7
Nov
2009

Italia meno disoccupata. Oro o princisbecco?

L’Economist affronta in questo e questo articolo il tema di che cosa l’America e l’Europa abbiano reciprocamente da imparare, considerando i rispettivi tassi di disoccupazione. Effettivamente, il tasso medio dell’euroarea è poco sotto il 10%, quello USA l’ha appena superato. Ma ciò che offre argomento su cui riflettere è che in Europa Germania e Italia, i due paesi più manifatturieri ed esportatori che proprio per questo perdono tra i 6 e i 5 punti di Pil dacché la crisi è iniziata, sono tra quelli coi più bassi tassi di disoccupazione. C’è di che fare trionfalismo? Immaginavo di leggerne, oggi, sui media italiani che lo accostano all’annuncio che abbiamo superato come sesto paese al mondo il Regno Unito, e all’indicatore anticipatore Ocse – uno strumento del tutto inservibile, dal punto di vista quantitativo, che da qualche mese è però la delizia della politica italiana – che torna a dire che l’Italia uscirà dalla crisi meglio di tanti altri. Così è, infatti, la retorica impazza. Secondo me, di gonfiare le gote non è il caso. Di riflettere, sì. 

Germania e Francia sono tra i paesi europei che, davanti alla crisi, hanno varato praticamente l’intero spettro di politiche attive pubbliche di sostegno all’occupazione rilevate dall’Ocse. Lavoratori che diventando a tempo determinato o parziale mantengono integrazione al reddito pari a quello conseguito quando erano a tempo pieno e-o indeterminato, sgravi fortissimi o addirittura sospensioni del pagamento dei contributi sui lavoratori che entrano in programmi di ristrutturazione differita rispetto a quella richiesta dall’azienda da cui dipendono, e via proseguendo.

L’Italia, al contrario, non ha fatto nulla di tutto questo. Anche l’Economist giustamente rileva che siamo tra i grandi paesi europei quello i cui strumenti di integrazione del reddito ai disoccupati sono quelli meno lontani dal modello americano. E questo è un bene. Ciò che rende meno alta la disoccupazione aggiuntiva nell’unità di tempo, nel nostro caso, è il molto maggior ritardo delle imprese a ristrutturare, rispetto alla decisione assoluta messa in mostra da quelle americane, dove la produttività nel terzo trimestre, a fronte del record di disoccupati da oltre 25 anni, è salita stellarmente di oltre il 9%.

In sintesi. I grandi Paesi europei con meno disoccupati stanno accumulando più deficit pubblico per programmi straordinari di welfare ai senza lavoro, ma contano su una domanda interna come contributo alla ripresa del Pil quasi dovunque maggiore che da noi. Noi conteniamo invece i disoccupati perché rallentiamo più di altri la razionalizzazione dei fattori produttivi necessaria a ripartire con forza da perimetri e volumi più ristretti, ma con maggiore innovazione. La minor disoccupazione odierna da noi sarà una più bassa partecipazione al mercato del lavoro domani – è stato così negli anni alle nostre spalle, in cui grazie a maggior flessibilità abbiamo innalzato di poco il tasso di occupazione giovanile, e di pochissimo quello femminile – per gli altri un denominatore più elevato che renderà meno oneroso il debito pubblico, nel rapporto tra questo e il prodotto nazionale. Aspettiamo dunque, prima di vani trionfalismi. È stato positivo gestire in deroga l’estensione degli ammortizzatori, preferita dal governo al vano torneo che si sarebbe scatenato in parlamento e sui media con l’opposizione, in caso di loro riforma strutturale. Ma bisognerebbe avere il fegato di alcune rotture di continuità proprio oggi, sulla tasse e sulle regole del mercato del lavoro e delle pensioni, per accelerare la crescita e renderla meglio sostenibile. Alora sì, avremmo imparato qualcosa dagli errori del passato e lo avremmo messo a frutto.

You may also like

Punto e a capo n. 45
L’imprenditorialità negata: nebbie e inganni dell’ideologia. Parte 3
Taglio del cuneo fiscale: utile, ma non risolutivo
Elogio del capitalismo

3 Responses

  1. marcinkus

    Lasciando stare che le statistiche italiane sono sempre state fantasiose (è un paese in cui l’analisi viene fatta coi tarocchi, piuttosto che elaborando numeri), mi sembra di ricordare che i cassintegrati non rientrino nel computo della disoccupazione. Già questo basterebbe a far schizzare l’indice a livelli ben diversi da quelli dichiarati.
    Sul resto quoto tutto: gli US stanno facendo l’ennesimo leap-forward nella produttività. E’ interessante notare che gli investimenti in IT sono rimasti elevati sin dal secondo trimestre, e che le borse prendano “bene” il dato della disoccupazione: da loro il mercato lo interpreta come indicatore che le aziende continuano ad asciugare i costi e ad accelerare la produttività.
    Sulla prospettiva italica condivido la tua perplessità: le “crisi” non sono mai viste come occasione per investimenti ma solo e soltanto come consunzione del risparmio pregresso. Il che, in presenza di un mercato dei capitali asfittico e altamente inefficiente (per non dire paleolitico) e della inesistente capacità di attrarre investimenti dall’estero, significa consumare la riserva di benzina tenendo il motore acceso ma con l’auto ferma alla stazione di servizio, senza andare da nessuna parte.

  2. andrea lucangeli

    @ Oscar. “bisognerebbe avere il fegato di alcune rotture di continuità proprio oggi….” ma come sarà mai possibile in uno sgangherato paese dove si vota….ogni 6 mesi.- Politici ed amministratori (che per portare a casa la pagnotta devono essere votati..) stanno già pensando alle regionali 2010.- Ogni azione – da oggi a quella data – sarà pensata solo ed esclusivamente per captare consenso elettorale e chissenefrega dei cambiamenti strutturali.- Sappiamo bene che in Italia qualsiasi consultazione elettorale (persino le elezioni studentesche..) viene manipolata ed usata come una clava contro la maggioranza di governo pro-tempore.- E in un paese dove si vota in ordine sparso per comunali, provinciali, regionali, politiche, europee, referendum, elezioni sindacali, elezioni di partito etc. etc. tutto “fa brodo” per dare addosso al governo che – in teoria – dovrebbe essere sottoposto al suffragio ogni 5 anni ma che in realtà è pesantemente oggetto di “consultazioni elettorali” ogni 6 mesi, appunto.- In una siffatta situazione la tremenda paura di perdere voti paralizza anche i più audaci (Brunetta, Tremonti) ed annulla tutti gli sforzi per programmare riforme di ampio respiro.- O si cambia “tempistica” unificando ed uniformando gli “election day” (magari ogni 4 anni) oppure saremo sempre “appesi” alla consultazione elettorale prossima ventura.- E tutto rimarrà immobile in attesa del …..responso degli elettori…..

  3. liberal

    Purtroppo è così! Ma la cosa è diventata “cronica”, dopo la discesa in campo di Berlusconi!
    Se non ci fossero le elezioni ci sarebbe sempre la danza di cifre dei sondaggi.
    Si consultano i sondaggi, prima di ogni decisione, come prima, le persone superstiziose, consultavano la cartomante! 🙂

Leave a Reply