25
Feb
2011

La religione dell’antitrust – Recensione di Emanuela Mirabelli

Emanuela Mirabelli recensisce La religione dell’antitrust. Riti e pratiche della politica della concorrenza, di Edwin S. Rockefeller (IBL Libri, 2011).

L’antitrust può essere definito come un insieme intricato di nozioni economiche e giuridiche, convinzioni e supposizioni. O meglio, si può affermare che l’antitrust non è definibile, in quanto nessuna delle disposizioni normative in materia è in grado di spiegare puntualmente di che cosa si tratta. È proprio ciò che sostiene Edwin Rockefeller nel libro La religione dell’antitrust. Riti e pratiche della politica della concorrenza (IBL Libri, 2011), ultima uscita della casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni.L’antitrust è, secondo Rockefeller, una sorta di ideologia, una dottrina instillata nelle menti di giovani avvocati e burocrati che nei master e nei corsi avanzati ne imparano i dogmi e, soprattutto, il linguaggio contorto.

Rockefeller descrive minuziosamente la “comunità antitrust” statunitense. Per questo gruppo di persone la parola d’ordine è “proteggere”. Proteggere la concorrenza, proteggere il mercato, proteggere la legge antitrust. In realtà, dimostra l’autore, non esistono concetti chiaramente comprensibili che rendano oggettivo l’operato della comunità antitrust: non esistendo definizioni puntuali, il risultato è una grande – ed eccessiva – discrezionalità a favore di giudici e avvocati. Come accennato all’inizio, lo stesso termine antitrust si rivela oscuro. Si tratta di un’entità che addirittura viene personificata. Gli adepti della religione dell’antitrust sono soliti utilizzare espressioni come: l’antitrust “non tollera”, “non accetta”, “difende” e “interviene”.

La comunità antitrust, dimostra l’autore, si pone a tutela della concorrenza, sebbene manchi un consenso generale sul modo in cui intenderla. A mancare è anche, spesso, la coerenza: si dice di voler favorire la concorrenza, ma si ricorre poi ai pubblici poteri per proteggersi da essa. I sacerdoti di questa religione dicono di voler perseguire nello stesso tempo obiettivi di efficienza e di equità, pur essendo essi, notoriamente, in contrasto tra loro.

Come è possibile stabilire il potere di mercato? Alla base della disciplina antitrust vi è la definizione del mercato di riferimento. Essa dipende da un presunto potere che viene esercitato al suo interno: ma il potere, a sua volta, dipende dalla definizione del mercato.

Entrambi sono sostenuti da supposizioni sul futuro che nessuno può conoscere. Chi può dire se, domani, un’impresa potrà essere scalzata da un’inaspettata innovazione da parte di un concorrente? Il suo “potere” in questo caso crollerà. E potremmo dunque affermare che questa impresa abbia veramente avuto “potere”?

L’impostazione antitrust è sostanzialmente statica: si suppone che le tecniche di produzione non cambino, così come le preferenze dei consumatori. Allo stesso tempo, però, la comunità antitrust giustifica il suo operato alla luce delle difficoltà e incertezze insite nel cambiamento con cui, necessariamente, il mondo deve confrontarsi. Di nuovo, sussiste in questi ragionamenti un problema di coerenza.

Le decisioni della comunità antitrust sono essenzialmente arbitrarie, in quanto non si fondano su definizioni e concetti solidi. Rockefeller sostiene che non c’è nessun modo per evitare la possibilità di essere accusati di distruggere la concorrenza e, similmente, di prevedere quale criterio o regola saranno utilizzati per valutare il caso. Ciò è dimostrato dal fatto che nelle sentenze non ci sono accenni a cosa il convenuto avrebbe dovuto fare, ma non ha fatto, oppure non avrebbe dovuto fare e invece ha fatto. Dov’è, quindi, la certezza del diritto?

A dispetto dei luoghi comuni, sostiene il professor Colombatto nella sua prefazione al libro, l’antitrust può essere considerato un freno alla crescita economica. Il problema di fondo, nascosto tra le righe delle sentenze, è ideologico: la colpevolezza del successo e, parallelamente, la difesa dei perdenti. Chi ha successo in un contesto di libero mercato, afferma Colombatto, non sottrae nulla al prossimo e, anzi, crea ricchezza per tutti coloro con i quali interagisce. Si può quindi parlare di abuso da parte di chi crea ricchezza senza sottrarne? L’antitrust appare fondamentalmente come un grande sistema di rent-seeking, in cui le imprese meno efficienti ricorrono alla “comunità” per sopravvivere ai propri errori e alla propria inefficienza.

Il libro espone con chiarezza le parole chiave dell’antitrust, offrendo un’attenta analisi del loro significato e del contenuto emotivo che le accompagna. Il suggerimento per avvocati, politici e burocrati è duplice: da un lato, un approfondimento sui fondamenti economici, sul loro ruolo e sulle conseguenze delle loro azioni; dall’altro, una profonda riflessione sulla debolezza ideologica dell’impostazione antitrust che, come scrive Colombatto, va ben oltre il problema metodologico e i tecnicismi economici.

You may also like

Punto e a capo n. 48
Punto e a capo n. 47
Punto e a capo n. 45
Jacques Delors: un socialdemocratico vero, architetto di un’Europa alla francese

9 Responses

  1. Ruggero

    Secondo la logica,, si fa per dire, del “professor” Colombatto, il mercato si autoregola, quindi.
    Il concetto di posizione dominante è un concetto assurdo, in un mondo dove, normalmente, c’è la massima onesta è correttezza, sospettare che qualcuno che ha la forza e i mezzi di imporre al mercato le proprie condizioni abusi di questa sua posizione, è una sciocchezza,come vi possono garantire Biancaneve e Cenerentola. Nel Mondo dell'”esimio” professore, non esiste che un Mubarak qualsiasi, possa derubare una nazione povera di 50 o 60 miliardi di dollari, ma immagino che egli creda che l’abbia fatto per metterli via per quando gli egiziani saranno vecchi. “Professor” Colombatto… ma va a ……….. .
    Ps, ma perchè in tutto questo liberismo, alla fine è sempre il vituperato Pantalone, cioè l’odiato stato,che deve sobbarcarsi il carico di m….?

  2. Ruggero

    A proposito, citare poi un Rockefeller sull’antitrust, è come citare Berlusconi in un libro sulle “Escort”.

  3. johnM

    pienamente d’accordo com Ruggero. Va bene il liberismo ma ripartendo tutti dal momento 0. Aspettarsi l’equilibrio automatico credo sia molto difficile. In questa società, con queste persone. Nello specifico del caso Italia, come più volte denunciato in questo blog, viviamo in un sistema incancrenito da lobby di tutti i tipi, credete che se fossero più Libere di operare non abuserebbero della loro posizione per Dominare ancora di più? io ho qualche dubbio. Magari sbaglio. Magari sono solo un disilluso da decenni di orribile storia economica contemporanea ed il futuro mi sorprenderà. Lo Spero sinceramente.

  4. Lessi il libro nel 2009 in lingua originale, quando fu pubblicato dal Cato Institute ( già questo dice tutto…). Quello che trovo incredibile è che per criticare alcune inefficienze del sistema, si finisca per demolire il principio alla base.
    Mi sembra inimmaginabile che su un blog come questo si ponga in risalto la posizione di chi auspica apertamente la presenza di monopoli ed oligopoli. Lo stesso vale per il Cato Institute il cui motto è “Individual Liberty, Free Markets and Peace”. Questo significa non tener conto nemmeno delle nozioni elementari di microeconomia.

  5. Andrea bertocchi

    Molto interessante, ma in che modo ci si può tutelare dai cartelli che si oppongono alla concorrenza?

  6. Caber

    Se un certello non è tutelato legalmente (cosa che appunto viene contrastata nell’articolo) esso non è in grado di resistere a lungo, almeno che non pratichi una politica di prezzi così bassi da rendere impossibile l’entrata di nuovi concorrenti.
    ma in tal caso dove sarebbe il problema?

  7. antonio

    se questi sono i valori del liberismo, qualche anima candida potrebbe sospettare che la Scuola di Chicago si chiama così perchè stata fondata da Al Capone. Io pensavo che liberismo dovesse far emergere il più capace (in tal caso l’interesse individuale può ben conciliarsi con l’interesse pubblico), non il più gangster.

  8. Stefano2

    1) Il concetto di posizione dominante non è un concetto generico, ma relativo al caso di imprese che operano all’interno di un mercato determinato. In questo senso, se non è garantito alcun monopolio a livello legislativo (come i monopoli di Stato ad esempio), l’impresa guadagna la propria posizione all’interno del mercato solo grazie ai consumatori. Di conseguenza sono i consumatori stessi che premiano l’impresa, ampliandone le quote di mercato a discapito dei di lei concorrenti. Mi pare ovvio che se parliamo di dittatori o monopoli legali la posizione dominante in questo caso esiste ed è garantita attraverso la coercizione delle forze dell’ordine.
    2) La teoria classica del monopolio/oligopolio è fallace, in quanto non distingue tra il monopolio ottenuto sul mercato e quello legale, garantito dallo Stato. Secondo queste teorie, l’esistenza stessa del monopolio/oligopolio comporta una perdita netta per la società; il diritto antitrust ha fatto propria questa “regola”, perseguendo chiunque operi da una “posizione dominante” sul mercato. Tuttavia tale impostazione identifica inevitabilmente la pagliuzza ma non la trave, visto che, se tali teorie sono valide, i primi monopoli da perseguire non sono la Standard Oil o la Microsoft, quanto i monopoli legali. Infatti, se ben si riguardi, la caratteristica centrale del monopolio è quella di poter manipolare il prezzo verso l’alto senza che i consumatori possano, diciamo, rivolgersi per lo stesso servizio ai suoi competitors. Ma in nessun mercato, in cui sia assente una barriera legale all’ingresso, tale condizione è realizzabile, in quanto un aumento dei prezzi inevitabilmente attira ulteriori investitori nel settore, conducendo inesorabilmente a una successiva discesa dei prezze e a una diminuzione della quota di mercato del presupposto monopolista.

Leave a Reply