6
Mag
2011

L’ingiustizia sociale nella retorica dell’ 1%

Quando Stiglitz espone la sua visione del capitalismo americano sulla rivista glamour Vanity Fair argomentando come Bertinotti e facendo sembrare Krugman un moderato interventista liberale significa che non siamo messi bene. Stiglitz non è semplicemente un accademico di successo che ha coronato la propria carriera con un premio Nobel. Capo dei consiglieri economici dal 1995 al 1997 durante la presidenza Clinton, Vice Presidente della Banca Mondiale fino al 2000, amico del finanziere George Soros, grazie alle cui fortune presiede l’INET (Institute for New Economic Thinking), Stiglitz è sicuramente annoverabile tra gli economisti, come uno dei più vicini alle élites politiche ed economiche del nostro tempo. Non è un outsider marginalizzato a causa di un pensiero eterodosso: per quanto esprima posizioni critiche sul capitalismo quand’anche sulla globalizzazione (o meglio sulla sua governance) lo fa come insider di prim’ordine. Per questo sono rimasto piuttosto stupito nel leggere il contenuto dell’articolo: denso di retorica e male argomentato assomiglia ad un pezzo scritto per la pancia, la pancia degli interventisti.

E’ una sensazione epidermica che sto avendo da un po’ di tempo: credo che potremo assistere a quella che chiamerei “la rivolta contro il vincolo di bilancio”. Una rivolta intellettuale che inevitabilmente finisce per coinvolgere il mercato ed il libero scambio in quanto tali, caratterizzata da una decisa sterzata verso l’interventismo rispetto anche allo tradizionali posizione keynesiane. Chi, riguardo alle attuali politiche monetarie e fiscali, non si pone nemmeno il problema di una exit strategy perché non vede nessuna necessità di uscita ma soltanto un’inevitabile incremento della pianificazione e della regolamentazione, vuole semplicemente procedere a grandi passi verso il mito della “commanded economy”. In ogni caso la difesa del libero mercato passa e passerà sempre anche attraverso la rivendicazione di posizioni politicamente scorrette e minoritarie e sicuramente il tema dell’ineguaglianza sociale è uno di questi.

Ogni teoria che non vede lo scambio come cooperazione volontaria e che non comprende la catallattica dei processi di mercato prima o poi pone dei problemi di tipo distributivo e finisce per considerare sia la ricchezza che il reddito come torte da spartire. Ogni teoria che non comprende il fatto che produzione e distribuzione sono un unicum insolubile e non due momenti distinti, se non per mere esigenze di classificazione analitica, avanzerà sempre istanze redistributive. Stigliz non fa eccezione ed esordisce con due dati: quanta ricchezza si concentra nell’ 1% più ricco (quasi il 40%) della popolazione americana e quanta parte del reddito complessivo è riferibile al primo centile, ovvero all’1% più abbiente dei contribuenti americani (poco meno del 25%). I dati vengono esposti sic et simpliciter come manifestazione di iniquità auto evidente. Sicuramente agli occhi dei più il dato risulterà scioccante, e non c’è dubbio che questa sia l’intenzione, poiché è impresa ardua assumere che i lettori di Vanity Fair abbiano nozioni approfondite sulle leggi di potenza, argomento non tra i più semplici anche per chi ha una formazione universitaria, specie se priva di un forte background matematico – statistico.

A questo punto è necessario fare un passo indietro, esattamente al 1897, anno in cui Vilfredo Pareto pubblica il suo Cours d’économie politique (Corso di economia politica). Il grande economista, analizzando la distribuzione delle terre in Italia giunge alla conclusione che il 20% della popolazione possiede l’80% dei beni fondiari. Questa osservazione ha ispirato la cosiddetta legge 80/20, detta anche principio di Pareto (ex. l’80% del fatturato proviene dal 20% dei clienti, il 20% degli automobilisti causa l’80% dei sinistri, etc.). In alcuni casi si hanno anche persino rilevazioni più estreme: nella saggistica americana il 50% delle vendite è dato da soli 20 titoli sugli 8000 che vengono pubblicati ogni anno. E’ un fenomeno empirico che si riscontra in numerose distribuzioni di eventi tra cui anche la distribuzione ricchezza fotografata staticamente in un istante t. Sotto il profilo epistemologico non è nemmeno una legge. E’ passato alla storia come principio dell’80/20, ma potrebbe scriversi anche come principio del 50/01 (l’1% determina il 50%): più o meno, matematicamente è la medesima cosa, ma ha il vantaggio di farci apparire il mondo come un luogo ancor più brutto e ingiusto rispetto alla proporzione 80/20. Ed è appunto lo scopo che Stigliz intende raggiungere esponendo la questione in tal modo.

Ma vediamo adesso come si collocano gli Usa rispetto ad altri paesi occidentali in termini di concentrazione delle ricchezze. Uno studio del World Institute for Development Economics Research nel 2006 ha elaborato i seguenti dati relativi al primo decile, ovvero al 10% più ricco della popolazione in alcuni paesi industrializzati.

Stato % di ricchezza detenuta dal 10% più ricco (2000)
Svizzera 71,30%
USA 69,80%
Danimarca 65,00%
Francia 61,00%
Svezia 58,60%
Regno Unito 56,00%
Canada 53,00%
Norvegia 50,50%
Germania 44,40%
Finlandia 42,30%

Come si può vedere la classifica è molto meno scontata di quanto ci potremmo attendere. In particolare colpisce vedere la socialdemocratica Danimarca a ridosso degli Stati Uniti, o la Svezia posizionarsi sopra il Regno Unito ed il Canada. E sembra perfino controintuitivo trovare la Finlandia in posizione quasi diametralmente opposta alla Danimarca. Sulla base del criterio della distribuzione della ricchezza, preso senza ulteriori osservazioni, dovremmo concludere che non solo gli Stati Uniti, ma quantomeno anche la Svizzera, la Danimarca e la Francia sono paesi estremamente ingiusti, dove vivere è poco dignitoso. E se consideriamo “intollerabile” che il 10% della popolazione detenga la metà dei patrimoni, beh, dobbiamo scendere fino a includere anche la Norvegia nell’elenco dei posti odiosi, dato che, nonostante una rendita petrolifera cospicua rispetto alla popolazione (gestita da un apparato pubblico tra i più trasparenti e razionalmente amministrati) ha un livello di concentrazione nel primo decile pari al 50,50%. Praticamente tutti i modelli di organizzazione statale delle democrazie occidentali, dal depravato turbocapitalismo americano alle solidali socialdemocrazie nordiche sembrerebbero meritare né più né meno che una rivoluzione ed una “ridistribuzione primaria” dei beni.

A questo punto conviene leggersi in Noise From America, “La disuguaglianza della ricchezza in una società di uguali” dove, con tanto di file excel scaricabile, vengono condotte simulazioni su come si distribuirebbe la ricchezza in una società in cui tutti hanno il medesimo reddito per tutta la vita e l’imposta di successione è fatta pari al 100%. Anche qui, ipotizzando un modello retributivo à la Lenin (per cui il mondo socialista sarebbe una grande fabbrica dove operai e impiegati percepiscono la stessa paga), avremo una distribuzione della ricchezza molto concentrata sul primo 10% in funzione dell’età da far sembrare la società quasi una gerontocrazia. Questo spinge già ad osservare come i fattori demografici (variazioni nella vita media, negli indici di natalità  e flussi migratori) abbiano un ruolo piuttosto significativo nell’interpretazione di queste statistiche e come valori apparentemente intollerabili possano tranquillamente venir fuori anche ipotizzando esiti sociali che intuitivamente sembrano molto equitativi.

Ma torniamo a Stiglitz. Nello stesso articolo egli mescola dati ad effetto con descrizioni tra il caricaturale e l’apocalittico di problemi reali: azzardo morale, influenza del potere economico su quello politico e vantaggi derivanti dalle connivenze con questo, iniquità causate da una finanza in grado di scaricare i proprio problemi sui contribuenti, etc. Tutti questi sono problemi concreti, reali e non eludibili ma ciò che stupisce è la retorica da tribuno della plebe e l’approccio giacobino con cui vengono elencati senza traccia di benché minima riflessione analitica. Un marxista sì, ma probabilmente neanche un neokeynesiano come Krugman arriverebbe a sottoscrivere un’affermazione di questo tipo sul marginalismo:

Gli economisti molto tempo fa hanno cercato di giustificare le grandi disuguaglianze che hanno portato tanti problemi durante la metà del 19° secolo, disuguaglianze che sono solo una pallida ombra di quello che vediamo oggi in America. Se ne vennero fuori con una giustificazione che ha preso il nome di “teoria della produttività marginale”. In poche parole, questa teoria associa i redditi più alti con una maggiore produttività e quindi un maggior contributo alla società. E’ una teoria che è sempre stata amata dai ricchi. La prova della sua validità, tuttavia, rimane inconsistente.

Oltre ad essere molto discutibile sotto il profilo dei riferimenti storici per quanto riguarda il XIX secolo e falsa per quanto riguarda il ventesimo (giusto per fare un esempio: la quota di ricchezza posseduta dall’1% più ricco negli USA è in calo dal 1998 al 2007 ed era a livelli analoghi nel 1922, 1933, 1939, 1965, 1989 – cfr. Wolff 1996 e 2010), è soprattutto metodologicamente scorretta. Queste classifiche sulla ricchezza vengono fatte sommando la ricchezza finanziaria a quella immobiliare al netto dei debiti. Le valutazioni sul patrimonio dei ricchi così come su quelle dei super ricchi sono possibili impiegando i prezzi a margine. Ovvero i prezzi che il mercato registra limitatamente a quei determinati beni scambiati in un determinato periodo di tempo e che ovviamente non rappresentano il prezzo ottenibile dall’alienazione di tutta la classe di beni. Noi non valutiamo le case come se tutti i proprietari di immobili si svegliassero di colpo con l’intenzione di vendere tutto lo stock di case, noi non valutiamo le attività finanziarie al prezzo di presunto realizzo come se tutti i possessori volessero liquidarle contemporaneamente. E’ impossibile che tutti divengano liquidi vendendo la medesima asset class nel medesimo istante sul mercato senza che il prezzo di questa crolli verticalmente. Chiunque si sia degnato di leggere la Teoria Generale, piuttosto che limitarsi a riportare aforismi, non può non ricordarsi quanto sovente Keynes insista e ironizzi su questo punto in diverse riflessioni sul concetto di liquidità. Dal prezzo di una parte non si inferisce il valore oggettivo del tutto: queste classifiche sulla proprietà snocciolate come metrica dell’ingiustizia distributiva sono possibili unicamente grazie ai prezzi marginali e sono totalmente prive di senso al di fuori di una prospettiva marginalista. Il fatto che la rappresentazione neoclassica di questa abbia numerose carenze, così come sia ampiamente contestabile il realismo delle attuali modellizzazioni formali della teoria razionale della scelta, per quanto vero, non inficia le fondamenta microeconomiche basilari del marginalismo. O meglio, può darsi anche che la prova della sua validità si riveli un giorno inconsistente, ma di certo non lo sarà a seguito di argomenti come il fatto che “piace ai ricchi” (affermazione peraltro apodittica e non corroborata).

Marginalisti o no, se ignoriamo il ruolo svolto dalle dinamiche creditizie e inflative sui prezzi marginali potremmo arrivare ad inferire che le depressioni e le stagnazioni sono un evento desiderabile per amore di equità: sia durante la Grande Depressione, sia durante la stagflazione degli anni ’70 la quota di ricchezza detenuta dall’1% più ricco è inferiore in termini relativi nonché decrescente (in particolare nel 1976 si abbassa fino al 19,6%). Vediamo la serie storica relativa:

1922      1929      1933      1939      1945      1949      1953      1962      1965      1969      1972      1976

36,7%    44,2%    33,3%    36,4%    29,8%    27,1%    31,2%    31,8%    34,4%    31,1%    29,1%    19,9%

1979      1981      1983      1986      1989      1992      1995      1998      2001      2001      2007

20,5%    24,8%    30,9%    31,9%    35,7%    37,1%    38,5%    38,1%    33,4%    34,3%    34,6%

Dalla tabella sopra riportata (impiegando il criterio della concentrazione così come fatto da Stiglitz) è possibile concludere che  l’1% più ricco della popolazione americana, sotto la presidenza Reagan “se la passava peggio” in termini di potere economico rispetto ai tempi della presidenza Clinton (del cui staff il nostro era capoeconomista) e come il suo livello di concentrazione non fosse poi tanto diverso rispetto ai tempi del New Deal o agli anni 1950 – 1965. Sono ovviamente delle conclusioni frettolose e metodologicamente scorrette, come frettoloso e demagogico è l’uso che normalmente viene fatto di questo genere di statistiche.

Ma almeno possiamo trarre qualche conclusione significativa ? Sì. La prima è che misure statiche della dispersione della ricchezza fanno molto effetto ma sono poco rilevanti per valutare il grado di diseguaglianza sociale (ammesso di che si trovi un accordo sul termine disuguaglianza).  La seconda è che la “fallacia narrativa” come ci insegna Nassim Nicholas Taleb è sempre dietro l’angolo. Ovvero la nostra mente è portata a vedere cause e storie dove semplicemente ci sono degli insiemi di dati. Una trama è più rassicurante di una serie slegata di eventi e l’interventismo à la Stiglitz in fondo dà questo: fornisce una narrazione, fornisce una assoluzione alla necessità di rispondere attivamente ai mutamenti esterni quando questi comportano un peggioramento relativo di cui siamo responsabili nella stessa misura in cui il battito di ali di una farfalla in Brasile può causare un tornado in Texas. Ci solleva dalla necessità di pensare che fenomeni economici e desideri etici non viaggiano sul medesimo binario in modo intuitivo e lineare. L’approccio tecnocratico non solo ci priva del “peso” di quella cosa chiamata libertà individuale: attraverso dosi crescenti di liquorosi interventi, ci prospetta un’alternativa possibile e rassicurante, ci prospetta un progresso che non è altro che la prosecuzione sequenziale dello status quo con l’aggiunta di alcune migliorie marginalmente crescenti. Rispetto all’incertezza dei cambiamenti, l’idea di un moto regolare che procede per forza di inerzia è seducente. Quando i dati cambiano e la realtà muta, a chi non piacerebbe poter sottoscrivere un patto faustiano col diavolo per continuare i piani già intrapresi rimanendo ancorato alle decisioni passate come se nulla fosse ? E’ un desiderio emotivo ed umano a cui è facile appellarsi. Nelle forme estreme e propagandiste gli interventisti sostituiscono al ragionamento logico due rappresentazioni: una, caricaturale e grottesca, della “sporca” realtà contingente dominata da mefistofelici Shylock ed un’altra contrapposta, quasi onirica e a portata di mano, di una società giusta, laboriosa, funzionante e coordinata come gli ingranaggi di un orologio.  Viene da sé che per realizzare cotanta armonia è necessario affidarsi collettivamente senza se e senza ma ad un grande orologiaio. E dove trovarlo ? Ma naturalmente all’interno dell’1% del meglio dell’1% di quell’1% delle élites politiche e intellettuali di cui ovviamente lo stesso Stiglitz è parte integrante. Comodo no ? Non c’è nemmeno bisogno di fare la rivoluzione. Basta solo seguire le istruzioni.

14 Responses

  1. @Andrea Chiari
    Esagerato… dire che i dati sulla concentrazione sono fuorvianti mica significa dire che chi ha i soldi in realtà non li ha…

    E poi… ma se un giorno ci fosse un’alta concentrazione della ricchezza giustificata solo da effettive capacità lavorative, quindi dal c.d. merito (non dal “merito” di aver i contatti giusti in politica e saper smafiare sulle debolezze altrui, come spesso ci si lamenta), dovremmo considerare questo come ingiusto? Perché altrimenti anche le discussioni sul “merito” diventano solo pose e l’unico faro resta la mera “invidia” nascosta dalla volontà di un equalitarismo forzato indipendente da qualsiasi criterio che non sia “basta che respiri”.

  2. Andrea Chiari

    Quando sento qualcuno che tira fuori il concetto di “invidia” mi girano le palle.
    Nessuno vuole un equalitarismo forzato, nessuno vuole che chi lavora bene e chi lavora male siano ugualmente retribuiti. Affrontiamo invece un campo centrale, e complesso, delle tematiche su democrazia, giustizia, sviluppo. Faccio solo due osservazioni: nei paesi civilmente ed economicamente più avanzati il divario di reddito tra le classi medie e i ricchi (mi si scuserà di usare terminologie così rozze) è contenuto. Non è vero che dando più soldi ai ricchi l’economia, per un fenomeno a cascata, fa ricadere generose briciole sulle classi sottoposte, anzi, i migliori spenditori sono i poveri. Riguardo al “merito” così spesso malamente evocato i finanzieri che hanno creato rovine ai loro istituti e al mondo intero si ritagliano – decidendo loro – stipendi proporzionati ai disastri che hanno combinato. Alla faccia del mercato le democrazie liberali sono costrette a emanare decreti sugli stipendi massimi dei manager, come un qualsiasi paese comunista.

  3. @Andrea Chiari
    la prima osservazione, mi pare un po’ in contrasto con i numeri dell’articolo, ma l’hai letto? Cmq nessuno “darebbe” i soldi ai ricchi, ed io ho solo aperto un discorso sul “perché” sono ricchi, ed è un altro paio di maniche che ha più senso con l’articolo che dovrebbe essere commentato.

    Gli stipendi di certi manager sono sicuramente vergognosi (invece gli stipendi della Politica…), ma va da sé che non siamo né io né te che possiamo dire in modo assoluto se una azienda privata fa bene o male a pagare in un certo modo un dipendente; possiamo valutare il metodo, più o meno rispettoso di certi “principi”, ma non il risultato che, se hai letto il pezzo, può discendere anche da un ambito di equalitarismo estremo. Piuttosto, ma che la concentrazione potrebbe essere legata alla struttura per età della popolazione? Silvano, c’è modo di controllarlo?

    Il fatto che le democrazie (nominalmente) liberali emettano decreti sui manager secondo me dovrebbe far intuire che quelle imprese, per lo più bancarie, così private private forse non sono altrimenti non ci sarebbe luogo politico e giuridico per procedere (e così si riparte con il problema di cosa sia realmente “liberista” in questo mondo).
    Anche Gates e Jobs guadagnano da schifo, come si fa a dire se “se lo meritano o no”? Quale principio liberale equalitario o cos’altro può sostenere perequazioni ulteriori oltre una tassazione progressiva dei redditi?

    In ogni caso non farti girare le scatole, il concetto di “invidia sociale” è un fenomeno economico riconosciuto, addirittura modellizzato per dare una ragione al rapporto tra rendimenti azionari e obbligazionari. Non c’è niente di strano: a parità di status ognuno sta meglio in un ambiente dove gli altri non stanno particolarmente meglio di lui, subisce un minor senso di inferiorità, ed in vari gradi avverte lo scarto (dall’ammirazione all’invidia vera e propria). Non vorrei che prima o poi ti girassero perché i gravi tendono pure a cadere invece di volare…

  4. Andrea Chiari

    Ma sì, anche la psicologia sociale avrà le sue ragioni e i suoi cultori. Ma c’è una sensibilità intellettuale prima ancora che politica che sconsiglia di giustificare i voti al PD con gli insegnanti che si rodono le unghie di invidia per i festini di Lele Mora o di motivare le rivoluzioni sociali con squassanti voglie di caviale. Apprezzo anche il politicamente scorretto ma c’è un limite al buon gusto. Il fatto è che questo (pur ottimo) sito si configura (anche) come una specie di filiale italiana del partito repubblicano USA, variante tea party, che non è il massimo dell’eleganza e con tutti i rischi dell’esagerazione ideologica, che altrove non è più di moda. Così si legge che Obama fa la guerra ai ricchi (poverini!), che l’iscrizione all’anagrafe è un intollerabile sopruso comunista, che le differenze sociali più sono accentuate e più c’è libertà, che i banchieri si ingozzano di benefit perchè sono statalizzati e che la lotta di classe, pardon … il garbato antagonismo tra sinistra e destra nasce da inconfessata invidia per chi viaggia in Ferrari. Ma non mi scandalizzo, anzi può essere uno stimolante esercizio intellettuale confutare tante esagerate corbellerie. Non avrei mai immaginato, da giovane, di finire tanto moderato e che i moderati dei miei tempi andti avrebbero assunto, in questa epoca di transizione, accenti così furiosamente estremi.

  5. Silvano

    L’articolo contesta l’utilizzo che viene fatto da parte di Stiglitz delle misure statiche di dispersione della ricchezza. Tale impiego è, a giudizio dello scrivente, ampiamente strumentale e finalizzato ad produrre “conferme” empiriche di tesi preconcette. L’articolo ovviamente non è un saggio su quale Stato sulla terra si avvicina al Nirvana, non comprende argomenti complementari interessanti come i differenziali di reddito, la mobilità sociale nel tempo, gli impatti dei movimenti migratori e l’invecchiamento della popolazione. Ritengo che alcuni dati siano interessanti: personalmente non credevo Danimarca e Finlandia in posizioni relativamente antitetiche, con la prima a ridosso degli Usa. Si può pensare che misure di equalizzazione dei redditi (alta tassazione associata ad elevati livelli di spesa) falliscano nell’intento di evitare concentrazioni patrimoniali. A titolo di esempio, alla famiglia Wallemberg fa capo una porzione significativa (credo il 30-40%) della capitalizzazione della borsa di Stoccolma. Per contro, il ricchissimo Bill Gates “pesa” non più di qualche punto percentuale a Wall Street.

    Tutto il resto, dagli “insegnanti che votano PD” fino alla rediviva “lotta di classe” passando per “Obama che fa la guerra ai ricchi” sono argomenti ampiamente off topic nemmeno sfiorati nel testo.

  6. Be’ nel caso di questo articolo e relativi commenti non hai letto, o hai letto male, o fai dei calderoni totali di cose scollegate – tra l’altro l’opinione mia, e di Silvano, sono le opinioni mie, e di Silvano, non certo quelle di Oscar o del sito che ci ospita così en passant, se a volte coincidono è un caso.
    1) i numeri a cui ti attacchi non sono quelli riportati nell’articolo, che sono numeri ufficiali, quindi casomai metti in discussione i numeri e la discussione finisce subito.
    2) io ho fatto una domanda riguardo il caso teorico di una distribuzione ineguale della ricchezza dovuta a un “merito lavorativo”, e non hai risposto concentrandoti sul termine “invidia sociale” che non ho messo lì per spiegare il mondo ma solo come giustificazione nel caso che il criterio del “merito” non sia sufficiente. Non hai letto bene il mio intervento o non distingui l’ipotesi dalla descrizione.
    3) ignorare che esista una “invidia sociale” che fa parte – in vario grado, certo – di alcune impostazioni politiche, è ingenuo. Questo non “giustifica” nulla, è oltre il concetto di giusto e sbagliato, però un po’ spiega certe posizioni.
    4) i banchieri SONO statalizzati e non operano in una vera concorrenza. Se per te è concorrenziale un sistema in cui si definiscono a priori le quote di mercato e le aree geografiche è un problema tuo. Degli eccessi (nel caso sperequativi del reddito) il privato risponde, se non risponde fatti una domanda, io ti ho solo suggerito una risposta.
    5) il resto non mi appartiene e non c’entra con l’articolo (to’, forse che Obama fa la guerra ai ricchi, cosa che non mi pare proprio).
    6) i termini politici correnti destra sinistra moderati eccetera sono termini vuoti. Vedo che la TV sta facendo danni rilevanti.

  7. Andrea Chiari

    Riassumevo tematiche ampiamente presenti nel sito e che lo connotano. Non mi
    sembra fuori luogo fare riferimento al contesto. Gli interventi non si
    calano in un deserto ma fanno parte di un insieme fortemente ideologizzato.
    Del resto che l’articolo fosse “ampiamente strumentale e finalizzato ad
    produrre conferme empiriche di tesi preconcette” è anche il mio parere,
    circostanza che sconsiglia di ribattere punto per punto a favore piuttosto
    di un quadro generale che ne contestualizzi la presenza. Riguardo
    all’invidia, siccome è una corda oggi suonata a sproposito dalla destra
    berlusconiana per giustificare le note porcate nonchè ampiamente utlizzata
    nella storia dalle classi agiate per giustificare l’avversione dei poveri,
    ho pensato che non gli si dovesse concedere dignità asettica di riflessione
    teorica, pur a rischio di tracimare off topic, come dicono gli istruiti.
    Infine, la ben nota regola: chi dice che destra e sinistra non hanno più
    senso, è di destra..

  8. Silvano

    Beh, grazie per la puntualizzazione però credo possa essere abbastanza intuitivo l’orientamento liberale di un sito che di nome fa “chicago-blog” e che al momento pubblicizza in bella vista un libro dal titolo “Tutti gli errori di Keynes”. E comunque mi sembra che qui si parli di politiche fiscali, monetarie, energetiche, etc. cercando di portare avanti argomentazioni razionali la cui condivisione (o meno) è liberamente lasciata al lettore. Se appare qualche post più colorito mi sembrerebbe più ragionevole obiettare direttamente in calce a quello.
    Ignoravo l’esistenza dell’ultima regola, ma se è tale, ne segue che la “sinistra” esiste semplicemente perché vi sono persone che ne professano l’appartenenza. Ovvero esiste come gruppo di persone che affermano di condividere un determinato insieme di idee e non come categoria politica. Non è proprio il massimo come affermazione identitaria…

  9. Scusa Andrea, ma se leggi un articolo su Mahler su la Repubblica e un’altro su il Corriere, vuoi dirmi che la tua lettura di Mahler va contestualizzata in relazione all’orientamento del quotidiano? Se prevale il contesto sull’idea – e non saresti l’unico, il che però non giustifica – siamo messi molto male.
    E siamo messi male anche se dici che dato il fine “scorretto” della presentazione dei dati da parte di Stiglitz non serve criticarlo ma guardare il “contesto”; è un po’ come in altre discussioni – Silvano ne ha esperienza – dove si ribatte all’utilizzo dell’inflazione per ridurre il debito portando argomenti tecnici (cioè spiegazioni) e si ottiene come risposta “non entriamo nei tecnicismi, parliamo politicamente…”. Eh no: entriamo nel merito e entriamo nei tecnicismi, perché anzitutto vanno spiegati i fatti, ché le valutazioni politiche (cioè discussioni di valore, che hanno una portata personale e non assoluta) sono buoni a farle tutti ma devono essere fatte su un argomento “assodato” e non su aria fritta.
    E nel merito tecnico, l’articolo di Stiglitz è scorretto e la questione della disuguaglianza non può essere affrontata in quel triviale modo di eccitare gli animi, e che i dati possano essere ingannevoli si può capire solo entrando nel tecnico. Poi puoi dire tranquillamente che “sì, la sperequazione è un fatto demografico, ma a me non va bene lo stesso” ma è una incontestabile opinione che vale solo per te, non è una “verità” – io la spiegerei nel caso con l’invidia sociale, che non è tanto l’invidia triviale di chi ha lo yacht e io no ma qualcosa di più generale e ideale che in buona parte si sovrappone all’equalitarismo che forse è il tuo riferimento.

    Ripeto: i dati che si vedono potrebbero (potrebbero!) venir fuori a valle di un processo equalitarista, e allora come facciamo a dire “non va bene”? Inoltre se la sperequazione fosse (fosse) il risultato di differenti capacità lavorative dati uguali “punti di partenza” (tutti gli stessi studi, tutti la stessa assistenza, tutti le stesse possibilità ma qualcuno è più bravo), come dovremmo mettere la questione? Tu contestualizzi questo e quello ma ancora non hai risposto, l’hai solo buttata in politica.

  10. Andrea Chiari

    Ovviamente la regola su chi è di destra e di sinistra era un’arguzia, di cui non ricordo l’autore. Qui son tutti seriosi, magari metterebbero sotto analisi anche la canzone di Gaber discettando se veramente il minestrone sia di sinistra. Più seriamente, val la pena di ricordare Bobbio che indicava nell’ideale di uguaglianza il principio fondante della sinistra. Non dico altro sennò finisco fuori strada, anzi fuori topic.
    Riguardo all’invidia non trivale ma quella platonica e ideale, non so, già frequento poco questo sentimento che sono a disagio a distinguere. Ma va bene, accetto la sfida di contrastare un dotto argomentare che pur puzza come un pesce marcio. Però il terreno dello scontro non l’ho scelto io e non è quello di “buttarla in politica” ma il discettare di asettici parametri che, sembra, non convincono neppure economisti liberali. Vabbè, ci provo lo stesso, può essere una buona ginnastica. Riguardo al contesto del sito, non mi sembra tanto fuori luogo ipotizzarne una sintesi ideologica, del resto onestamente anticipata dai suoi promotori anche nel nome.

  11. @Andrea Chiari
    Forse non hai letto l’articolo. Ti ha già risposto
    Comunque uno scambio libero tra adulti consenzienti è reciprocamente vantaggioso altrimenti non sarebbe concluso. Ne segue che chi ha tutta quella ricchezza è solo perchè ha beneficiato per altrettanto coloro con cui ha fatto affari. Anzi, dato che se concludo uno scambio è solo perchè valuto di piu’ quello che ottengo rispetto a quello che cedo, chi ha quelle ricchezze ha beneficiato le controparti per piu’ di quanto ha incassato

  12. Andrea Chiari

    A chi fa una affermazione l’onere della prova. In attesa di leggere un saggio intitolato “L’invidia come motore di successo nelle rivoluzioni liberali del sec. XVIII e nel movimento socialista nei secoli XIX e XX” (nella stessa collana:”Vizio e lussuria nei partiti laici a favore delle coppie di fatto”) resto – provvisoriamente – della mia idea. In tanti anni di militanza a sinistra ne ho viste di tutti i colori in fatto di motivazioni, da quelle più ideali e disinteressate (a mio parere, la grande maggioranza) fino agli opportunisti di vario genere. Non mi è mai capitato di incontrare compagni che sbavassero di invidia contro i ricchi, se diamo al termine il suo significato corrente. A meno che non consideriamo invidia, in senso molto lato, l’auspicio di uguaglianza, che comporta un livellamento tendenziale verso l’alto di chi sta in basso e viceversa, con perdite e acquisizioni speculari. In questa accezione erano evidentemente invidiosi i rappresentanti del terzo stato che nella Parigi di Luigi XVI chiedevano l’abolizione dei privilegi feudali o gli operai che cantavano “se otto ore vi sembran poche, andate voi a lavorar”. Sconsiglierei, almeno per scrupolo scientifico e comunicativo a chi è sordo alle motivazioni del buon gusto e della morale, l’utilizzo di un termine così negativamente connotato nel linguaggio corrente. Di sicuro sconsiglierei a un cortese interlocutore di usarlo in mia presenza. Si prenderebbe un cazzotto nei denti.
    Entrando in argomento, è possibile che lo squilibrio dei redditi sia ancora maggiore di quanto dicano le cifre, considerando fenomeni come l’evasione fiscale e l’elusione. E’ oggetto di divertito sconforto la lettura di quanti pochi siano gli ultraricchi italiani per il fisco, confrontati a certi consumi vistosissimi come le auto di lusso o i grossi natanti. Oppure, paradosso, io con una carretta a GPL di undici anni possiedo un parco auto migliore di un azionista di una società che si fa scarrozzare in Mercedes aziendale con autista, formalmente non sua. Riguardo alle (ex, perchè adesso votano a destra) socialdemocrazie nordiche, il modello – ora in crisi – prevedeva che le ricchezze e le proprietà restassero a una ristretta élite borghese (in Svezia sono una trentina di famiglie) in cambio di un welfare diffuso pagato da tutti (anche dagli operai) con una forte imposizione fiscale. E’ possibile che questo non portasse a una radicale diminuzione del divario con il vertice della piramidee reddituale ma che, sotto a questa prima fascia, ci fosse una diffusa classe media con redditi accettabili e piuttosto egualitari. Bisognerebbe analizzare non solo il vertice, ma tutta l’articolazione percentuale dei redditi. Quindi non mi stupisce che in tutto il mondo capitalista ci sia una sostanziale analogia nel fatto che ristrette élite detengano enormi concentrazioni di soldi e di potere anche con modelli teoricamente differenti. Se lo sono meritati, direte voi. Io resto invece dell’idea, ascientifica, grettamente moralistica, assolutamente fuori moda che questo sia uno schifo.

Leave a Reply