivare alla stessa crescita debbo investire il doppio. Si ottiene nel tempo una quota crescente di capitale fisico in rapporto al reddito. La produttività marginale del capitale decresce. I guai cominciano – come ha mostrato la crisi asiatica del 1997 – quando la redditività del capitale fisico non è sufficiente a pagare gli interessi sui crediti che hanno finanziato gli investimenti. Nel 1997 si usava l’espressione «l’economia dei campi da golf»: se ne erano costruiti così tanti in Asia che gli ultimi in ordine di tempo non avevano abbastanza clienti per pagare i costi di gestione e i costi di finanziamento.
 
Tutti questi investimenti da chi sono stati finanziati? Perlopiù dalle risorse generate all’interno delle imprese, come sostengono i cinesi? Oppure a credito? E se a credito, com’è messo il settore finanziario in Cina?

L’enorme massa di investimenti fisici  è stata – secondo i cinesi – finanziata per il 60% dalle risorse generate dalle imprese e quindi finanziata per il 40% dal credito. Esiste dunque una esposizione creditizia per una notevole massa di investimenti a produttività decrescente. Il debito pubblico ufficiale, quello della sola amministrazione centrale, è modesto. Se però si includono il debito delle amministrazioni locali e le garanzie statali sui cattivi crediti bancari cumulati nel passato, si arriva al 60% di debito pubblico/Pil – una quota in linea con quella dei paesi avanzati. Insomma, abbiamo un settore creditizio esposto e un debito pubblico non minuscolo. Quello che colpisce non è quanto appena detto, ma la crescita del credito in rapporto alla crescita dell’economia reale.
 
Se – per esempio – si espande il credito del 15% e si ottiene una crescita dell’economia reale del 10%, si ha un rapporto di 1,5:1. Se però si espande il credito del 40% per ottenere una crescita del 10%, si ha un rapporto di 4:1. La «produttività marginale» del credito è diminuita: per ottenere la stessa crescita economica si è espanso il credito molto di più. Il rapporto di 1,5:1 è quello cinese «storico». Il rapporto di 4:1 è quello degli Stati Uniti prima della crisi. Oggigiorno in Cina siamo a 7:1. Tutta questa espansione del credito dove va a finire? Se finanziasse la costruzione di impianti e infrastrutture e facesse aumentare l’occupazione, registreremmo una grande crescita dell’economia reale. Se, invece, abbiamo una crescita reale modesta in rapporto alla crescita del credito, allora si arguisce che il gran credito defluisce negli acquisti di immobili esistenti e nell’acquisto di azioni. La crescita del prezzo degli immobili e delle azioni – non essendo una variazione della produzione di beni e servizi – non è, infatti, registrata nel Pil. Con un’espressione «populista», possiamo dire che il credito finanzia la «speculazione».
 
Si potrebbe obiettare che tutto questo conta poco perché la Cina ha ancora un gran bisogno di impianti industriali e infrastrutture. La ricerca di Pivot mostra come la capacità produttiva nel settore dell’acciaio, del cemento e dell’alluminio sia perfino «eccessiva». E mostra anche come le infrastrutture – per esempio i treni – siano insufficienti. Infine, la Cina è molto più urbanizzata di quanto non sembri. La differenza è nella contabilità: i cinesi non considerano città un agglomerato che abbia meno di 1.500 abitanti per chilometro quadrato. Con questo criterio molte città occidentali non sarebbero tali. Con un criterio «occidentale» i cinesi risultano ben più urbanizzati. Songxia, che con i suoi 110 mila abitanti produce 500 milioni di ombrelli l’anno, è giudicata dai cinesi un «villaggio». In conclusione, la Cina non appare così arretrata e bisognosa di impianti industriali e infrastrutture come sembra. Magari ha più bisogno di «efficienza»: l’energia consumata per unità di Pil in Cina è pari a sette volte quella italiana.

La Cina dovrebbe quindi cambiare modello di sviluppo: da un’economia trainata dalle esportazioni e dagli investimenti verso un’economia trainata dai consumi privati.
 
I consumi crescono stabilmente se e solo se le famiglie non hanno timore. Se non devono pensare a mantenere la generazione precedente mentre accumulano la propria pensione. Le famiglie risparmiano per far studiare i figli e casomai si rompessero una gamba, giacché il sistema sanitario cinese è costosissimo e lo è anche quello scolastico – si capisce: in proporzione al reddito. I cinesi risparmiano dunque in vista degli eventi futuri, laddove questi eventi sono molto costosi. Se, invece, questi eventi diventassero meno costosi – le assicurazioni e lo «stato sociale» riducono l’onere degli eventi negativi, perché si divide con gli altri la probabilità che si manifestino gli eventi negativi medesimi –, i cinesi risparmierebbero di meno e consumerebbero di più. Tecnicamente parlando, verrebbe meno il risparmio detto «precauzionale». A ben pensarci, i poveri in Europa hanno incominciato a consumare di più quando sono nate le società «di mutuo soccorso»: condividendo in molti – ecco la legge «dei grandi numeri» – gli eventi negativi futuri, la probabilità di essere individualmente rovinati si riduce.
 
Le caratteristiche «socialiste» della Cina sono state (forse) utili fino a oggi, ma per il domani servirebbero caratteristiche «social-democratiche»: meno impianti per la produzione di cemento e più assicurazioni private e «stato sociale». Se così non sarà, la grande capacità produttiva cinese finirà per premere sul mondo, intanto che i prezzi delle case e delle azioni cinesi si gonfiano e si sgonfiano.

3 Responses

  1. aldo

    Concordo a pieno su tutto, aggiungerei che anche altre parti del sistema sono a rischio le banche, che sono gestiste a stretto legame con il partito e ad avere una gestione non trasparente, l’evasione delle tasse, specie nel settore privato, non ultimo i molti investimenti pubblici, creano alla fine situazioni perverse.
    faccio un esempio la scorsa settimana sono stati aperti 1000 km di av, ma il china daily raccontava quanto segue:
    1) i biglietti sono troppo cari per i cinesi medi, il rischio e’ che molti treni viaggino in perdita.
    2) dove sono state aperte altre linee av, le compagnie aeree hanno dovuto dimezzare l’offerta di posti, quindi altre perdite per lo stato
    3) lo stato per far viaggiare pieni i treni av e gli aerei, taglia le tariffe ed elimina i treni tradizionali.
    una tale situazione moltiplicata n, per quanto e’ sostenibile, se tra 5 anni, speriamo 10 o forse no, la prossima crisi arrivasse dalla Cina, oltre ai rischi economici non escluderei quelli politici, la politica cinese quando la pressione interna sale, sfoga con l’esterno, Taiwan, tibet sono dossier molto caldi.
    E comunque scioperi, licenziamenti di massa etc come potrebbero essere gestiti?

  2. andrea lucangeli

    Concordo pienamente sull’analisi: alla fine la “parolina magica” è democrazia….(che racchiude in sè il concetto di libertà, di eguaglianza, di stato sociale etc.etc.).- Ma noi occidentali vogliamo continuare a far finta di non vedere (per nostra convenienza) il problema Tibet ed il problema Taiwan? Come potrà mai essere credibile una classe dirigente di Pechino che considera Taiwan territorio dello Cina “momentaneamente” fuori controllo? E come la mettiamo con il Tibet, i diritti umani colà calpestati ed il Dalai Lama in esilio? Purtroppo non vedo grandi aperture per il futuro e ricordiamoci che Tian’anmen non è poi così lontana nel tempo….

  3. aldo

    il buon deng, artefice della svolta post mao e poi di quella dell’89 per paura di fare la fine della russia, hanno sempre pensato che cittadini con la pancia piena e che fanno i soldi non hanno grilli per la testa, e quello che pensano il 99% delle famiglie cinesi compresa quella di mia moglie, che ha una zia in un campo di rieducazione perchè aderente al fa lun go.
    Il gioco regge sino a che prima o poi una crisi non si affaccierà, speriamo che questa volta non si giri la faccia dall’altra parte come abbiamo già fatto una volta, ripetuto nei balcani e adesso con l’Iran.
    Tutte cose per cui noi europei sempre pronti a criticare gli Usa dovremmo farci un bell’esame di coscienza se volessimo guardarci ancora allo specchio alla mattina con un minimo di dignità.
    Che tristezza, altro che dei padri nobili dell’europa, siamo i nipoti di Chamberlain, buon 2010

Leave a Reply