22
Mar
2013

Acqua bene comune: ondata o tsunami?

La Giornata Mondiale dell’acqua (World Water Day), che si celebra in data odierna, richiede qualche riflessione su tale risorsa, visto che in emergenza eravamo, e in emergenza – forse anche più grave – restiamo.

Infatti, rispetto all’evento di “rottura” di tale settore, ossia il referendum sui servizi idrici di giugno 2011, è cambiato tutto senza che nulla cambiasse. Anzi, a dirla proprio tutta, si è tornati indietro.

In proposito, l’Istituto Bruno Leoni ha recentemente pubblicato due paper (uno di Matteo Repetti, disponibile qui, e l’altro di Serena Sileoni, reperibile qui) che rivelano come tutti gli interventi normativi successivi al referendum non siano stati utili a favorire il progresso del settore e, anzi, facciano emergere soprattutto risvolti contraddittori: a parole, sono tutti d’accordo che vadano attuati i principi legislativi europei, in favore di modalità alternative di affidamento che garantiscano competizione (ossia consentano anche la partecipazione dei privati). Tutti concordano anche nel ritenere quello idrico un servizio essenziale per cui, in quanto tale, andrebbero garantiti elevati standard. Ma, nei fatti, così non è. Non vi è alcuna selezione pubblica del gestore che tuteli e favorisca l’attore migliore, né il servizio è fornito in modo efficiente, come è emerso chiaramente dalla Conferenza Nazionale sulla Regolazione dei Servizi Idrici: perdite, consumi eccessivi, depuratori e servizi fognari insufficienti, rischio di sanzioni europee, servizio discontinuo e contrapposizione di competenze continuano a farla da padrone.

Il giudizio definitivo in materia è stato sancito dall’Ocse, nel rapporto sulle performance ambientali (già analizzato a fondo da Diego Menegon qui), pochi giorni fa:

L’erogazione dei servizi idrici in Italia è più scadente che in molti altri paesi Ocse.

Inoltre:

I referendum popolari sui servizi idrici del 2011 hanno creato un ulteriore clima di incertezza e hanno ridotto notevolmente il ruolo del settore privato.

Ridotto il ruolo del privato a favore del pubblico. Purtroppo, però, la disponibilità della nostra acqua pubblica, sempre secondo il rapporto dell’organizzazione, è una delle più scarse dei Paesi Ocse. Nonostante la piovosità media annua  sia relativamente elevata, l’Italia rientra tra i Paesi soggetti a rischio idrico.

Non è un risultato particolarmente sbalorditivo, dato che il nostro è anche il Paese con le tariffe idriche tra le più basse e, ovviamente, di ciò che costa poco si tende ad abusare (e i gestori hanno pochi incentivi e mezzi per garantire adeguata manutenzione delle infrastrutture).

Questa è la vera emergenza che bisognerebbe riconoscere, non l’inesistente privatizzazione dell’acqua, mai presa in considerazione da nessuna norma. Il favor legislativo è infatti sempre stato per l’acqua bene comune, seppur l’evidenza sia quella di disservizi e scarsità crescente della risorsa considerata tale.

Nonostante ciò, e nonostante la confusione legislativa, tuttavia qualcosa è stato fatto, ossia un bel passo indietro: i casi di aziende “ripubblicizzate” sono infatti molteplici, come viene riportato in questo articolo di Altraeconomia, sebbene non sempre questo sia avvenuto a vantaggio di una maggiore efficienza. Si pensi al caso di Smat (l’azienda torinese dell’acqua): è sempre stata una società pubblica, peraltro ben gestita. Questo anche, o più probabilmente soprattutto, grazie alla gestione “aziendalista”, che richiede la piena copertura dei costi e il rispetto del vincolo di bilancio. Non è chiaro il motivo, se non ideologico, per cui si debba cambiare la forma societaria di un’azienda perfettamente funzionante, in favore di una diversa forma societaria, quella consortile, con effetti, tra gli altri, di spiazzamento del credito bancario per gli investimenti già effettuati. Se la mancanza di investimenti è dovuta anche alla carenza di risorse, tanto più in un comune tragicamente indebitato come quello di Torino, la possibilità di un simile cambiamento di rotta in corsa, non può che generare ulteriore incertezza con conseguente riduzione delle possibilità di accesso al credito.

Tenuto conto della situazione delle finanze pubbliche italiane, che richiedono tagli sempre più urgenti e profondi, in contrasto con la situazione del settore idrico, che invece necessita di investimenti consistenti (si stima almeno 65 miliardi di euro nei prossimi 30 anni), non è chiaro come si possa sperare di andare avanti tornando al passato verso forme di affidamenti diretti e gestioni in-house – in palese contraddizione con i principi europei -, che spiazzano la concorrenza e il possibile contributo di capitali privati.

Si consideri, a proposito della necessità di limitare le spese pubbliche, il grafico sottostante, che riporta le spese per settori delle Imprese Pubbliche Locali: la maggior parte delle spese (oltre all’energia) sono proprio quelle relative ai cosiddetti servizi pubblici locali (viabilità, rifiuti, acqua). La mancata liberalizzazione di tale settore è un’evidente occasione persa per contribuire al risanamento delle finanze pubbliche.

Settore pubblico allargato, spese per settori (valori espressi in % del Pil) delle Imprese Pubbliche Locali

Immagine

Fonte: Elaborazioni su dati DPS – Conti Pubblici Territoriali (vari anni)

L’ondata dell’acqua bene comune si sta trasformando in un vero e proprio tsunami.

Ps. Buon World Water Day a tutti!

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2 Responses

  1. Cesare.giussani

    Il referendum sull’acqua e quello sul nucleare sono stati cavalcati in chiave antiberlusconi. Ora la gente crede che l’acqua debba essere fornita solo dal settore pubblico. Vagli a spiegare che non e’ cosi’ e che il referendum doveva essere bocciato!

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