14
Set
2009

Giavazzi: meno tasse da noi, ma nei papers e per gli Usa dice il contrario

Francesco Giavazzi è per me da molti anni una fonte continua di stimoli intellettuali. Le “agende Giavazzi” hanno almeno contribuito a movimentare la lotta tribale in cui da molti anni si è risolta la politica italiana, trascinando di quando in quando al centro dell’attenzione qualche scelta politica ed economica concreta. Gli eccessi di azione e di reazione, qualche tono stizzosetto nel volerle apoditticamente imporre dal Monte Sinai a quegli ebbri adoratori del vitello d’oro che sarebbero i politici. Una tigna che la politica ha spesso e  ampiamente ricambiato con gli interessi,  spesso del tutto indipendente dal merito delle proposte: bensì dal surriscaldamento di scatole che a parecchi politici provoca il Corriere della sera, i suoi due direttori a rotazione da vent’anni e le loro machiavelliche fantasìe, manìe e ubbìe. Sfido io che al Corriere non mi ci abbiano voluto: giustamente non sanno che farsene di un taglialegna, quando lì si lavora di fino e bulino. Detto ciò segnalo ai nostri lettori – stiamo crescendo, cavolo, più di quel che avrei immaginato –  una singolare coincidenza. Non la chiamo contraddizione, per evitare strali. Ma singolare coincidenza, sì. Perché Giavazzi sul Corriere, forse anche per far saltare la mosca al naso al governo, scrive – e ha ragione – che bisogna di brutto abbassare le tasse sul lavoro. Ma nei papers riservati alla comunità accademica e al dibattito sugli USA, lì – sorpresa! – dice il contrario. Read More

14
Set
2009

Il falso problema del Pil: creatività keynesista

Oggi mi trovo d’accordo con Joe Stglitz quando dice che tra banca e finanza stiamo messi quasi peggio di un anno fa, visto che considerando gli asset attuali di Bank of America e Citigroup c’è da farsi venire i brividi, e non serve la crescita in Borsa propulsa dalla FED a farseli passare. Disaccordo pieno invece per la solita solfa anti-Pil, rilanciata da Stiglitz insieme a Fitoussi, Amartya Sen, e la pomposa commissione per la miglior misurazione del progresso socio-economica istituita da quella delusione crescente e permanente che si è rivelato sin qui il presidente Sarkozy (taglio delle imposte alle imprese escluso, naturalmente). Da anni e anni, i keynesisti predicano che il Pil è roba superata, troppo quantitativa, insopportabilmente premiante gli Stati Uniti e i Paesi mercatisti, mentre invece a contare dovrebbero essere indicatori di armonia e benessere sociale, minor dispersione dei redditi, tutela ambientale, trattamento dei malati e via almanaccando. Naturalmente, l’Europa finirebbe in testa o quasi, ragionando così. Perché il PIB – il prodotto interno di benessere – inevitabilmente alzerebbe la media di chi ha più Stato nell’economia. Da liberista, faccio presente che anche nel PIL attuale tanto odiato lo Stato è purtroppo iperpremiato, visto che più sono  numerosi i dipendenti pubblici e più sono pagati, più il PIL nominalmente cresce, anche se tutto ciò si risolve quasi sempre in crowding out del risparmio privato e nell’abbassamento generale di produttività. Ma di qui ad adottare un criterio per il quale spesa pubblica=civiltà, posso solo sperare che la comunità degli statistici resista con la forza e le barricate.

14
Set
2009

Il discorso di Obama a Wall Street: non forza ma debolezza

L’intervento di oggi pomeriggio di Barack Obama alla Federal Hall di Lower Manhattan avrà domani vasta eco sulla stampa mondiale. Personalmente, mi ha lasciato molto freddo. Esattamente come è successo ai mercati, che finora negli USA non hanno fatto un plissé. Obama ha dovuto sfoderare toni duri, a un anno dal fallimento di Lehman Brothers. È sotto gli occhi di tutti che i governi di mezzo mondo hanno dovuto impegnare l’aumento di circa 20 punti del proprio Pil di debito pubblico aggiuntivo nel prossimo decennio. Per gli USA addirittura il debito passerà dal 41% pre crisi all’82% del PIL. Ma a fronte di tale ingente falò di denaro del contribuente, sino ad oggi nel tempio malato da cui è nata la crisi – la finanza mondiale – nulla è ancora cambiato. A cominciare proprio dagli Stati Uniti, la culla di un’intermediazione finanziaria ad alta leva, bassa congruenza tra riserve patrimoniali e rischi assunti e intermediati, e massima tensione per ottenere una redditività a doppia cifra del capitale finanziario, realizzata non attraverso le tradizionali attività della banca commerciale, ma comprando e vendendo prodotti e servizi di finanza strutturata di valore sempre più dubbio.

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14
Set
2009

A che cosa servono i blog

Nguyen Ngoc Nhu Quynh è una trentenne vietnamita. Aveva un blog sul quale scriveva le sue opinioni, sotto il pen name di Me Nam o Mother Mushroom. Era critica delle autorità governative. E della Cina. L’hanno arrestata con due altri bloggers, ad agosto. Ieri è stata rilasciata, dietro il formale impegno sottoscritto con le autorità di polizia a piantarla lì con il suo blog. I bloggers devono limitarsi a scrivere della propria vita personale. Niente politica, niente economia, ha precisato la portavoce del Ministero degli Interni. Altrimenti, si violano le norme a tutela della sicurezza nazionale. Qui trovate la notizia del mesto rilascio. Per chi avesse dei dubbi sulla funzione dei blog, c’è sempre una catena di Stato buona a farci  riflettere.

14
Set
2009

Dieci siti per quattro centrali?

Il senatore “ecodem” del Pd, Paolo Della Seta, ha annunciato questa interrogazione al ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola. Della Seta rivela dieci siti che sarebbero informalmente circolati come possibili localizzazioni per ospitare le future centrali nucleari italiane (si è parlato di quattro impianti): alcuni sono plausibili, altri me lo sembrano meno (se non altro, per ragioni di rete). Comunque, sarà interessante ascoltare la risposta di Scajola: occhi puntati, dunque.

C’è un punto della riflessione di Della Seta, però, che (al momento) mi sembra fuori luogo. Scrive:

Il Governo, con l’Italia lontanissima dagli obiettivi vincolanti fissati dalla Ue per le emissioni di anidride carbonica investe tutte le risorse sull’atomo e le sottrae alle rinnovabili e all’efficienza energetica, scegliendo una strada lunga e costosa.

La strada sarà sicuramente lunga, e sicuramente costosa (in termini assoluti) mentre non è detto che sia così costosa (in termini relativi, cioè rispetto alle possibili alternative). Però, (a) è indubbio che l’installazione di centrali nucleari – a parità di domanda elettrica – contribuirebbe ad abbattere le emissioni almeno quanto farebbe la medesima produzione da fonti rinnovabili (dico “almeno” perché le rinnovabili possono richiedere un backup convenzionale di cui l’atomo non ha bisogno); (b) soprattutto, al momento il governo non sta “investendo” alcuna risorsa (nel senso: risorsa pubblica) sul nucleare, tranne qualche spicciolo (troppo pochi) sull’agenzia di sicurezza. Ovviamente, se nel futuro emergeranno forme di sussidio più o meno mascherato, mi troverò sulla stessa barricata di Della Seta. Ma per ora nessuno ne ha parlato: si è discusso piuttosto di soluzioni tecniche (come strutturare il processo autorizzativo e la vigilanza sull’esercizio delle centrali) e di modalità di finanziamento (consorzi, contratti a lungo termine, eccetera) da parte delle imprese interessate – cioè, non coi soldi dei contribuenti o dei consumatori.

Chi vivrà, vedrà.

14
Set
2009

Chi sa, fa. Addio a Norman Borlaug

Nella notte tra sabato e domenica se n’è andato Norman Borlaug, Premio Nobel per la Pace nel1970. Novantacinque anni, Borlaug è una di quelle persone che hanno dato al mondo molto più di quanto il mondo gli abbia riconosciuto. Il pubblico in generale, probabilmente, ignora il nome di Borlaug. Eppure Borlaug è stata una delle figure più importanti del ventesimo secolo. E’ stata sua l’intuizione di convincere paesi come l’India, il Pakistan e il Messico a introdurre sementi ad alta resa e le moderne tecniche agricole nei loro campi. Sembra una banalità: ma proprio mentre i profeti di sventura levavano la loro voce per preconizzare carestie di massa a causa della crescita demografica, Borlaug discretamente mostrava che i “limiti allo sviluppo” non sono insuperabili: l’uomo li può vincere, e allontanare. Un piccolo uomo come lui ci riuscì prima, più e meglio di tutti: tanto che viene riconosciuto come il “padre” della Rivoluzione Verde grazie alla quale paesi ben oltre l’orlo della fame riuscirono a sfamare l’intera loro popolazione e, addirittura, a diventare esportatori di cibo. A lui viene attribuita la salvezza di un miliardo di esseri umani dalla fame – lo ripeto: 1.000.000.000 di persone.

Ci sarebbero tante, tantissime cose da dire su Borlaug: ne voglio ricordare una sola. Borlaug aveva fiducia nell’umanità. Il suo sforzo eroico – non trovo termini più appropriati – è servito a dimostrare che i problemi possono essere risolti. Occupandosi sempre di come sfamare l’umanità, più recentemente Borlaug è stato protagonista della lotta a favore degli organismi geneticamente modificati: basta leggere la sua prefazione al libro di Henry Miller e Greg Conko, Il cibo di Frankenstein (la cui edizione italiana, disponibile per i tipi di Lindau, è stata promossa dall’Istituto Bruno Leoni).  Per Borlaug, gli ogm non erano altro che un esempio di come la mente umana possa usare la tecnologia per superare i vincoli che ne restringono le capacità. Quindi, ancora una volta, uno strumento per sfamare il mondo.

Dunque, la soluzione ultima sta, come diceva Julian Simon, nell’ingegno umano. E quindi non c’è limite che non possa essere affrontato e spostato più in là: come è sempre avvenuto nella storia, e come sempre avverrà, grazie a individui straordinari come Norman Borlaug.

13
Set
2009

Il popolo della liberta’

Sulla scarsa attenzione della stampa italiana per il rally anti-Obamacare a Washington ha gia’ scritto Oscar. Credo si tratti di un momento davvero straordinario. Un po’ perche’ le manifestazioni di piazza in America sono cosa rara: venire a Washington da San Francisco non e’ come da Bologna andare a Roma. Farlo a spese proprie puo’ essere molto oneroso, e in questo caso non c’era una Cgil a offrire bibite, panini, e biglietti del treno. E un po’ perche’ organizzare una manifestazione del genere, senza una leadership politica, e’ inusuale a dir poco. Tant’e’ che ora il problema sara’ capitalizzare questo consenso. Le persone che hanno partecipato ai tanti town hall meeting e che ieri hanno invaso Washington sono di orientamento conservatore-libertario, ma con scarsa fiducia nel partito repubblicano (si vedano le osservazioni-lampo di Matt Welch su Reason). Pero’ la loro voce rischia di perdersi, se l’opposizione parlamentare non comincia a fare il suo lavoro. Nota bene: i giornali italiani scrivono 100.000 persone, 75 mila erano i partecipanti pre-registrati da Freedom Works. Ma se guardate le foto sembrano molti di piu’, tant’e’ che il britannico Daily Mail, non proprio il Wall Street Journal, spara la cifra di 2 milioni di persone. In piazza, ricordiamocelo, contro l’aumento della spesa pubblica. Con tutti i suoi difetti, che grande Paese.

13
Set
2009

Finalmente è chiaro, perché solo Lehman fu lasciata fallire

A un anno dal fallimento Lehman che fece evolvere la crisi finanziaria al panico, si sprecano gli approfondimenti e le opinioni su “a che punto siamo?”, visto che in buona sostanza il drive del big business finanziario sembra procedere trionfalmente su binari del tutto analoghi a quelli precrisi: meno conduits e SIVs esterni al bilancio, ma non meno leva e sempre col trading che batte di svariati multipli ogni attività tipica della banca commerciale tradizionale. Sul fallimento Lehman in quanto tale, che restò isolato e in quanto tale accende ancora il dibattito sul perché e come Paulson e Bernanke vi si risolsero, a differenza di quanto accadde prima per Bear Stearns e poi per AIG, Citigroup etc. Per approfondire, vedi qui e qui. Personalmente penso che un brandello di verità inizi a essere finalmente chiaro. Read More

13
Set
2009

Sani esempi di Paesi dove il 60% invoca meno tasse

Questa settimana nel Regno Unito avviene il rituale appuntamento annuale settembrino delle Trade Unions, la conferenza annuale nella quale il premier laburista annuncia i punti salienti della propria politica economica. Vi ricordo che attualmente i sindacati nel Regno Unito raccolgono solo il 16% dei loro iscritti dal settore privato, mentre tre dipendenti pubblici su cinque ne hanno la tessera in tasca. Con Gordon Brown, le Unions sono tornate a contare di più nel dilaniato Labour Party, felice di aver archiviato i lunghi anni blairiani che qui in Italia qualcuno definirebbe “mercatisti”, ma in rotta con l’elettorato che nelle suppletive ormai non esita ad attribuire ai candidati laburisti il quarto posto nelle preferenze dopo i Tories, i liberali, e i nazionalisti. Un buon esempio di come i media potrebbero trattare fasi politiche convulse della vita nazionale viene oggi dal  Sunday Times. Invece di dedicare paginate alle vischiosità caleidoscopiche interne della lotta a coltello aperta tra correnti del Labour e del sindacato – come si fa qui da noi a proposito di escort o di Fini versus Berlusconi – il quotidiano ha organizzato un bel sondaggio, dal quale emerge che il 60% dei cittadini britannici non hanno dubbi. Di fronte al maxi deficit pubblico browniano da 175 miliardi di sterline quest’anno, invocano come soluzione i tagli di spesa e di tasse. Solo il 21% pensa che si debba coprire la spesa attuale aggiuntiva alzando le imposte. Quando si dice un Paese serio. Ma a cominciare dalla stampa. Pensate che sarebbe davvero molto diverso, se il Corriere o il Sole commissionassero un sondaggio qui in Italia sugli stessi temi? Io penso di no.  A patto naturalmente di non confezionare le risposte alla domanda in maniera capziosamente filotassaiola.